11 agosto, 2008

Una bella lettura da Fabrizia prima di Ferragosto

Ho deciso di non commentare le vicende napoletane in questo mese: troppo inutile o dannosa appare la cosidetta politica (che tale non sa proprio essere) dinanzi alle cose vere della vita in città... e pure la vicenda italiana appare davvero deprimente.
E' ancora di più il tempo per tornare ai problemi veri, lontano dai famosi teatrini e a tal proposito segnalo un mio intervento sulla scuola che continua a perpetuare l'ingiustizia sociale (è sul denso e interessante sito della Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro).

E ecco - come omaggio d'agosto in ricordo di altre estati - la bellissima ultima intervista a Fabrizia Ramondino:


"Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono…"

A colloquio con Fabrizia Ramondino
a cura di Franco Sepe


Il titolo alla nostra intervista, che riprende testualmente la citazione messa in epigrafe al tuo libro di racconti intitolato Arcangelo, hai voluto sceglierlo tu. Perché?

Non sono parole mie. Circa trenta anni fa ogni estate o appena potevo andavo sulla Costa Amalfitana, nel Vallone di Laurito, lontano dal turismo di massa, dove assieme a una piccola comune di amici avevamo preso in affitto una casa contadina. Avevamo fatto amicizia con alcuni pescatori e contadini, fra i quali Mario, che una volta sulla spiaggia al suo ritorno dalla pesca, seduto sui ciottoli disse questa frase, soppesando in mano con pensosa gentilezza resti di antichi vetri, mattonelle, stoviglie, levigati dal mare. Ora non si trova più niente, solo frammenti di plastica, né conchiglie, stelle di mare, carcasse di ricci. Mario, che non si era mai mosso da Laurito, tranne che per un breve e infelice tentativo di emigrazione a New York, si chiedeva questo e altro. Una domanda che mi ha indotto a chiedermi che cosa mi interessasse in letteratura: la curiosità verso questi insignificanti frammenti del passato suscita il racconto e il bisogno di restituire i morti ai vivi. Un po' come è accaduto a Proust con la sua madeleine.

Ma anche per te, in quel ritrovamento, c'è qualcosa di perduto.

Sì, la perdita del mare vivo e non distrutto dall'inquinamento, come è nelle sorti del pianeta; oltre che dal turismo di massa, popolare o chic che sia. Siamo lontani dai bei documentari sulle vacanze pagate introdotte da Léon Blum nel '36 in Francia. Una volta erano possibili relazioni umane tra il ceto educativo, al quale appartenevo, e quello proletario. Non ti sentivi un turista. La diseguaglianza sociale non era così grande come ora.

Pensi che il tuo pessimismo ecologico sia in qualche modo in relazione con il tuo personale processo di invecchiamento?

Certo, ho più difficoltà a correre, nuotare, tuffarmi, camminare sugli scogli, scalare montagne, andare in bicicletta. Ma questo non c'entra con quanto vedo, osservo, sperimento in natura. Ti faccio solo un esempio: questa estate ho voluto fuggire il caldo nel bosco di Campello sul parco dei Monti Aurunci, in una tenda. Non lo avessi mai fatto! I giovani più poveri del paese, quelli che non possono permettersi le Maldive, hanno trasformato quei luoghi e quelle notti in una discoteca, mentre più giù divampavano gli incendi. E immondezza ovunque. Se si dispregia a tal punto il proprio luogo, se la luna è offuscata da luci artificiali, se all'ascolto del fruscio degli alberi e degli uccelli notturni si sostituisce musica violenta, allora il mondo è perduto. Ed è un piccolo esempio fra i grandi che devastano il mondo e di cui ci dicono gli economisti più consapevoli. Quanto più sento avvicinarsi la decadenza e la fine della mia vita personale, tanto più vorrei felice e piena di speranza quella dei giovani.

Pensi che tu, come rappresentante di una generazione più adulta, sei corresponsabile?

