26 maggio, 2008

Democrazia della forza o forza della democrazia

Vogliamo tutti che la monnezza se ne vada da sotto i nostri nasi. E tutti pensiamo che ci vogliono soluzioni anche drastiche perché questa storia è ben oltre ogni limite. Però… Ci sono dei però.

Il primo. Perché ci siano soluzioni drastiche serve la messa in discussione democratica dei responsabili politici locali. E non una loro messa in quarantena sulla base di un patto sotterraneo con il governo. Come la mette Giuseppe d’Avanzo (link a Repubblica di domenica): “Il governatore della regione Antonio Bassolino, giudicato ormai da queste parti alla stregua di un “dittatore africano” è preoccupato soltanto del suo destino politico in nome del quale si è felicemente abbarbicato al nuovo governo…”
Sì, qui si assiste a uno spettacolo paradossale e anche un tantino privo di decoro: il “bassolinismo” tutto intero, con accompagnatori a piedi e a cavallo - e non solo il suo inventore – dopo aver fatto uso del pericolo della destra, come spauracchio, volta dopo volta negli anni, per difendere i suoi equilibri interni e evitare o rallentare a dismisura ogni rigenerazione del centro-sinistra, oggi non solo rischia ma quasi saluta il ritorno di quella destra che da co-partecipe al medesimo sistema di potere in posizione seconda ne può presto diventare principale erede. Dopo aver arrestato ogni anelito di cambiamento nel nome del “nemico alle porte”, ci “porta”, insomma, in casa proprio la peggiore destra con l’aggravante di farlo in modo giulivo e servile. Questo gioco di malsana continuità va pur rotto. Per questo l’ho detto pubblicamente e più volte in tempo utile e lo ripeto anche se è tardi: se ne devono andare. Perché nella vita ogni cosa è credibile o meno anche in misura di chi la propone. Perché in democrazia è accettata l’idea che chi è politicamente responsabile per un grande disastro nella gestione della cosa pubblica deve lasciare; e non può pretendere di giocare i tempi supplementari avendo però perso quelli regolari 6 a zero.
Anche se questo costa il rischio del passaggio di comune, regione e provincia da sinistra a destra? – mi chiede un amico. Ahinoi sì. Perché il rischio c’è comunque, anzi ve ne è la quasi certezza, proprio grazie a costoro. E perché è anche l’unico modo sia di resistere a questa evenienza sia di ricostruire una qualche credibile prospettiva futura.

Il secondo. Si prospetta, intanto, un vero aggravamento delle condizioni di diritto entro le quali hanno luogo, in generale, soluzioni ai problemi civili dei cittadini italiani. Invito a leggere con attenzione vera il decreto del governo sui rifiuti campani, prontamente firmato dal Presidente della Repubblica e in via di attuazione intanto a Chiaiano. Che rappresenta non solo un fatto ma un precedente. In esso sia l’idea di classe politica locale che le sue prerogative che le procedure normali della democrazia sono cose gettate alle ortiche. A me non piace tutto ciò. Credo che si tratti della cosa più distante possibile dal decidere insieme. E dagli esempi virtuosi dei nessi tra partecipazione ed efficacia delle misure di cui, anche in materia di rifiuti, abbiamo molti esempi nel mondo: da San Francisco, California a Vico Equense, prov. Di Napoli. Ma riconosco come amaramente vero quel che dice Macry sul Cormez di domenica: non si potrà stare a lungo in un limbo del tipo “né con il decreto di Berlusconi né con la protesta di Chiaiano”. E so bene che tutta questa messa in discussione delle procedure democratiche deriva da un tremendo vuoto, sia decisionale che partecipativo, che il centro-sinistra campano ha cullato per anni. Mariano Maugeri la dice così: “l’autoritarismo è figlio solo dell’inerzia di una classe dirigente” dai “comportamenti così intimamente ambigui e manifestamente errati” che “gli psicoanalisti direbbero che si è vaporizzato il principio di autorità fondante dei consorzi umani”.

Nella speranza che intanto non avvengano cose davvero gravissime, forse ci si deve vedere a breve, come propone Daniela. E parlarne almeno. Un momento di pausa a Chiaiano come e per arrivare a cosa? La ripresa del dibattito sul differenziare sul serio a Napoli come e dove? il non arrendersi alla logica dell’emergenza o a quella del velleitarismo senza proposta, con chi? Insomma un piccolo forum delle vie ragionevoli. Se non il 2 giugno, festa della Repubblica ma anche santo ponte da spiaggia, il 3 o il 4 ci si potrebbe incontrare, anche in pochi, su ciò?

