22 dicembre, 2009

White Christmas


Qualche settimana fa i deliranti capi leghisti istigavano ancora una volta, pericolosamente, all'odio razzista. Lo facevano contro tutti, arcivescovo di Milano compreso. Con una furia di chi si sente l'ago della bilancia della compagine di governo e può urlare tutto. E, scimmiottando antichi slogan del Ku Klux Klan degli anni trenta e quaranta del secolo scorso auspicavano per la padania un White Christmas, un Natale fatto solo per i bianchi, con tutti gli stranieri fuori.
White Christmas è una famosa canzone degli stessi anni dello slogan del Klan, cantata da Bing Crosby - il disco più venduto del secolo scorso - e le sue parole sono una struggente esaltazione della neve a Natale, che ricorda quella del paesello da bambino a chi ora è nella grande città: bianco natale in senso proprio, nulla di razzista.
Il gioco di parole ignobile dei leghisti, che capovolgeva in odio una canzone d'amore, deve, però, avere risvegliato, il Signore degli eserciti. Il quale - forte di poteri superiori - ha fatto cadere sulla padania un vero bianco Natale, Fatto di neve e di ghiaccio. Che ha bloccato tutto.
Così mentre attraversavo la bianca, di neve, padania sul treno regionale con ore di ritardo ho visto la bimba cinese che giocava con la nonna italiana di un'altra bimba, il ragazzo del Senegal che aiutava l'anziano signore a mettere a posto i bagagli, la giovane donna col capo coperto che si alzava per fare sedere l'uomo anziano che lo ringraziava, si sedeva e poi leggeva poi la Padania e lo studente orientale che giocava a scacchi con il collega italiano.
Il mondo è fortunatamente più sorprendente e ricco dei fanatismi.
Buon Natale.

18 dicembre, 2009

Bruttopaese


Sono sgomento per l’ulteriore attacco alle libertà… liberali. C’è da alzare la guardia a difesa della libera rete in libero stato. Consiglio di seguire il dibattito e di leggere Zambardino.

Segnalo poi l’uscita ufficiale del rapporto 2008-2009 della commissione povertà o commissione indagine sull’esclusione sociale (CIES) – della quale faccio parte. E’ lunga ma esorto davvero a leggerne almeno il riassunto iniziale, la relazione di sintesi. Insisto: è quasi un dovere civico farlo. Per capire come vengono colpiti sempre i più poveri, che lavorino a no, i giovani, il Mezzogiorno. E i bambini. Questo è un Paese dove cresce l’ingiustizia sociale e nessuno ci bada – o, meglio detto, badano a altro. E non si tratta di extracomunitari ma di italiani nati in Italia. Però poveri. In aumento e senza ombra di politiche pubbliche.

Il clima politico è mefitico. Ma la sua base sta nell’impossibilità di una decency in termini di coesione sociale che, a sua volta è dovuta al carattere macroscopico del duplice divario: tra ricchi e poveri e tra Nord e Sud. Il sintomo è la titanica lotta tra S.B. e i suoi avversari, come la punta di un iceberg si vede quella cosa lì. Ma la base, quel che sta sotto e minaccia è la divisione sostanziale e reale dell’Italia.

E’ l’impossibilità di duratura coesione sociale la questione vera, di fondo del Paese. Ma (sic!) il puntuale rapporto annuale viene ripreso oggi solo dall’Avvenire, quotidiano della conferenza episcopale. Tace la libera stampa, muto è il sindacato, tacciono, nell’ordine, Bersani, Di Pietro e pure “li comunisti”…

15 dicembre, 2009

Carla Melazzini

E’ morta ieri Carla Melazzini. Ho avuto la fortuna grande di aver lavorato con lei dal 1997 al 2007. Ho sempre imparato dalle sue parole e dai suoi silenzi.
In pochi giorni sono morte due donne, Monica e Carla, che ci hanno insegnato a vivere. E a considerare la morte parte del vivere, riuscendo quasi a darci forza per la loro fine.
Il Padrone dell’Universo le benedica.
Invito a leggere questo bellissimo ricordo di Carla, scritto dal suo compagno di sempre, Cesare Moreno. E la scrittura qui sotto, sulla nostra comune avventura a Chance.
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QUEI NOSTRI RAGAZZI
Di Carla Melazzini.
Da UNA CITTÀ n. 104 / Maggio 2002

La dura esperienza di Chance, maestri di strada napoletani, in quartieri che sono vere e proprie sabbie mobili che in ogni momento possono inghiottire il ragazzo che tenta di studiare e avere un’alternativa. Ci sono possibilità?

Pasqua 2002: a San Giovanni a Teduccio viene ucciso il diciannovenne Filippo. E’ fratello di un’alunna di Chance, parente di altre due, amico di altri.
All’origine della scrittura del progetto ci fu anche l’uccisione di un ragazzo nel parcheggio del supermercato davanti a scuola. I giornalisti chiesero come mai il quattordicenne stesse nel parcheggio e non a scuola (i bene informati dissero che il ragazzo non era solo una vittima trasversale, ma già omicida a sua volta).
L’estate scorsa, in una delle innumerevoli risse con le quali i ragazzi di San Giovanni e di Barra si sforzano di imitare la guerra degli adulti dei due quartieri è finito ammazzato il sedicenne Cesare, che passò per la selezione di Chance e fu scartato per dichiarata indisponibilità a imbarcarsi nell’avventura. Per dei ragazzi non è difficile morire, in questi paraggi. Da quattro anni viviamo in questo mondo, accogliendolo senza giudicarlo, quasi senza parlarne. Adesso, dice un’insegnante, “abbiamo il morto in casa”: per cui si sente il bisogno di dire qualcosa.

Rituali di lutto
Lo Stato ha deciso che il morto di camorra non deve avere il funerale in chiesa, come il suicida. Nel rione di Filippo viene organizzata una fiaccolata per chiedere l’ingresso in chiesa; il parroco strappa lo striscione e lo butta nella monnezza.
Neanche fare i preti è facile da queste parti: è una scelta continua tra essere conniventi o impietosi.
In queste circostanze l’organizzazione pubblica del lutto vuole essere anche un’esibizione di forza: in altri rioni furono devastate le bancarelle che si erano presentate sotto il palazzo del boss defunto, per il mercato consueto, o bastonata la signora che aveva osato accendere la radio. Il prete della parrocchia vicina quando c’è il coprifuoco da lutto accende sulla chiesa un faro che illumina a giorno la piazza.
Le nostre ragazze dicono che la fiaccolata era anche sincera: Filippo era “nu buono guaglione”. E’ stato portato direttamente dall’obitorio al cimitero.

Morte e vita
Quattro anni fa constatammo costernati che i nostri ragazzi e ragazze, uscendo insieme da scuola come fanno gli adolescenti, si dirigevano al cimitero.
La frequentazione con le anime defunte è connaturata all’arcaica religiosità popolare napoletana, così come le fantasie sulla morte sono compagne di strada di ogni adolescente, ma qui c’era molto di più: l’intimità con la morte concreta ha marchiato la vita di questi ragazzi, ed è architettonicamente incarnata nelle palazzine funebri che ospitano un’intera generazione di maschi giovani morti di morte violenta.
I rimanenti stanno in quel luogo dei morti viventi che è il carcere. Così che “‘o colloquio” è il centro focale della vita di centinaia di famiglie.
Questa esperienza può produrre un’invincibile paura della vita, di cui la paura e il rifiuto della scuola è solo una modesta appendice.
Tre ragazze cugine tra loro, che non siamo riusciti in nessun modo a trattenere con noi, hanno trovato una via d’uscita nella gravidanza. Trucco vistoso e atteggiamenti sguaiati potrebbero trarre in inganno circa la natura di queste gravidanze, se non fosse così facile scoprire sotto quelle facciate variopinte le bambine terrorizzate, e nelle madri altrettanto dipinte la stessa paura delle figlie. Non è strano che in famiglie decimate traumaticamente della componente maschile le donne -bambine quasi ancora- si aggrappino alla loro facoltà generatrice di vita.
In secondo luogo, la gravidanza precoce rappresenta il modo più definitivo di rientrare nei ranghi del proprio destino sociale, tagliandosi i ponti alle spalle. Solo lentamente ci siamo resi conto di quanto la nostra presenza e la nostra azione, proprio perché accogliente, potesse essere percepita come pericolosa, aprendo prospettive di relazioni e di vita sentite come inaccessibili.
E’ difficile figurarsi fino a quale profondità questi esseri umani si sentano dei reietti.