Certo. Non posso costruirmi un passato esemplare, né un presente esemplare. Tuttavia per formazione, per necessità e per scelta, non sono mai stata consumista, né nell'accumulare beni, anche futili, né nel deturpare la natura. Per esempio non ho mai avuto una macchina, né una lavastoviglie e le mie vacanze si svolgevano in luoghi appartati e non toccati dal turismo di massa che raggiungevo in autostop, bicicletta, treni, traghetti, alloggiando in povere case d'affitto, ostelli della gioventù, tende. E già negli anni '60 i miei amici e io avevamo l'abitudine di ripulire le spiagge non solo dei nostri rifiuti, ma anche di quelli degli altri. I grandi viaggi intercontinentali che ho fatto (Repubblica Popolare Cinese, Canada francese, Australia, Sahara) non sono mai stati turistici, all'insegna per esempio di Avventure nel Mondo, ma sempre con uno scopo politico o culturale. Piccoli gesti, che non sempre compi e che comunque non giustificano irresponsabilità maggiori.

Hai anche cercato di contrastare questo andazzo con il tuo lavoro sociale con i bambini e gli analfabeti dei vicoli di Napoli, con la tua collaborazione fin dagli inizi degli anni '60 all'AIED, dove, come mi hai raccontato una volta, insegnavate alle donne a usare il diaframma anche di nascosto dai mariti, con le tue iniziative sociali verso i Disoccupati Organizzati, negli anni '70, dopo il colera, con la tua testimonianza sull'esperienza basagliana di Trieste o con la tua solidarietà espressa verso il popolo sahrawi, in esilio dal '75.

Come donna, come persona, come napoletana sono stata sempre impegnata nella questione sociale, poco dal punto di vista ideologico molto a livello concreto. La sinistra ufficiale, soprattutto quella comunista, tranne eccezioni, ha spesso considerato le nostre iniziative come inutili – la classica goccia nel mare – o addirittura le ha contrastate. Per formazione politica appartengo al filone del socialismo libertario – la mia tesi di laurea su Proudhon fu pubblicata nel '65 sulla rivista anarchica VOLONTÀ, fondata da Giovanna Berneri, il cui marito Camillo fu ucciso durante la guerra di Spagna dagli stalinisti. Ovviamente ho salutato tutte le rivoluzioni sociali, da quella di Masaniello e di Cromwell alla rivoluzione francese alla Comune di Parigi a quella bolscevica. E naturalmente la lunga marcia di Mao. Ma il potere è una brutta bestia, logora e corrompe chi ce l'ha. Per me esercitare il potere significa che già mentre lo eserciti lo condividi e lo estendi a quanti più individui possibile.

E secondo te come si combatte il potere?

Tanto i grandi poteri, che provocano guerre fra popoli, opprimono le libertà individuali, ignorano il senso del limite, quanto quelli quotidiani, familiari o amicali, si combattono con l'immaginazione, la facoltà di immedesimarsi nell'altro, popolo o singolo che sia. E soprattutto con la diffusione dell'istruzione e della cultura – la vera cultura che non ha niente a che fare con l'indottrinamento ideologico o con l'uso che ne fanno sempre più i mezzi di comunicazione di massa. Se fossi un ministro della pubblica istruzione introdurrei già all'asilo l'insegnamento della musica classica antica e moderna, che con il suo metalinguaggio unisce invece di dividere. Kafka sosteneva che la cosa più difficile al mondo sono i quotidiani rapporti umani. Penso che se questi migliorassero, ci sarebbero meno guerre. La pace comincia in casa, nella comunità, nella polis.

Che cosa hanno significato nella tua storia le parole pace e guerra?

Da bambina ho sperimentato i bombardamenti tanto durante la guerra di Spagna che poi a Napoli nel '44. E ancora oggi non sopporto i botti di capodanno. Ora che vivo a Itri sono circondata da rovine che risalgono ai bombardamenti durante la battaglia di Montecassino. L'unica battaglia che mi piace è quella del nobile Hidalgo contro i mulini a vento.