Poi, forse sarebbe anche ora di far peccato e dunque pensar male. Mi piacerebbe che, con calma e grazia – al netto di salamelecchi e chapeau- ci si interrogasse, per esempio, sul come mai nel decreto di governo venga lasciato in vita l’intero castello fallimentare della gestione dei rifiuti senza ledere consorzi né società miste che ci hanno pur accompagnati sul ciglio di questo baratro. O ci si domandasse se, sull’orizzonte di queste vicende, a destra e a sinistra, vi sia o meno un suono che si ode e non si ode, come il richiamo delle sirene, e che ogni tanto, a tratti, di lontano pare soavemente ripetere la strana parola “impregilo”.

16 maggio, 2008

Su quello che accade nei campi rom a Ponticelli.

Non sarò breve.

1. C’è uno scenario di anni che sta a monte delle “giornate di Ponticelli”. E in assenza di un qualsivoglia segnale da parte del sindaco sarebbe atto dovuto che almeno il presidente del consiglio comunale di Napoli riunisse subito il consiglio, per un dibattito pubblico dove ricostruire con attenzione le premesse di questa crisi di inaudita violenza, che vanno reperite, almeno a partire dal dicembre del 2003, data in cui il comune di Napoli fece una delibera a favore dell’accoglienza di rom in una struttura di Via Botteghelle.
Quali sono stati i passi fatti per integrare i rom nel quartiere, le proposte disattese, i passaggi partecipativi effettuati o meno, i fattori di accumulo delle tensioni, le differenti opzioni scelte o scartate? In democrazia non è mai inutile, quando scoppia una crisi, rivederne le cause con cura davanti alla cittadinanza. Si farà? Oggi io sono pessimista. Non si farà. Perché non ci sono più sensibilità politica in senso proprio né la santa abitudine alle procedure minime. Non c’è più tenuta alcuna.

2. Così oggi accade a Napoli che ci si debba misurare emotivamente con i nudi fatti, per come scuotono ciascuno di noi.
Ne elenco una sequenza, senza ordine ma così come mi riviene alla mente. Mentre la prefettura aveva annunciato agli uffici comunali l’intenzione di ricorrere a uno sgombero legale dei campi, per ragioni igienico-sanitarie, avviene, dinanzi alle telecamere della Rai, che bande di giovani e meno giovani, spesso con precedenti di mala, assaltano le baracche rom e le bruciano lanciando molotov dai motorini, mirando non solo ai luoghi ma alle persone. Nelle strade vicine si dice, a loro convinto sostegno, che lo fanno per “vendicare i furti di bambini”.
Sarebbe, insomma, questa la risposta all’episodio di intrusione in una casa del quartiere da parte di una minorenne, subito assicurata alla giustizia e sulle cui circostanze e responsabilità la magistratura stava già indagando. Ma, interrogati dai molti giornalisti presenti sui luoghi, i giovani, divisi in piccoli gruppi di incursori, ammettono altro: che le attività illegali dei rom fanno aumentare la presenza, per loro fastidiosa, della polizia nel quartiere e che i rom sono loro diretti concorrenti nell’accumulazione di ferro, alluminio e rame, rubato e non, da rivendere. Tanto è vero che, bruciato un campo, i poliziotti sono costretti ad allontanare le bande di predatori che intendono “riprendersi rame e ferro”. “Non è ora il momento” – dicono. I vigili del fuoco intervengono per spegnere i roghi. E vengono scherniti in modi indicibili mentre si assicura loro che, in ogni caso, si tornerà all’assalto con nuove molotov le quali, nel nostro codice penale, sono classificate armi da guerra. Ma la polizia non interviene. Donne del quartiere, davanti alle tv nazionali e locali, ballano e urlano come nelle feste delle orde; e esaltano la vendetta contro un’intera comunità nomade, rea di essere tutta intera “ladra di bambini”.
Viene fatto un ultimatum di sgombero campo dopo campo. Ma non dallo stato come è avvenuto a Bologna o a Roma. No. Qui lo stato ha da tempo perso ogni monopolio della forza. E’ un diktat recapitato non si sa come e da chi ai rom assediati. E’ avvalorato da pezzi sparsi di camorra di quartiere o così si dice e si ripete ai giornalisti. Come dire: siamo noi del “sistema” a proteggere la popolazione del quartiere dagli zingari cattivi, a fare non già da ronde ma da incursori incendiari.
E così resta il fatto che roghi e minacce producono una fuga notturna di circa 500 persone, protette da sparuti gruppi di poliziotti e dai volontari della Caritas che, circondati da una folla pronta e attrezzata al linciaggio, quello vero, ha trovato i furgoni e ha portato, viaggio dopo viaggio, decine di persone fuori dal pericolo sistemandoli per la notta in decine di abitazioni di cittadini civili di questa città. Un esodo dal sapore terribile, avvenuto nel terrore di vecchi, donne, bambini inermi. Che mette per sempre a tacere tutti i tentativi di integrazione di questi anni. Nelle aule del 88° circolo didattico dove tra pochi giorni avrebbe dovuto concludersi un progetto tra bambini rom riconquistati alla scuola pubblica e altri bimbi del quartiere – un lavoro basato sulla narrazione di fiabe rom, che uniscono – i bambini di Ponticelli coinvolti piangono: “Abbiamo visto i nostri compagni fuggire piangendo tra la folla inferocita”. Alla fine del saccheggio successivo ai roghi bande di squadristi rovistano tra le povere cose lasciate.