Burqa, morsi
Infine, la gravidanza precoce serve a sanzionare il controllo del maschio sulla femmina. Niente temiamo di più, per le nostre ragazze, del “fidanzamento in casa”: atto ufficiale con il quale la famiglia si solleva del problema di un’adolescente turbolenta dandola in consegna a un ragazzotto qualunque e alla di lui madre (la “gnora”). Da quel momento lui decide se la ragazza debba o meno partecipare alle gite con i compagni, scendere nella strada da sola, continuare ad andare a scuola. O rimanere incinta.
A Chance si impara una cosa nuova al giorno. Una che avremmo preferito non apprendere è che il fidanzato può mandare in giro la ragazza con la faccia piena di morsi, così da sottrarla allo sguardo degli altri maschi, sfigurata dal marchio del possesso. Se ci si guarda attorno con un po’ di attenzione, si può scoprire che la civiltà di cui andiamo fieri spesso finisce dietro l’angolo di casa.

Sabbie mobili
Dei 63 ragazzi passati per Chance nei primi tre anni, l’85% proviene da famiglie prive di reddito regolare (dei rimanenti non si hanno notizie precise). Più del 50% ha a che fare con il carcere; un gruppo ristretto (sotto la decina) “appartiene”, come si dice, cioè è interno a famiglie del Sistema camorristico (i dati sono riferiti alla zona orientale di Napoli).
Sono concentrati in rioni che sono un vero e proprio brodo di coltura. I due Bronx di San Giovanni e le “case gialle” di Barra sono frutto dei miliardi dilapidati dopo il terremoto dell’80 e di una dissennatezza urbanistica che non avrebbe potuto fare di meglio se si fosse posta come obiettivo dichiarato di fornire manodopera semigratuita e logisticamente controllabile al Sistema.
Le famiglie dei nostri ragazzi -come migliaia di altre- sopravvivono nel cerchio più ampio ed esterno di tale sistema, né avrebbero altre possibilità: piccoli spacciatori e contrabbandieri, trasportatori di pacchi, prestatori di opere varie (e di persone, compresi i mariti “venduti” alle donne dell’est per regolarizzarne il soggiorno). Nella maggior parte non usufruiscono nemmeno delle provvidenze garantite dal Sistema, sicché in caso di carcerazione sono abbandonati a se stessi, e agli avvocati d’ufficio.
Qui non esiste distinzione tra lavoro regolare e irregolare o illegale; la discriminante passa tra “chilli ‘e miez ‘a via”, cioè i quadri militanti del Sistema, e tutti gli altri. Il padre di un’alunna, agli arresti domiciliari, mi dichiarava scandalizzato che lui stava facendo un lavoro onesto, le bombole (di gas, di contrabbando).
La percezione di un lavoro regolato da leggi è assente, e difficilissima da introdurre.
Ciò che visibilmente colpisce nella vita di queste famiglie è la destrutturazione del tempo. Si va in visita al termine dell’orario scolastico -mezzogiorno, l’una- e stanno tutti in pigiama, da poco svegli o ancora a letto; pronta, la parte femminile, all’unica attività strutturata, che sono i servizi domestici.
Difficile introdurre la scansione temporale della scuola; nemmeno i periodi di lavoro, nero e servile, cui i ragazzi si sottopongono quando hanno bisogno di soldi per comprarsi i panni o il telefonino, sono sufficienti a dare una svolta: finito il lavoro, si torna al rapporto privilegiato con il letto, dal quale è così difficile staccarsi. Il letto e la televisione, che si può tenere accesa anche tutta la notte, perché la paura del silenzio è la prima forma della Paura. E le lunghe mattinate di sonno, verso un risveglio privo di ogni attrattiva, diventano le incubatrici della depressione.
La proposta di un progetto di vita che comprenda l’idea e la preparazione ad un lavoro regolare è così straniante che può essere accettata solo se ha la forma della presa per mano e dell’accompagnamento da parte di una persona di fiducia. Altrimenti è più accessibile la rottura traumatica dell’emigrazione al nord (quando vi sia come riferimento un gruppo di parenti o di vicini), perché solo cambiando drasticamente contesto si può sventare la tremenda forza di risucchio che il quartiere, come una palude di sabbie mobili, esercita su chiunque tenti di sottrarvisi.
Per il successo di Chance niente è più rischioso delle lunghe vacanze; a volte basta una settimana per perdere un ragazzo.

L’età critica
La fase di massimo pericolo, per un ragazzo, è fra i 13 e i 15 anni, l’età in cui in tutte le classi di tutte le scuole si combatte la lotta sorda per decidere chi è ‘o piccerillo e chi è ‘o gruosso: dappertutto il “piccolino” è colui che segue i professori e studia; soltanto qui il “grosso” si deve misurare con un modello sociale che è insieme odiato, temuto, riverito e ammirato. Sono i responsabili della paura in mezzo alla quale il ragazzo è cresciuto, degli incubi, della pipì a letto, e pertanto i depositari della forza. Si sa che hanno ottime probabilità di morire entro i trent’anni, ma intanto hanno i soldi, le moto (grosse), le auto (grosse), quindi le donne.
Più il ragazzo si sente piccolino, più il fascino del modello è irresistibile. Anche ad un’età inferiore si può rischiare; una delle maniere più subdole passa per l’amore degli animali, cani, ma sopratutto cavalli. Un bambino che gironzola con passione attorno alle stalle del Sistema è un bambino in pericolo.
Un mattino d’inverno passando davanti ai garage del Bronx fui stupefatta da una visione commovente e insieme ripugnante: da uno dei box, che contengono ogni tipo di cose, usciva una cavalla che trepidamente sosteneva il puledro, malfermo sugli zoccoli, tra pozzanghere ghiacciate e rifiuti, come una sorta di Bambi metropolitano. Una simile visione di grazia e tenerezza può ben scortare un bambino semi-abbandonato nel mondo delle corse clandestine.

Pietà l’è morta?
A Barra c’è una famiglia di malati di mente, abbandonata da Dio e dai servizi di salute mentale, che ha già prodotto tre vittime: una commessa polacca, una madre di famiglia, un giovane finanziere. L’omicidio di quest’ultimo diede luogo ad una spedizione punitiva da parte della Guardia di finanza contro l’intero quartiere tanto speculare, nella sua gratuita ferocia, ai rituali di lutto della camorra, quanto priva di conseguenze positive sia nei confronti della criminalità che della famiglia malata. Il cui ultimo esemplare, l’adolescente Bettino, vaga per il quartiere parlando da solo, sfottuto da tutti.
Una domenica di marzo, probabilmente, reagisce tirando una bottiglia in testa ad un ragazzo. Con questo malaugurato gesto catalizza su di sé la frustrazione e la rabbia pullulanti nell’animo della gente, che dà il via ad un tentativo di linciaggio. Vi assiste impotente e angosciato Ciro Naturale. Ecco il suo racconto.