Credi al male?

Certo, ma non in senso religioso, piuttosto in senso leopardiano. Ricordo una frase di Brecht: "La madre delle guerre è sempre incinta", che volgo in "La madre dei cretini è sempre incinta". Per me il male maggiore risiede nella stupidità umana. Anche nell'abuso della parola pace. Ricordo la lapide, nel cimitero di Poggioreale a Napoli, del padre di una mia vecchia amica, fondatore alla fine dell'Ottocento del Partito Socialista. "Non riposa in pace. Finché…". Ecco io non riposerò mai in pace, finché…

E quindi non credi in Dio?


Faccio mia la frase di Simone Weil: "Cercandomi, sedesti stanco". Penso che ciò che chiamiamo Dio sia presente in tutte le creature animate e inanimate e che ci renda consapevoli della nostra finitezza.

Come riconosci la tua finitezza?

La riconosco tanto nei limiti del mio corpo che della mia facoltà di comprendere. E più in generale nei limiti della conoscenza e del sentire umani. Mi riconosco nel bambino piccolo che chiede continuamente: perché perché?

Ti è mai stata mossa l'accusa di essere egoista?

Sì, ma credo ingiustamente. Se avessero detto egocentrica o egotista mi sarei riconosciuta.

Perché?

Perché credo che nell'accezione comune egoista significhi il contrario di altruista, qualcuno cioè che pensa solo meschinamente a se stesso o che pretende di rendere il mondo intorno a sé simile al proprio. Mi riconosco piuttosto nella definizione di egocentrica o stendhaliana di egotista: essere centrati su se stessi, tanto nel tentativo di "conoscere te stesso", quanto in quello di immaginarti diverso da te stesso. Questo non significa che non abbia peccato di egoismo. Come mi accade con il mio gatto, l'unico essere vivente con cui vivo stabilmente. O con le piante, quando sono troppo pigra per staccare le foglie secche. Ma se per egoismo la gente intende egocentrismo, m'inalbero prima, talora sono anche volgare nel linguaggio, ma poi tendo a ritirarmi sempre più.

A proposito del ritirarsi, a me sembra che, quando ti ho conosciuta circa una ventina di anni fa, tu ti ritiravi meno dal mondo, anche a Berlino.

E' vero. Ma se penso alla mia infanzia, adolescenza, età adulta il momento del ritiro in me stessa conviveva con un atteggiamento panico verso la natura soprattutto, ma anche verso gli altri esseri, animali o umani. In questo senso ero divisa, e lo sono ancora.

Non senti alcuna nostalgia verso il passato, non ti conforta il fatto di aver prodotto un'opera letteraria?


La nostalgia verso il passato è un inutile ingombro. Non può tornare e ne prendo atto. Trovo ridicolo o tragico voler prolungare giovinezza o vita, come è tanto di moda oggi. Per quanto riguarda l'opera scritta, è là. Io di norma non mi rileggo. Né sono in grado di giudicarne il valore o disvalore.

Quali sono le ragioni primarie che ti hanno indotto a scrivere?

Alcuni esempi familiari e la passione per la lettura. E la mancanza di educazione, di stimoli e di doti in altri ambiti culturali, come l'arte e la musica. Poi la curiosità per le parole, accresciuta dalle tante esperienze linguistiche dell'infanzia e della prima adolescenza: l'italiano, lo spagnolo, il catalano, il napoletano, il francese.

Per te la scrittura ha avuto anche una funzione terapeutica?

Certo, è un modo per elaborare il dolore, per abbandonarsi alla gioia panica, per disciplinare emozione e immaginazione attraverso un paziente esercizio artigianale.

C'è nella memoria della tua infanzia, e del tuo passato in generale, un nucleo che ancora resiste e si oppone alla trasposizione estetica?