3. Questi eventi inauditi hanno luogo in un clima cittadino di ignomignoso vuoto istituzionale e politico. Più che irresponsabile, delirante. Nessuno che abbia una funzione di rappresentanza politica è lì sul posto insieme alle forze dell’ordine che difendono almeno l’incolumità fisica delle famiglie sotto minaccia fisica. Né un parlamentare né un solo rappresentante di comune o provincia o regione. Tacciono sindaco, governatore e presidente della provincia. E nessuno è in grado di parlare con le due parti. Mentre vengono lanciate le molotov i partiti di destra e il PD all’unisono chiedono lo sgombero e l’immediato smantellamento dei campi. Senza commentare gli eventi fuori da ogni legalità repubblicana.
Il manifesto del PD resterà nel tempo una vergogna: confonde crisi dei rifiuti e campi nomadi e, nel mezzo del linciaggio, chiede che sia restituita sicurezza ai cittadini di Ponticelli minacciati. Fa molto meglio la mamma della piccola Camilla: “non volevo questo”. Ma c’è anche di peggio: la prefettura e il comune, intanto, si permettono di litigare pubblicamente su dove spostare le famiglie già in fuga e avviene addirittura la disdetta del tavolo di concertazione tra le istituzioni sulla gestione della crisi. E’ un atto di una gravità mai vista prima in Italia nel mezzo di una tale emergenza. Intanto, imperterrito, un assessore regionale (non mi viene manco più voglia di scrivere il nome) dall’innocentissimo pulpito del palazzo della Regione Campania - decide che è proprio questo il buon momento per scagliare finalmente la prima pietra contro il sindaco e gli amministratori comunali che, a loro volta, sotto la pressione della piazza organizzata dai rappresentanti zonali della loro stessa maggioranza – che è la stessa della regione – avevano pensato bene di dedicarsi a contestare tardivamente quanto deciso dal commissario straordinario in materia di siti per i rifiuti.