“Verso le 22 di domenica una folla è appostata all’altezza del palazzo dei C.; mi trovo a passare con la vespa e sento che gli animi sono accesi. Dal palazzo di fronte esce un uomo con passo veloce e una mano dentro la giacca, in compagnia di altri due attraversa la strada; molti scappano perché tutto fa pensare ad una spedizione punitiva a domicilio; io rimango perché li conosco, non sono i bravi di don Rodrigo, ma onesti fiorai (Ciro è appassionato ammiratore dei Promessi sposi, nei quali trova la più esatta descrizione del tipo di potere vigente nel suo quartiere). L’uomo entra nella casa dei C., si sente rovesciare mobili e rompere vetri, dopo poco esce senza aver trovato quello che cercava; arriva un fratello che cerca di calmarlo, perché qualcuno gli ha sussurrato che forse è armato. Nel momento in cui si placa, si sente il grido: ‘oì ccà’ (eccolo!). Tutti si girano e vedono Bettino e sua madre che rincasano chiacchierando distrattamente. Volevo urlargli di scappare, ma già gli era arrivata una pietra in faccia da brevissima distanza. Sono dieci, venti, trenta, bloccano il ragazzo e la madre sotto l’impalcatura di un palazzo: in pochi secondi prendono più calci loro che il pallone del Napoli in un’intera partita. Bettino riesce a svincolarsi e a scappare, ma viene riacchiappato. Cinquanta metri più in là c’è una macchina della polizia con la sirena spenta. Gli assalitori aumentano di numero; sono impressionato dalla loro giovane età; ci sono anche alcuni adulti, parenti di don Rodrigo, che li incitano. Per liberarli un po’ dalla presa, urlo che stanno arrivando altre pattuglie; alcuni si fermano e si girano; uno di loro non vedendo le pattuglie mi guarda negli occhi, ma sta zitto perché mi conosce. I poliziotti chiamano rinforzi stando chiusi nella macchina: mi chiedo perché non accendono la sirena e non sparano in aria. Bettino riesce a scappare di nuovo, gli assalitori forse sono stanchi; la polizia può caricare Bettino e portarlo al commissariato per chiamare l’ambulanza. La gente felicemente inferocita grida: ‘amma fatto comm ‘o pallone! quando fanno ‘e guaje ‘e guardie nun correno’, come sentendosi legittimati dall’atteggiamento della polizia. Alla contentezza generale rispondo che il ragazzo poteva anche morire: meglio, pecché ‘a capa nun è bbona’, è il commento . Uno rivendica che è stata sua la prima pietra, e mostra un occhio pesto alla madre di Bettino che passa con il volto gonfio, viola, il mento insanguinato: ‘uarda accà, pe’ colpa ‘e figliete. Lei impassibile risponde: ‘ha fatto bbuono’. Il mio cuore ha sorriso a questa risposta; ma mi chiedo: che senso di giustizia hanno da queste parti? Perché anche la madre? Non sarebbe meglio curare e assistere questo ragazzo anziché aspettare che finisca in corte d’assise d’appello come suo fratello?”.
Nei giorni successivi Ciro continua la sua inchiesta nel quartiere: nessuno mostra pietà per Bettino e sua madre.

Zona franca: una Chance?
Come si vede, grande è la confusione da queste parti, molto difficile tirare linee nette di separazione: tra vittime e carnefici, ordine e disordine, giustizia e pietà. Che cosa rappresenta Chance in questa realtà?
Da subito, ha assunto i connotati della casa; lo dice il tipo di attaccamento che i ragazzi sviluppano: fedeltà e nostalgia per gli spazi, gli oggetti, i rituali, oltre che per le persone.
Poi, è molto spesso un teatro, dove i ragazzi vengono intenzionalmente a mettere in scena emozioni e drammi, e si ha l’impressione che lo facciano nel senso catartico del teatro delle origini. Non sempre è facile individuare la “messa in scena” al di sotto di comportamenti apparentemente solo perturbanti o distruttivi, ma se si riesce a farlo il significato nascosto si dispiega, con grande vantaggio di tutti. Il dramma rappresentato esige che i suoi destinatari collaborino ad una agnizione, altrimenti il groviglio rimane irrisolto.
Tutta la primavera scorsa fu turbata dalle attività di un gruppo di ragazze e ragazzi, interni a Chance ed esterni, che inscenavano i loro amori nei corridoi e nel cortile della scuola. Ho sempre avuto la sensazione che quella volta ci abbiano trovati inadeguati: probabilmente travolti dagli aspetti disturbanti, dal rifiuto violento di ogni attività scolastica, dagli occhi malevoli che osservavano e protestavano; o forse era troppo complicato. Tentammo un confronto aperto, che fu immediatamente interpretato come un processo: con la sensibilità esagerata che li distingue, subodorarono in noi, contro ogni nostra intenzione esplicita, il prevalere del giudice.
Quella furibonda rappresentazione metteva in scena significati molto importanti: amori che rompevano le barriere di odio fra i due quartieri; che portando le botte fin sotto il nostro naso paradossalmente mettevano in discussione il diritto dei maschi di picchiare le femmine; che, per il fatto stesso di svolgersi all’interno di un gruppo di coetanei, in una zona franca lontano dalle rispettive abitazioni, contestavano la coazione asfissiante del fidanzamento in casa.
La rappresentazione, priva degli sviluppi che portano all’agnizione, si è esaurita, consegnandosi alla realtà. Abbiamo perso tutto quel gruppo. Una ragazza è già felicemente madre, un’altra incinta.
Grazie ai connotati acquisiti, e ormai riconosciuti dalla popolazione, lo spazio Chance funziona anche come una sorta di camera di decompressione.
Il giorno dei funerali di Filippo ci piomba a scuola la signora N., palesemente in preda al terrore: nel quartiere ci sono rappresaglie, teme per il figlio.
Il marito è morto in carcere grazie ai suggerimenti dell’avvocato (sulla figura e il ruolo degli avvocati da queste parti ci sarebbe molto da scoprire, se qualcuno avesse voglia); la signora svolge la sua attività illegale all’ombra del cognome del marito, ma si sta battendo con furia per salvare i figli da quella strada. Il ragazzo che sta con noi da quattro anni, che stiamo avviando all’apprendistato, non è ancora fuori pericolo: la forza del risucchio continua a chiamarlo.
Nel giorno dell’emergenza e della paura, a chi si può rivolgere la signora? Non alla polizia, che oltretutto è assente; non al servizio sociale, vissuto troppo come controparte. Viene a Chance, sapendo bene che niente possiamo fare, se non ascoltarla e consolarla.
La signora F., sorella di un boss defunto, si lamenta che da lei nessuno va a prendere il caffè. A Chance non solo prende il caffè, ma dà consigli alle altre madri su come tirare fuori i figli dai letti per farli andare a scuola. Sono la tutor di sua figlia, come anche di un ragazzo che stava con noi all’inizio, che si è successivamente dedicato ad attività pericolose e oggi sta nascosto con tutta la famiglia dopo un pestaggio e minacce di morte provenienti, se non personalmente dalla signora, dal suo stretto entourage. Con lei parlo di sua figlia, del suo bisogno di un padre: che non è meno vero per il fatto che tale padre era un tossico, che picchiava e tradiva sua madre fino a che è stato ammazzato.
La camera di decompressione può ospitare contemporaneamente tante concomitanti e conflittuali infelicità. E’ l’unico spazio nel quartiere dove è pensabile elaborare i lutti al di fuori degli schemi rituali: pensare cioè al morto non come vittima di una infamità che reclama una infamità eguale e contraria, successivamente idealizzato, nel suo mausoleo marmoreo, per punire il sentimento che la sua morte conti molto di più della sua squallida vita. Ma come la persona reale che è stato, comunque depositaria di affetti; alla quale si possono scrivere delle lettere. E’ uno spazio in cui può diventare pensabile, proprio perché nessuno la chiede, una forma embrionale di dissociazione.
Uno spazio simile, in termini economici, non costa molto. Se ce ne fossero molti, in questi luoghi di guerra, sarebbe forse possibile iniziare ad allentare le maglie della paura e dell’odio.