Penso che ci sia, ma non so quale sia questo nucleo di resistenza. Conosco invece un'altra mia resistenza: quella di scrivere a comando o su ordinazione, non solo di altri, ma della mia propria volontà. Una domanda spesso rivoltami e che detesto è questa: che stai scrivendo, stai preparando un nuovo libro? Come se fossi un'impiegata della scrittura e non potessi mai andare in ferie o in pensione. Come se tutta la mia vita fosse ridotta all'esercizio di un mestiere.

C'è un nesso tra la tua reticenza a parlare nei tuoi libri del periodo trascorso in Savoia, e la morte di tuo padre?

Sono vissuta in Savoia dagli undici ai tredici anni, frequentando le scuole francesi, e poi vi sono tornata spesso. Qui è avvenuta la mia fondamentale formazione letteraria e sentimentale. Il francese è la mia seconda lingua e infatti l'ho insegnata per anni. Ma c'è stato un grande trauma: la morte nel '50 di mio padre davanti a mia madre e a me. A proposito della reticenza ti racconto questo episodio: quando Natalia Ginzburg, stimolata da Laura Gonsalez, Carlo Cirillo, Elsa Morante, leggeva il dattiloscritto del mio romanzo Althénopis, mi consigliò di ampliare le pagine dedicate a mio padre, pensai, ma non osai dirglielo, "non ti rendi conto che non si tratta di ampliare o migliorare la descrizione di un personaggio, ma che si tratta della rimozione di un trauma profondo!" Per molto tempo ho sentito che la morte di mio padre equivalesse all'avermi abbandonata. Solo dopo, con un grande sforzo psicologico, sono riuscita a non mettermi al centro del mondo rispetto a lui, ma a considerarlo indipendentemente da me e gli ho dedicato un racconto contenuto nella raccolta Storie di patio dal titolo "Il prefetto Luigi Ferdinando Baldaro". Anni dopo gli ho dedicato un capitolo nel libro In viaggio.

Fra i tuoi libri ve ne sono alcuni di marcato impegno sociale come: "I disoccupati organizzati. I protagonisti raccontano" (Feltrinelli, 1977), "Polisario. Un'atronave perduta nel deserto" (Gamberetti, 1997), "L'isola dei bambini" (Edizioni e/o, 1998), "Passaggio a Trieste" (Einaudi, 2000), mentre tutti gli altri, tematiche autobiografiche a parte, sono opere di immaginazione. Perché questa dicotomia?

Credo corrisponda al mio modo di essere nel mondo. D'altra parte una delle difficoltà che incontrano i lettori e i critici rispetto ai miei libri è quella di non riuscire a catalogarmi in un filone preciso: non è una scrittrice napoletana, non è un poeta, non è una drammaturga, non è una saggista, non è una romanziera. Ma perché si dovrebbe entrare in un solo cassetto? In quale cassetto chiuderesti ad esempio Pasolini?

Che cosa ti ha spinto a scrivere con Mario Martone le sceneggiature di Morte di un matematico napoletano e dell'episodio "La salita" nel film collettivo I vesuviani?

E' stata una fortuita e fortunata coincidenza. Mario mi chiese di collaborare alla sceneggiatura del "Matematico" e io all'inizio rifiutai. Poi accadde qualcosa in me: il matematico Renato Caccioppoli era stato grande amico di gioventù di mia madre e di alcuni zii e zie e rappresentava un mito giovanile per me perché era a Napoli un outsider come mi sentivo io stessa negli anni '50

E il teatro?

Ho scritto varie pièces teatrali di cui due soltanto rappresentate e pubblicate, le altre sono nel cassetto. Non so se un giorno avrò voglia di tirarle fuori.

Sembra quasi che in te il mestiere di scrittore sia nato sulle ceneri del tuo lavoro sociale e politico. O non trovi che sia così?

Non è così. Ho cominciato a scrivere racconti, romanzi e poesie fin dall'adolescenza e ho continuato anche durante gli anni più intensi del mio impegno sociale e politico. Ho solo pubblicato tardi.