4. Comunque molte persone si chiedono: la ragazzina rom voleva davvero prendersi una bimba secondo quanto è nella paura più profonda, atavica, radicata? I giudici stanno indagando. Vedremo. Ma, intanto, va ricordato qualcosa che si ripete nel tempo nella storia umana. Da sempre - nei confronti delle popolazioni con forte identità autonoma ma in posizione di minoranza e marginalizzate - si ripete, di generazione in generazione, tra le molte accuse ricorrenti, quella di furto dei bambini. Ciò avviene da parte di maggioranze non necessariamente coese, anzi. La maggioranza, attraversata da reali e profonde differenze sociali e culturali, conserva tuttavia pretese di omogeneità; e, proprio perché divisa al suo interno, indica nelle popolazioni di minoranza le alterità, a conferma della propria identità unitaria. Così l’accusa di furto di bambini è stato gettata addosso a ebrei e nomadi in Europa, alle popolazioni di origine africana o ai nativi nelle Americhe colonizzate, alle minoranze tribali entro le differenti zone di altra maggioranza tribale in molte parti dell’Africa, agli armeni in Turchia, ai kurdi in Siria o in Iraq, alle popolazioni autoctone nella Siberia colonizzata, ai nomadi non arabi nel Magreb, ai turcomanni in Cina ecc.
E’ un pericolo, un’evenienza minacciosa che sta lì, ripetuta dalle narrazioni diffuse, che si nutre di leggenda. In questo, la funzione degli stereotipi, che vengono diffusi e ripetuti spontaneamente, è di avallare o indurre o diffondere conformismi di massa o di gruppo, confermando il già noto o più esattamente il presunto noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio e di scontato.
Gli stereotipi si possono identificare con il senso comune o sapere di tutti. Non si tratta di una verità ma di una convinzione. Che è riproduttrice di una disinformazione che serve alla coesione interna di una società che coesa non è. E che permette di rassicurare e di avallare i conformismi sedimentati nel tempo e di demotivare la ricerca, il dubbio, il pensiero divergente. E’ qualcosa di sordido e ripetuto, che oggi gode di un grande megafono nei media. E che si nutre delle categorie del nemico, del minaccioso. Da sempre accadono episodi grandi o piccoli a conferma degli stereotipi. E tali episodi avvengono spesso nei passaggi della storia nei quali le maggioranze sono attanagliate da una condizione o da una sensazione di crescente insicurezza intorno al proprio status economico o alle aspettative di futuro o ai valori dichiarati che non corrispondono più a quel che viene percepita come la situazione effettiva. Come accade oggi nel nostro paese e non solo. E quando le divisioni sociali aumentano senza che siano pienamente rappresentate entro un conflitto codificato e regolato.
E’ in questo tipo di atmosfere generali che, nella storia, accade che qualcuno della minoranza accusata, quasi sempre un singolo “in rappresentanza di tutti”, spesso più fragile, si venga a trovare - nella accusa diffusa da gruppi della maggioranza o anche effettivamente - in una posizione tale da confermare gli stereotipi che sono costruiti addosso alla sua identità di appartenenza. E nella storia ciò accade sovente in territori di confine, lì dove le parti più fragili delle maggioranze si trovano nelle vicinanze o in prossimità o a contatto delle minoranze altre. Come nel caso di Ponticelli, esattamente. E’ in questi contesti particolari e speciali che, poi, prendono forma episodi inventati o anche reali. La ragazzina rom era lì? Ma cosa stava facendo e come viene rappresentato quel che faceva da quel gruppo in quel momento nell’atmosfera generale e di confine?
Spesso accusati e accusatori sono entrambi in una situazione complicata, strana, intermedia, ambivalente e di reciproca paura. La conferma dello stereotipo si trova ad essere suggerito anche da un agito dell’accusato? Viene confermato dalla convinzione radicata di chi accusa? Insomma se sei considerato ladro di bambini da una enorme maggioranza di persone nel cui mare tu ti muovi come “diverso” da generazioni vi è la possibilità che tu ti trovi, per spinta inconscia o altro, in una situazione intermedia e di confine, ambigua, pericolosa, nella quale fai gesti, esprimi intenzioni, sei presente in luoghi, dici cose che vengono presi, ampliati, ridefiniti e ricostruiti a posteriori – da parte di chi crede in tali stereotipi ed è attanagliato da paure profonde - in modo che tu possa risultare effettivamente “ladro di bambini”. Sì, accade che persone vittime di stereotipi si trovino a vivere una posizione che può confermarli nello stereotipo. Ma tutto ciò, però, può avere luogo solo quando alla crisi culturale e sociale di intere comunità corrisponde la pochezza dei pubblici poteri, privi di quella autorevolezza minima che consente la basilare funzione di dare parola e atto alla legge, a salvaguardia della convivenza civile.

Le foto sono di Philippe Leroyer e sono state scattate a Parigi in occasione di una manifestazione di rom nel dicembre 2007.

04 maggio, 2008

Scrutare nuovi paesaggi

Siamo in un paesaggio politico altro. Come quando si attraversa una frontiera. Immersi in un clima di destra, profondamente fondato - come ho scritto su Repubblica Napoli.

Non fa piacere doverlo pensare ma è un’atmosfera che non è più legata solo a Berlusconi ma all’idea del capo. E che non durerà poco.
Non è il conservatorismo britannico, ora all’assalto, né quello francese. Non ne condivide i liberalismi; anzi è statalista e protezionista. E non ha affezione per il rigore dei conti pubblici: “se ne frega”, come la maggioranza del popolo italiano, del rientro nei parametri di bilancio. E denigra il senso dello stato. Perché ripete la tradizione della destra italiana che è, invece, quella del “sovversivismo delle classi medie”. Con il linguaggio che parla di fucili, discese a Roma e saluti romani. Con il fastidio per le procedure, i ruoli, le regole. E con la predilezione per l’urlo risentito.