11 dicembre, 2009

Monica Tavernini


Monica Tavernini è vissuta ed è morta come una Socrate dei nostri tempi. Una, al femminile. Perché, con pacata caparbietà, Monica ha sostenuto e sorvegliato - nella dimensione politica come nella vita di ogni giorno - la cura autentica e curiosa per le relazioni umane, l’acuta sensibilità verso le emozioni, i piccoli gesti e i silenzi di ciascuno, l’ascolto di se stessa e il rispetto per la finitezza di tutte le cose, compresa la sua stessa vita. Solo una grande sapienza al femminile può trattare le vicende pubbliche e private come Monica le ha sapute trattare. Fino all’ultimo, con quotidiana semplicità, temperanza, ironia. Staremo in tanti e per lunghi anni a pensare a quante cose ci ha insegnato e a chiederci se sapremo condurci così fino alla fine.
Monica amava la politica in senso proprio. L’appassionava lo spirito migliore delle città, il senso della cosa pubblica, il rispetto dell’interesse generale. Per questo, quando vi era una qualsiasi questione politica, lo sguardo interiore di Monica non andava solo a vagliare i rapporti di forza o le occasioni o gli spazi che l’agone politico sempre offre e non si fermava solo sulle possibilità di un’opzione o dell’altra – tutte cose che pur sapeva che contavano e che sapeva fare. Il suo sguardo andava a scrutare i fondamenti delle leggi che consentono la vita civile, quelli che salvaguardano le comuni ragionevolezze dalle tentazioni del potere e dai demoni che distruggono anziché costruire. “La mia misura di fronte alla ragion di stato e alla politica - che si fa ora - resta Antigone”. Lo diceva e ripeteva Monica, scherzando con benevolenza arguta sulle cose serie, come sapeva fare.
E’ anche per questa fedeltà alla politica in senso alto, contraria al “saper fare politica” odierno, che Monica ha voluto e saputo “lasciare un brillante avvenire politico dietro le spalle” – come lei stessa usava dire. Si era iscritta ventenne al PCI ma “non ero comunista, mi piaceva il socialismo, che, però, non c’entrava nulla con quella roba lì”. Quando parlava del secolo scorso, Monica pareva sospendere i pensieri, poi li diceva con convinzione: “Ma il muro di Berlino a me non è crollato addosso; perché io davvero mi sono scansata per tempo; a quel mondo lì non c’ho creduto mai. Ma quanta brutta ruggine di quel mondo è restata addosso a tanti, che non sono proprio voluti cambiare davvero”.
E’ con uno straordinario spirito libero che Monica è stata sindacalista e giovanissima segretario del PCI dell’Alfa Sud. E oggi mi piacerebbe che le ragazze che entrano la mattina nella fabbrica di Pomigliano, operaie di molte nazionalità, si potessero fermare a pensare almeno per un minuto a cosa poteva essere la vita quotidiana di una giovane bella donna femminista che guida, negli anni settanta, centinaia e centinaia di operai maschi nel “prospettare un futuro migliore”. Da allora Monica ha sempre conservato il suo impegno nel sindacato – la CGIL – per la quale nutriva un legame irrinunciabile e avvertiva l’urgenza di un sommovimento culturale, fondato sulla crescita della responsabilità individuale.
Dai partiti, invece, si era allontanata radicalmente. Il loro esprimersi, qui più che altrove, come interessi separati, la follia che permea i costanti giochi di potere interno, il culto servile dei capi, le verità taciute e i compiti disattesi erano altrettante prove della inaccettabile miseria a cui si erano purtroppo ridotti, che lasciava spazio alle carriere, agli opportunismi, al nulla.
Monica ha fatto con grande serietà e competenza il consigliere comunale e regionale. “Studiavo la notte le cose che non sapevo e per la frustrazione a volte mi veniva da piangere”. Ha fatto la politica di mestiere ma sempre come rigoroso servizio alla cosa pubblica, con un rispetto estremo per le istituzioni “che vengono prima di ogni parte politica”. Quando le è risultato evidente che questa prospettiva si era drammaticamente indebolita ha lasciato questo campo. Con l’elegante sobrietà che l’ha accompagnata sempre: “Da venti anni non faccio più quella vita. Sono troppo incuriosita per tutto il resto che mi accade, troppo sincera o forse distratta a tal punto da non saper dire bugie o forse anche troppo pigra per restare viva in quell’ambiente”.
Così Monica ha dedicato da anni molto proficuo tempo ad altro: le letture, la famiglia, l’amicizia. E, oltre al sindacato, ha fatto parte delle battaglie civili a strenua difesa della laicità dello stato e dei diritti individuali e all’impari impegno per pensare a un sensato modo di fare ripartire la nostra città.
Monica ha amato immensamente la letteratura. Per lei è diventata sempre di più il grande, sapiente specchio della sua vita. Così pochi giorni fa, guardando con un coraggio disarmante e immenso alla sua stessa fine, ha ricordato un passaggio delle Memorie di Adriano: “…come il viaggiatore che naviga tra le isole dell’Arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte”.
Monica davvero lascia un grande vuoto. Tanto che oggi si stenta a parlare. Quando saremo pronti, dovremo dedicare un giorno su una spiaggia davanti al mare che adorava - un tempo di convivio giocoso e di parole - per onorare Monica, cittadina superba della nostra città e delle nostre vite. In quel momento qualcuno leggerà il verso di Ossi di seppia di Montale che Monica, pochi giorni prima di sapere della sua malattia, con una di quelle stranezze che a volte accadono nella vita, aveva eletto come suo epitaffio:
…. Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto si esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano…

Queste cose, che ho scritto con molta pena, usciranno domani su Repubblica-Napoli.

18 novembre, 2009

Campania burning

Una cosa che si può e si deve fare, nella difficoltà del fare politica in questo Paese e in questa regione, è portare testimonianza intelligente dei dati di realtà. E provare a parlare di cosa sia auspicabile e possibile fare. Per esempio…

Per esempio i recenti fatti di cronaca hanno riportato all’attenzione pubblica la storia del ghetto di San Nicola Varco, in provincia di Salerno: un ex mercato ortofrutticolo costruito negli anni '80 e mai collaudato, dove per anni hanno vissuto centinaia di immigrati senza tutela e senza diritti. Arrivati in Italia, gli immigrati (in maggior parte marocchini) credevano di essere provvisti di un contratto di lavoro regolare: ma il contratto si era rivelato una truffa, e nella loro nuova condizione di clandestini i lavoratori erano impegnati anche dieci ore al giorno, in nero.