Come è avvenuto l'impatto con la scrittura?

Dopo aver sperimentato la differenza tra parole e cose, che non corrispondevano, prima in Spagna e poi nella penisola sorrentina, durante gli ultimi bombardamenti tedeschi, è accaduto in Francia che, come per miracolo, parole e cose cominciassero a coincidere. Ero adolescente e la lingua francese è diventata la mia lingua. Verso i quattordici quindici anni ho scritto le mie poesie in francese. Solo a fatica e molto più tardi ho avuto dimestichezza con la lingua italiana. Nell'intrico di lingue nel quale ero vissuta, a cui bisogna aggiungere poi il tedesco, e nel disordine dei miei studi di base e poi universitari, la letteratura italiana mi era poco nota, anche a causa dei pessimi insegnanti. Tramite mio marito e i suoi amici, ma prima ancora nei viaggi in autostop con un mio cugino durante i quali leggevamo Montale Ungaretti e Campana, ho letto Ariosto Tasso Dante Leopardi. Ma tra i miei grandi momenti d'introduzione alla letteratura italiana c'era anche un prete spretato napoletano, che mi chiese di battere a macchina sotto dettatura un suo saggio su Dante e che, stimolato dalla mia ignoranza, generosamente rinunciava alla sua segretaria per leggermi la Commedia e spiegarmela. Era quello, verso la fine degli anni Cinquanta, un tempo felice in cui chi nel PCI chi nel PSI – litigando ovviamente – si leggevano i poeti, Lorca Neruda Prévert Majakovski, si mangiava insieme, si sbevacchiava poco: poesia e politica avevano il sopravvento su alcol e sigarette. Al circolo del cinema veniva Nazim Hikmet, che ci introduceva in altri mondi. E con l'immaginazione si andava oltre la nostra misera politica italiana e napoletana.

Quali sono stati gli scrittori più importanti per la tua formazione letteraria?

Tanti, nell'adolescenza soprattutto i russi e i francesi. Poi quelli che ho nominato. Infine a metà degli anni '60, durante il mio secondo soggiorno milanese, vi fu per me la scoperta di La cognizione del dolore di Gadda. A quell'epoca scrissi la terza parte di Althénopis, rimasta tanti anni nel cassetto e poi raggiunta dalla prima e dalla seconda parte.

Dunque, vi era stato già un periodo milanese.

Sì, il nostro piccolo gruppo amicale e/o coniugale alla fine del '59 si era trasferito a Milano in cerca di lavoro, come tanti napoletani. Nonostante fossimo tutti molto poveri, fu un periodo felice. Tonino venne assunto alla Motta, che lasciò dopo appena un mese: era seduto dietro un tavolino e doveva contare i panettoni che gli passavano davanti su un montacarichi, che spesso doveva rincorrere. Scherzava sulle scritte alla Mensa, volgendole in decalogo: Non nominare il nome di Motta invano, non desiderare la Motta altrui, non motteggiare… Era stato raccomandato dal futuro suocero per entrarvi e quando si licenziò il suo dirigente gli disse: Lei sputa sul pane. E lui replicò: No, sul panettone. Mario invece non fu assunto alla Pirelli perché comunista. Livio ora faceva il soffiatore di vetro in una fabbrica di bottiglie, ora faceva il correttore di bozze all'Avanti. Mio marito faceva il garzone di bell'aspetto presso mia zia, che aveva un magazzino di antiquariato in Via della Spiga. Trascorrevamo le serate alla trattoria dell'Angelo e al Bar Giamaica a Brera, che allora non erano chic come oggi, ma frequentati da operai e studenti poveri. A Piazza Duomo si discuteva fino all'alba con le persone più strane. Io, ho tradotto tre libri, uno al nero su Kokoschka, due con la mia firma, per Il Saggiatore e per Schwarz. Poi ho lavorato come segretaria presso una società che vendeva a ricchi tedeschi e milanesi appezzamenti di terreno nell'allora costruenda Brasilia. Ma risultò un imbroglio, vendevano pezzi di foresta vergine. Una mattina dinanzi all'ufficio trovai la polizia. Per fortuna, essendo un piccolo impiegato, non fui implicata. Devo anche dirti delle mie difficoltà per trovare un lavoro di segretaria con conoscenze di tre lingue, dattilografia e stenografia. Superati brillantemente colloqui e prove, misteriosamente non venivo accettata. Questo perché da poco era stata varata una legge che tutelava le donne durante la gravidanza e dopo. E siccome ero sposata, temevano una gravidanza e non assumevano. Insomma fatta la legge, creato l'inganno.