Tolta la sinistra che deve affrontare un lutto epocale e tolto il grillismo che è vitale e, infatti, condivide con la destra sia l’urlo risentito che la predilezione del rapporto diretto tra folla e capo, molto del PD, unica opposizione di massa alla destra, appare un arnese preistorico. Quasi inutilizzabile così com’è. Eppure è, appunto, l’unica risorsa collettiva disponibile. Un bel paradosso.
Quando è serio - come nel caso di Prodi che rivendica con puntiglio i risultati buoni e veri – è perché è morto, privo di ogni elemento vitale. Ci si inchina al funerale. Quando è “vorrei ma è andata male” – come nel caso di Veltroni – è fragile. Perché esprime il desiderio di quel che sarebbe potuto forse essere, che non basta mai e che verrà attaccato ferocemente dai vecchi modi delle stantie certezze, come già sta accadendo e dalle nomenclature che questo sanno fare, e bene; e perché è davvero “andata male”. Quando è come è stato in Campania – l’arroganza e l’immobilismo di un potere fallimentare per tutte le istanze di speranza - è un vero peso morto. Che tira verso il fondo chiunque si avvicini, come l’uomo che non sa nuotare e verso il quale c’è una sola opzione: o dargli un cazzotto in testa, farlo svenire e trascinarlo a riva (ma bisogna essere certi di saperlo fare) o lasciarlo al suo destino. Perché, altrimenti, ti tira giù con sé.

Faticano quelli che hanno vissuto dentro le logiche di partito a scrutare questo paesaggio. Anche i migliori. Perché lo vedono di destra. Ma non vedono quanto è nutrito di istanze profonde, deflagranti perché disattese da decenni. Si soffermano, infatti, sugli errori di conduzione della campagna elettorale o di comunicazione o di tecnica della politica, che pure ci sono stati. O quasi solo sulla questione sicurezza. O sul radicamento territoriale, ma come questione organizzativa.
Non colgono i dinamismi e le vitalità che hanno dato corpo alla vittoria di destra: le aspirazioni e le pretese di milioni di persone, l’elemento di individualismo, di ricerca disinibita delle proprie libertà e opportunità, la voglia di farcela da soli, di provare a fare comunque e di gettare alle ortiche le regole e le complessità pubbliche e civili.
E non colgono la prepotente voglia di sentire parlare di soluzioni concrete. Né la questione dei tempi, delle relazioni autentiche tra persone, della domanda di identità, degli stili, del metodo politico, tutte questioni ricche, che questo paesaggio di destra pone. Anche a chi – di sinistra e centro-sinistra - vuole rilanciare un modello solidale e condiviso.

E diciamolo: tutto questo si vedeva venire avanti. Tra molti amici ci ponevamo le domande di merito. Abbiamo pure provato a fare altrimenti, nel nostro piccolo.

Eravamo più avvertiti o intuitivi o semplicemente meno disposti a bearsi in illusioni? Ci piaceva fare le Cassandre? Eravamo più solerti a vedere le cose in arrivo per abitudine ai viaggi della mente o per le letture o per lo sguardo su luoghi nello spazio e nel tempo altri da questo o per una po’ di libertà interiore in più, che ci tratteneva dal recintarci nello schema amico/nemico o dal accontentarci di analisi fondate sulla mera tecnicalità o miope “cazzimma” politica che dir si voglia? O forse non avevamo territori, carriere, convenienze e abitudini da difendere più di tanto?

Mah? Tanto, dirsi che, almeno un po’, avevamo capito prima, pur con le ingenuità e gli errori, non è di consolazione.
Ora viviamo in questo paesaggio. Che ci è dato esplorare con umiltà. E a cui risponderemo nel tempo. Ognuno per quel che sa e può.

Eppure c’è – è nelle cose stesse – una fatica ulteriore. Bisognerà, infatti, domandarsi, seriamente, se e come confrontarsi e scontrarsi con chi – PD da smontare e rimontare?, sinistra da ricostruire? - ha fatto politica così come l’ha fatta o se rischiare di restare fuori, ancora una volta più coscienti ma comunque disarmati.
Questa opzione, faticosa davvero, può essere ignorata sul piano personale, individuale. Ci si occupa d’altro nella vita. Va bene.
Sul piano politico, in senso proprio, pretende, invece, una risposta.
E non nascondo che sia sul piano personale che su quello politico vivo un momento di esitazione.

Una cosa è certa: è finalmente chiusa l’epoca del ricatto delle emergenze e del ricompattarsi subito contro il nemico. La chiamata repentina alle armi dietro a personaggi e schieramenti, senza affrontare cose di merito e capire per quale campagna armarsi non ha ragion d’essere.
Almeno questo vantaggio prendiamocelo: regaliamoci temi di merito e gesti, ritmi, luoghi, discussioni, dove è possibile fare domande, capire, inventare, esplorare e proporre nel merito. Tra persone diverse.