La notizia è di oggi: da ventiquattro ore è ormai partito il rastrellamento. Nonostante la CGIL si batta da anni per sensibilizzare le autorità sulla situazione del ghetto di San Nicola, le forze dell’ordine intervengono solo ora per sgomberare l’area: lì dovrà sorgere un centro commerciale. La maggior parte dei clandestini è fuggita nella notte, alcuni di loro attendono l’espulsione, pochissimi i regolari ai quali verrà garantita una nuova abitazione…

Le storie di chi vive nel ghetto di S. Nicola sono state raccontate da Anselmo Botte in un bel libro, Mannaggia la miserìa, come con parole locali e accento straniero imprecano i braccianti stranieri. E su radio radicale c'è anche una sua intervista sulla condizione del lavoro nero degli immigrati. Siamo anche in attesa del documentario titolato Campania Burning diretto da Andrea D’Ambrosio e scritto con Peppe Ruggiero (Biutiful Cauntri). Il film è stato girato durante l'estate del 2009 nel ghetto di San Nicola Varco e narra una giornata degli abitanti di ghetto. Ha inizio con il ritorno dei braccianti dai campi, e la vita abitudinaria nel ghetto fino alla notte. Succede l’alba con la chiamata al lavoro dei caporali di giovani immigrati fantasmi che lavorano 10 ore al giorno al mercè di gente senza scrupoli, uno sguardo nel ghetto vuoto ed il lavoro nelle serre e nei campi. Il finale torna, come l’inizio, nel pomeriggio, riproponendo la vita nel ghetto.

Sarebbe ora di parlare delle cose e dei nessi tra governo del territorio – quello reale, effettivo, concreto e non quello degli slogan triti e ritriti e delle retoriche – e politica qui in Campania e governo della Campania. Ora che le elezioni regionali si avvicinano. Quale candidato, quale programma, quale metodo partiranno con il dire il vero, almeno? E sarebbe ora di creare un qualche spazio pubblico sul cosa fare: scuola e formazione, immigrati, nuova emigrazione nostra al Nord, droga, mancato lavoro e povertà. E camorra, che entra in ciascuna di queste cose. E sulla politica di chi governa e di chi si oppone, qui, che vive in e di queste cose anche essa. Quanto c’entra? Come? Perché? Parlarne davvero, senza faciloneria, coi dati, da posizioni diverse. Sarebbe ora.

La foto viene da questo reportage della università di Salerno.

16 novembre, 2009

Con quale bici pedalare?

Se ho capito bene questa bici del mio amico elettricista e ciclista si ispira a una bici che fu usata in pista da Antonio Maspes. E se ho ben compreso si tratta di bici che quasi non può frenare e che costringe a pedalare sempre, anche in discesa, perché non ha la ruota libera. Se la usi non in pista ma nel traffico urbano devi schivare e dunque stare attento a ogni ostacolo, prevedere in tempo reale ciascuna variazione reale o potenziale di intenti e traiettorie altrui, accettare i rischi dovuti al caso, che pure esiste; e perciò non perdere mai l’attenzione. E’ un esercizio che produce adrenalina e pathos e che sta nel vivo pulsante delle cose.

Ne parlo perché mi pare una grande metafora dei compiti politici, se si intende per politica l’arte del possibile per vivere insieme meglio in questo mondo, ora.
Da tempo non vi sono più certezze su cui adagiare l’attenzione. Ma ora è assolutamente chiaro che non ci si può distrarre. Mai. Ma proprio mai. E si deve fidare sulla destrezza costante, individuale o collettiva. Prendendone i ritmi e i rischi. Tutti.
C’è il partito che in fondo serve? Puttanate. Non è vero e se è vero non è certo o forse è comunque assai poco utile e in ogni caso non ci si può fidare. C’è il sindacato che comunque sorveglia ed è presente. Assolutamente opinabile, quasi sicuramente falso. C’è il o un capo di cui fidarsi per fare governo o opposizione. Cazzata… e se la pensi puoi cadere. Vi è una cosa che è dalla tua parte e un’altra, ben distinta, che ti è contro. Può essere. Ma vanno costantemente sorvegliate le traiettorie sia dell’una che dell’altra.

Ecco. Ma pedalare con una bici fissa insieme ad altri – per fare una politica che abbia senso in questo mondo e in questo Paese – è ancora possibile? E con quali procedure condivise, comunitarie? Con quali metodi decisionali-deliberativi? E secondo quali minime garanzie finalizzate a sopravvivere nel mezzo del tumultuoso tragitto e del rischioso procedere?
C’è chi (vedi il Pd e la sua assemblea cui ho accennato nel post precedente) questi quesiti – che costano rischio intellettuale ed umano e dunque fatica interiore e fatica nel mettersi d’accordo tra diversi in tempo reale e su cose da fare – non se li vuole porre o non se li sa prendere in carico. E così preferisce altre bici per tragitti saputi e da ripetere, in modo assai più certo e mansueto. Ma le altre bici, legate alle identità di uno o due secoli fa e alle loro rassicurazioni, sono davvero idonee alle nostre civitas? Servono a percorrere le strade per come esse sono in realtà e oggi?

15 novembre, 2009

Il seguito di North Country

E invece… Alla fine sono entrato nell’assemblea nazionale del Pd. Perché ho vinto il ricorso – grazie alla caparbia insistenza degli amici di Mantova. Che ringrazio ancora. Sono andato a Roma all’assemblea. Ho visto molte persone brave, capaci, competenti nei propri settori, ad un tempo indignate per l’Italia com’è e reattive, che stanno tentando un’ultima tenace prova di politica, che sia sì realistica ma che abbia anche un senso, progettuale, metodologico. Perché è pur vero che c’è comunque bisogno di azione comunitaria e di attivizzazione civica e dal basso ma anche di rappresentanza dignitosa, che ascolti, che rilanci, che invogli.

All’assemblea i leader si sono accordati secondo i rituali di sempre. Le mozioni sono state approvate con sciatto automatismo. Il dibattito e gli stessi modi di lavorare erano insomma vetusti e davvero poverissimi rispetto alle ferite del Paese, alle cure sociali e civili necessarie, alle aspettative. Ci vuole qualcosa di altro e di nuovo, che faccia i conti col mondo com’è. Non basta l’ennesima alchimia tra popolarismo e socialdemocrazia. E poi ho visto un apparato che ogni tanto vorrebbe ma che forse non è proprio in grado di raccogliere spinte, energie, proposte che pure ci sarebbero. Non ha, appunto, gli strumenti culturali e forse anche emotivi. Sono nati e cresciuti in quei pollai… Al di là dei leader è questo il problema. Sulla generale mancanza di una forma per la politica (ben oltre la specificità del Pd) e anche su questa evidente e dolorosa scissione – tra necessità e anche risorse da un lato e vecchie inamovibili abitudini dall’altro – proverò a fare una qualche riflessione un po’ più lunga tra qualche giorno. Lavoro permettendo.

12 novembre, 2009

Ricordo di Pina



E’ morta la mia amica Pina Coppola.
Dopo una lunga e terribile battaglia con la malattia.
Era una donna di grande umanità. Qui la ricordo come amica con le immagini riportate da un altro amico. Pina è stata sempre impegnata con sobria costanza sui temi dei diritti civili. Ha fatto anche parte della nostra avventura di Decidiamo insieme. Lascia un grandissimo vuoto in tante e tanti.