Insomma, mi sembra che Milano sia stata importante per te.

Quell'anno sì. Mentre nel 68-69 rincorrevo la città di dieci anni prima. Era già tutto cambiato. Ma tra le città italiane dove sono vissuta e che prediligo, ho amato Milano per la sua carica umanitaria, socialista, industriale, mentre ho sempre detestato Roma.

Perché?

Forse a causa della "romanità" fascista. Forse perché centro del potere pubblico, amministrativo, religioso. Forse perché avrei auspicato, come sosteneva Braudel, che la vera capitale d'Italia avrebbe dovuto essere Napoli, la porta dell'Occidente verso l'Oriente e dell'Oriente verso l'Occidente. Mi ha sempre colpito poi l'epigrafe di Savinio al suo saggio su Maupassant: "Maupassant era un romano". Che mi spiego con la differenza che traccia Gadda tra Eros e Priapo. A Roma sento Priapo, a Napoli Eros.

Ma prima del tuo periodo milanese c'è stato quello tedesco, dal '54 al '57.

Sì, con alcune interruzioni, viaggi in autostop attraverso l'Europa, brevi soggiorni romani. Quello che avevo da dire l'ho scritto nel Taccuino tedesco. La mia esperienza con la Germania non può essere chiusa dal momento che i miei due nipotini vivono con mia figlia a Berlino e sono bilingui. Ma da molti anni, quando vengo a Berlino, mi sento come una casalinga italiana o turca in visita ai parenti. Non sono più curiosa. Come detesto la vita cultural-mondana in Italia – anche per questo vivo a Itri – così la detesto in Germania. Anche se ogni paio d'anni vi presento i miei libri. Ma più per ragioni di mercato che per altro. Come sai, una certa critica mi apprezza, ma vendo poco. Berlino mi piace d'estate, quando si può andare ai laghi. Come il Sud Italia quando si può andare al mare in luoghi protetti dalla folla.

Ti capita qualche volta di soffrire la solitudine?

No. Soffro di troppa famiglia – se se ne estende il senso agli amici. Ai tanti compagni di strada conosciuti nel corso della mia vita disordinata e poco lineare negli amori, nelle attività sociali, politiche, culturali. Forse è stato tutto troppo, tante vite in una sola. Un'immensa folla di vivi e sempre più di morti, nella quale mi sono aggirata. A cui bisogna aggiungere i tanti scrittori letti, di cui riconosco i volti, come se fossero vivi. Perciò non sono sola. Ma vorrei esserlo di più. Me ne accorgo quando mi concentro. Anche su una sola parola. E questa parola scaccia i troppi fantasmi.

E quale parola sceglieresti in questo momento?

Non più il vetruzzo approdato sulla spiaggia, che reca le tracce di tante vite umane. Ma un piccolo semplice sasso in cui è inscritta la storia dell'universo, che mi è ignota.

Nota
Questo colloquio, che ne avrebbe dovuto includere numerosi altri per espandersi e dar luogo a un libro-intervista, come era nostra intenzione fin dal primo momento, è ciò che oggi rimane dopo l'improvvisa scomparsa di Fabrizia Ramondino, maestra di impegno e di scrittura, oltre che carissima e insostituibile amica, avvenuta nello scorso giugno.