01 novembre, 2009

North Country 5

Paradosso sgradevole: alla fine però è andata male, anche se era andata davvero molto bene.
Pare il mondo alla rovescia. Infatti, nonostante la buona battaglia di merito fatta a Mantova nel corso di queste primarie, grazie alle straordinarie persone incontrate e nonostante i più che buoni esiti del voto, l’orrido marchingegno elettorale del Pd mi ha penalizzato.
Ecco come:
Mentre i seggi che vengono presi con quoziente pieno partono tutti dal raggiungimento del quoziente elettorale di collegio (es. metti che per 10 seggi sia mille voti ogni seggio: tu ne prendi tremila guadagni tre seggi), i resti, invece, non seguono la logica di chi si avvicina più a mille (e cioé quella meritocratica del resto più alto) ma si parte con una prima assegnazione dei seggi ai collegi con quattro seggi con i resti e poi via via con i collegi con un più alto numero di seggi. In Lombardia solo due seggi sono stati assegnati pieni mentre gli altri quindici tutti con i resti. La fregatura quindi l'abbiamo presa noi di Mantova e poi Cremona e Milano 3, ultima fascia di assegnazione con sette e sei delegati da assegnare e dunque con i resti (e quindi i voti in assoluto) più alti della Lombardia (!!). Si è fatto ricorso ma è il regolamento che è folle e anti-meritocratico. E senza neanche tutelare bene le minoranze. Infatti vengono dati seggi alle monoranze delle realtà meno significative e dunque meno capaci, potenzialmente, di tenere nel tempo. Ma tant’è.
Così, nonostante che, dopo i collegi di Milano, io sia il più votato (quinto posto su 28 collegi lombardi) sono fuori.

In compenso ieri il Napoli ha vinto, dopo 21 anni, sul campo della Juve. Con una rimonta immensa. Meno male che o’ ciuccio c’è!

28 ottobre, 2009

North Country 4

I risultati ufficiali delle primarie sul sito nazionale del Pd sono scandalosamente lenti. Queste lentezze purtroppo a noi campani ci ricordano la disastrosa vicenda delle nostre primarie di due anni fa, i cui risultati non arrivarono mai e mai furono riportati come ufficiali…

Comunque, i dati della provincia di Mantova ci sono. La lista della mozione di Ignazio Marino per l’assemblea nazionale del Pd – per la quale sono stato capolista - ha ottenuto 2.698 voti, pari al 13,13 %. Contro il 56,13% della lista di Bersani e il 31,75% di quella di Franceschini. La lista Marino ha preso il 14,79% nell’Alto Mantovano dove soffia forte il vento della Padania che costringe il Pd a misurarsi con le ragioni che hanno spinto verso la Lega una parte del suo elettorato. E invece ha preso tra l’11% e il 12% nelle aree “emiliane”, lì dove il PCI prendeva il 70% e i Ds comunque la maggioranza assoluta, che, però, si sta erodendo lentamente. Bersani dunque ottiene più nel Sud e meno nel Nord della provincia.

Nella città di Mantova – dove si respira una crescente critica ai vecchi modi della politica – la lista per Marino ha preso un bel 19,20% con una punta del 24% circa nel centro.

Il sistema di rappresentanza all’assemblea nazionale è proporzionale e secondo tutte le componenti si ottiene uno dei delegati a Mantova se si è oltre l’8%, per questo dovrei essere stato eletto all’assemblea che si riunirà per la prima volta il giorno 7 di novembre.

27 ottobre, 2009

North Country 3


Postino che suona in una band. Psicanalista. Tecnico all’Eni che organizza i mantovani nel mondo. Antropologa. Pedagogista. Imprenditore. Rappresentante. Informatico. Altro informatico. Lavoratore in pensione e guida per passione. Gestora di un bed & breakfast. Prof. Farmacista. Sindaco. Operai di fabbrica. Muratori. Impiegati. Di famiglie contadine o cittadine o emigrate.

Persone che lavorano e fanno volontariato. All’Arci. Nel centro di lettura del quartiere. Con gli stranieri di ogni luogo del pianeta. Per mostrare le cose belle delle loro città. Per denunciare misfatti e disastri ambientali.

Persone per le quali si fa politica non per guadagno. Che vogliono un’Italia dove il merito conta. E l’ambiente pure. Che vivono in quartieri dormitorio anche qui. Accanto alle città meravigliose. Che sono solidali. Simpatici. Che s’interrogano. Sui perché. Sui figli. Sul da fare. Sulla crisi e le vie d’uscita possibili, concrete. Su quale politica vale davvero la pena e che perciò questa volta hanno sostenuto Marino, lontano dalla politica stantia.

Persone divertenti, aperte, che cazzeggiano. Simili a tanti di noi che a Napoli abbiamo fatto e facciamo le buone battaglie. Che chiedono delle nostre battaglie e tragedie. Ma che vivono in un tessuto che tiene di più. Fino a quando? – si chiedono. E c’è da chiederselo. Anche nella North County. Che è più civile delle nostre terre, in senso proprio: civic. Da chiederselo onestamente, ora che anche qui la crisi disgrega sempre più i tessuti connettivi. Perciò: c’è da pensare e agire di nuovo – tra Nord e Sud. Tanto.

24 ottobre, 2009

North country 2

la Questione Meridionale è ancora questione nazionale

Da martedì a oggi ho girato la provincia di Mantova a sostegno della mozione Marino. L’ho fatto parlando del Sud, di Napoli, della crisi economica e sociale da noi. Ma anche del come morde diversamente ma comunque morde a Sud e a Nord. E di come anche a Nord colpisce i più giovani, gli operai, le donne, gli immigrati stranieri e quelli che sono da poco venuti dal Mezzogiorno. Parlando e ascoltando. Con un’attenzione comune alla devastante bancarotta della politica e delle amministrazioni di centro-sinistra a Napoli e nel Mezzogiorno e al come il loro terribile fallimento storico abbia danneggiato anche il molto buono del centro-sinistra al Nord; e al come, al contempo, faccia da monito, da campanello d’allarme per atteggiamenti e metodi di governo che portano alla disfatta.
Nei prossimi giorni racconterò le storie che ho incontrato.

Non mitizzo questa iniziativa di Marino. Ma penso che sia un piccolo, incerto segno di speranza nel deprimente scenario politico. Ed è tale perché è una posizione di decenza e di competenza. Nella situazione in cui si trova il Paese è il caso che si vada a votare per queste primarie e votare Marino.

Intanto solo una prima impressione. Il Pd di Mantova e del Mantovano – nelle persone appartenenti alle tre mozioni che ho potuto incontrare – mi hanno colpito per due ragioni.
La prima: mi hanno chiesto conto del perché ero venuto lì a fare campagna ma poi hanno ascoltato e partecipato di ragionamenti comuni su come il Paese è diviso a metà, sul cosa fare e sul cosa non fare come centro-sinistra. Mi hanno chiesto conto e poi sono stato accolto. Perché la vicenda meridionale – nella percezione di questa parte di società – è ancora questione nazionale.
La seconda: è da tempo che tantissimi in tutto il Nord si chiedono quando il Pd si sbarazzerà dell’ingombro del ceto dirigente fallito nel Mezzogiorno, dei Loiero, dei Bassolino. Che vengono considerati – in area Bersani o Franceschini o Marino e ben oltre – come zavorra intollerabile e pericolosa, che sì porta voti ma voti avvelenati, che hanno fatto perdere credibilità e consenso a Pd e sinistra ovunque nel centro-Nord. Le notizie da Castellamare di Stabia, le vicende della signora Mastella, le indagini ulteriori su Bassolino, il numero incredibile delle tessere sono altrettante coltellate alla fatica della buona politica nelle aree del Paese dove il Pd è in prima linea contro l’onda xenofoba della Lega e il berlusconismo diffuso. Insomma la domanda è: ma com’è che voi onesti del Sud non riuscite a mandarli a casa?

19 ottobre, 2009

Braciere e povertà

Bimbo e mamma morti a Napoli: da giorni no corrente elettrica in casa (ansa) - Napoli, 19 ott - il bimbo di nove anni ritrovato oggi morto a Napoli, secondo le prime notizie, viveva insieme con la mamma in un'abitazione del Rione Sanità dove da circa due settimane era stata staccata la corrente elettrica.La casa è molto piccola, quando sono arrivati i vigili del Fuoco era tutto chiuso: ritrovato un braciere che ha probabilmente causato l'intossicazione dei due.

Questo accade a Napoli oggi e quello che segue è il mio commento che dovrebbe uscire su Repubblica Napoli di domani.

Ieri una mamma e un bimbo di Capo Verde sono morti per le esalazioni di un braciere nel quartiere Sanità. C’è chi dirà che è la cattiva sorte. E lo è … anche se da poco era stata staccata la corrente a quella abitazione povera e non vi era possibilità di accendere la stufa elettrica per difendersi da questo primo freddo.
Ma la verità è che ogni statistica e studio di questo mondo spiegano che è la povertà che porta con sé rischi e sfortune. Sempre. Chi è povero si ammala di più, muore prima, subisce maggiori incidenti, ha più probabilità di essere vittima dei disastri cosidetti naturali, incorre di più nelle dipendenze, ha maggiori problemi con le burocrazie e la giustizia. Certo, la sfortuna esiste. Ma l’esclusione sociale ne è un potente moltiplicatore. Del resto – a riprova - è vero anche il contrario. Vi sono molte maggiori protezioni contro la cattiva sorte lì dove c’è più occupazione, lavoro legale, efficaci ammortizzatori sociali, dove sia gli adulti poveri che i loro figli riescono a studiare e continuare a formarsi nel corso della vita, dove i servizi alle persone sono più affidabili, dove è più facile l’accesso alle informazioni, ai diritti, alle reti sociali fondate sulla cittadinanza.
Perciò queste ennesime morti ci angosciano. Perché ci interrogano su quale solidarietà siamo disposti ad attivare come cittadini e come persone. E perché ci chiamano a domandarci dove viviamo. E a farlo con onestà intellettuale e civile. Ma dove e come sono state spese le somme ingenti attivate contro l’esclusione sociale nella nostra regione nei venti anni passati? Non è forse tempo di chiedere conto, di reclamare un consuntivo dettagliato? E’ sempre e solo colpa di qualche cattivone del governo nazionale se c’è tanto concentrato di esclusione qui da noi? O è giunto il tempo per farsi spiegare com’è che, ben prima di questa grande crisi, il nostro specifico tasso di occupazione era solo al 43,2% in Campania e al 39,8% nella provincia di Napoli, il più basso di tutte le province d’Italia. Perché e come è accaduto che - secondo la Banca d’Italia - nell’ultimo decennio, nonostante gli aiuti europei, la produttività del lavoro nell’industria nella nostra regione è stata di oltre il 20% inferiore di quella nel Centro-Nord e di oltre l’8% in meno rispetto alla media del Mezzogiorno? Certo, ora gli occupati sono 33 mila in meno secondo l’Istat e l’aumento delle ore di cassa integrazione è stato di oltre otto volte. Ma il Pil campano era fermo da anni, si era ridotto l’anno prima della crisi del - 2,8% secondo la Svimez o del –1,6% secondo Prometeia, una riduzione ampiamente superiore al dato medio del Paese. E perché il tasso di disoccupazione è secondo solo a Palermo? E perché solo una donna in età di lavoro su quattro (24,2%) è occupata? E – ritornando a chi è povero – perché già sei anni fa nella sola regione Campania risiedeva quasi lo stesso numero di persone povere presenti in tutte le regioni del Nord: rispettivamente 1.339.601 e 1.382.782? E perché le famiglie povere o quasi povere, secondo l’Istat, oggi ammontano almeno a una su tre?
Non è più tempo di cautele. I papaveri della nostra politica locale possono dir quel che vogliono sui destini del Sud incompreso e “piangere e fottere” come sempre hanno fatto i notabili del Mezzogiorno. Ma se sono solo persone dignitose, queste ennesime morti li chiamano a dar conto di ciò che essi hanno fatto o non fatto e ad aprire un serio confronto pubblico su un terribile fallimento che coinvolge le vite e le speranze delle nuove generazioni della nostra terra.

North country

Da febbraio vivo a Trento. Non volevo stare appresso ai baracconi partenopei della formazione in cambio di una strisciante cooptazione da parte dei nostri “lor signori”. La libertà è un bene inalienabile. E ha i suoi costi. Ma anche i suoi vantaggi. E’ una straordinaria occasione per mettersi in gioco, apprendere anche alla mia età. Sì, per conoscere e ri-conoscere e per cambiare sguardo: altri posti, altre modalità e persone che fanno, pensano, parlano diversamente e, dunque, che smontano, dall’interno, le categorie attraverso le quali uno è abituato a guardare le cose.

Mi occupo di ragazzini e docenti che cercano di contenere il disagio del crescere che investe l’intero nostro Paese, anche il Nord – dove, in modi diversi che da noi, pure c’è esclusione sociale e crisi educativa. Però è vero che il mio lavoro qui è sostenuto da un sistema di welfare che funziona e che mi insegna come potrebbe essere fatto un buon sistema di protezione, capace di promuovere educazione, formazione, sviluppo locale. Perché si rivolge con competenza sia a ragazzi italiani che stranieri. Sia al produrre che al sapere. Sia al dare che al chiedere conto.

Da ancor più tempo giro per il Nord – lo faccio da quando stavo al Ministero, impegnato, durante la breve stagione del governo Prodi, sul nuovo obbligo di istruzione e sulle indicazioni per il curricolo della scuola di base. Il Nord. E’ un insieme di moltissime realtà diverse. Ma che hanno in comune l’essere un normale contesto europeo. Mi viene da dire: luoghi europei dove si parla italiano. Fa strano camminarci in mezzo per chi è di Napoli. Sono luoghi segnati, tuttavia, dalle solite anomalie italiane e, in particolare, da quella cosa insopportabile che è la vigliaccheria: l’essere forti con i deboli e deboli con i forti. Ma, nonostante questa “italica persistenza”, vi è un tessuto di cose faticosamente normali, che a noi del Sud manca. Tanto che noi quasi non ci rendiamo più conto che esistono in Italia. E che ci fanno meraviglia: strade pulite, uffici funzionanti, dibattito sui diritti, partecipazione a occasioni pubbliche nelle quali si decide del piano regolatore o della proposta fatta dalla municipalità, persone che si guadagnano il pane perché fanno il loro mestiere (veramente) e poi fanno anche politica, sindaci e assessori – di sinistra e di destra - che parlano con le persone e ascoltano pure, collegi docenti dove si lavora sul merito e non si urla, librerie piene di gente che compra perché legge e che non ha sempre la stessa faccia, treni pieni di persone che sono venute qui dal mondo intero e che hanno lo sguardo, il ritmo, le parole di chi lavora normalmente e non a schiavitù e che conosce doveri e diritti, come gli altri e che – pure nelle lande della leganord – paga un affitto secondo le norme e lavora secondo quanto stabilisce il contratto nazionale e si iscrive al sindacato, all’associazione culturale, fianco a fianco a amici italiani…

Nei Quartieri Spagnoli, dove torno spesso per lunghi week-end, vedo ancor più di ieri quanto la situazione dei ragazzi è disperata. E rabbrividisco più di ieri nel riconoscere le colpe della classe politica locale, che ha gettato via risorse per decenni. Risorse minori di quelle disponibili al Nord? Certamente. Ma comunque ingenti risorse gettate via.

Seguo da prima di questa mia emigrazione i ragazzi napoletani emigrati. So da tempo – con tristezza immensa – che i nostri ragazzini poveri che si salvano sono quelli che emigrano al Nord. Cambiano il loro sguardo. Come lo cambio io. Carmine mi parla di una fabbrica e non più di una fabbrichetta al nero, della busta paga vera, del sindacato, della casa affittata con un regolare contratto insieme agli amici, della palestra frequentata la sera. Anna mi dice della freddezza che trova ma anche di come è fatto l’asilo nido dove porta sua figlia e del lavoro del marito che “ha tanti compagni di fatica neri”. Antonio è preoccupato per la crisi come i suoi compagni di lavoro: “qui la cosa è seria, il lavoro c’era e oggi non c’è; non è come da noi che eravamo abituati che non c’era e basta; ognuno c’ha il mutuo, c’ha le sue cose fatte bene; è un casino qui…”

Quando mi fermo con le persone di centro-sinistra al Nord mi chiedono del centro sinistra napoletano. E quasi ogni volta, con rabbia, mi raccontano di quanti voti hanno perso per colpa della monnezza, di Bassolino e della sua arroganza senza contenuti e senza modi. O mi domandano del suo sistema, di quella montagna di tessere incredibile… un terzo di tutte le tessere d’Italia. Mi chiedono come è stato e come è possibile. Rispondo loro come si può immaginare ma con fatica. Confesso che sono orgoglioso di non aver mai fatto parte di quella roba lì, di cui loro mi parlano con dolore, incredulità e rabbia. Questo mi dà forza. Ma non basta. Mi chiedono se a sinistra del Pd c’è qualcuno che critica, che esce dalle giunte. Scuoto la testa. Mi chiedono come andrà adesso. E dico loro che il centro-sinistra inevitabilmente perderà. Contro la peggiore destra che esiste. E che se per caso, invece, vince, è una roba nella quale loro non potrebbero mai ma proprio mai riconoscersi. Mi chiedono di fare degli esempi, perché stentano a credermi. Con vera pena dico loro di Castellamare di Stabia, del morto e dell’uccisore iscritti entrambi al Pd. Sgranano gli occhi. Non capiscono.
O parlo delle inchieste attuali sui rifiuti o del come queste inchieste sono parte di un’idea aberrante di territorio e di cittadinanza, che persone serie criticano, in modo costante e documentato, ma come voci nel deserto. O racconto loro delle concrete vicende della gestione della cosa pubblica a Napoli. Proprio ieri ho parlato con due segretari di sezioni del Pd e con un ragazzo di Rifondazione della vicenda del Forum delle culture del 2013 e dell’assessore Oddati.
Finché non ho aperto il computer e mostrato loro i dati di fatto si sono rifiutati di credermi. Dopo mi hanno guardato con tristezza. Hanno ammesso che anche da loro succedono cose brutte. Ma non queste enormità. Già, le enormità…

Così il Nord oggi fa parte del mio paesaggio. E’ una dimensione, per me nuova, entro la quale domandarmi dove va il mio Paese, una dimensione della politica che si affianca a quella napoletana. Per questo ho accettato di candidarmi a Mantova – provincia molto varia, con più di cento diverse etnie immigrate e molti clandestini, con diffusi problemi di nuove sofferenze a scuola, con zone di chiusure traumatiche di fabbriche e di nuove povertà – come capolista alle primarie di domenica prossima per l’assemblea nazionale del Pd, per la mozione di Ignazio Marino.
E così martedì sarò con Pippo Civati a Pegognaga a riflettere su lavoro e i giovani. Mercoledì sarò a Montecchi sui temi dei diritti civili, di equità e diversità. E giovedì sarò al teatro comunale di Mendola nell’alto mantovano dove la crisi morde duramente. Spero di raccontare qui quello che incontro.

18 ottobre, 2009

Commenti, sms e telefonate

Grazie per i commenti, per gli sms e … le telefonate, anche quella del sindaco

Intanto sono contento che questo posto abbia potuto ospitare divergenze.

Ai ragazzi della scuola di Francesco – da “vecchio insegnante” - mi piace dire questo: continuate a litigare ma portate anche argomenti e studiate affinché siano ricchi, molteplici. E, se vi è possibile, nutrite il dubbio insieme alla passione. Per esempio: la studentessa onesta è proprio sicura che il “mettere sotto pressione” in un posto x o y faccia parte di quello che si deve auspicare sia il funzionamento della polizia? E l’anonimo del 15 ottobre ha letto proprio bene il mio articolo sulle case abitate da Ezra Pound ed è proprio sicuro sicuro che io abbia scelto di non parteggiare? O forse sto dicendo alla mia parte che il mondo cambia e gli strumenti di analisi e di azione possono mutare rispetto ai modelli del secolo scorso?
E’, insomma, auspicabile interrogarsi, ognuno come crede. Ma intanto, ragazzi, vogliamo chiederci: come diavolo sia possibile - nel 2009 e con la città con i problemi che ha - essere aggrediti da più persone che nascondono il viso e finire feriti perché si pensa una cosa anziché un’altra? Insomma: io ho banalmente scritto che a me non piacciono le aggressioni e la spirale che ne può derivare. E che dissento anche dai cortei minacciosi perché non rispondono alla situazione. Non concordo con i cortei di quel tipo. Concordo con la maratona anti-omofobia promossa oggi, per esempio.
Apprezzo le sollecitazioni di Franco Cuomo sul fatto che spesso – non sempre - in Italia si è fermi a categorie di analisi che sono vetuste.
Condivido, poi, molti argomenti di Pietro Spina. Sì, la povertà che non si riesce a estirpare, l’esclusione culturale, la mancanza di occasioni di partecipazione alle scelte collettive, il parlare dei personaggi sempre gli stessi anziché delle proposte stanno riducendo la politica a qualcosa di inutilizzabile.
Ringrazio poi i molti, anche da fuori Napoli, che mi hanno inviato sms e telefonato a sostegno di questi due articoli. E ringrazio anche il sindaco Rosa Iervolino Russo – con cui ho avuto una quantità invidiata di conflitti politici duri e alla luce del sole – che mercoledì 14, dopo essere andata di persona a trovare la signora Lisa Norall, ha chiamato sul mio cellulare mentre stavo al lavoro in un istituto professionale di Trento per ringraziarmi per “gli argomenti seri ed equilibrati che hai portato a questo passaggio della vita cittadina”, semplicemente.

09 ottobre, 2009

Lisa Norall è una signora

La storia di casaPound a Materdei si sta trascinando pericolosamente in una scia di aggressioni, che va spezzata. Oggi esce su LaRepubblica di Napoli questo mio pezzo.

Il vigliacco ferimento davanti a scuola di Francesco Traetta da parte di un gruppo di fascisti avviene in una città che vive da anni un clima di insopportabile aggressività e divisioni profondissime, che vanno ben oltre la questione dei fascisti. E che chiamano a una riflessione ampia sulla politica e il confronto.
Intanto Napoli continua ad essere drammaticamente divisa in due: da un lato i protetti, dall’altro gli esclusi. Le due città non si parlano e quasi non si conoscono. E’ una condizione persistente lungo i decenni, che ci offende ma che colpisce innanzitutto i più deboli e i ragazzi. Ciascuno dei nostri figli, ognuno a suo modo – quelli che lavorano al nero come quelli che studiano, quelli schierati nel campo progressista e quelli conservatori, quelli attivi nelle parrocchie, quelli non impegnati e quelli dei centri sociali di sinistra e anche di destra, quelli che sono emigrati per lavoro o per studio – sentono questa condizione come un macigno che uccide la speranza. Quando ci parli per strada o a scuola, al lavoro o sul treno che va a Nord, ogni loro parola dice questo. E’ l’insieme delle occasioni perse per un nostro riscatto economico, sociale e civile, è la persistenza della povertà, è il cadere delle opportunità collettive e individuali che ne attaccano le certezze, le volontà e anche le ragionevolezze. E’ più difficile crescere qui, pensare a una vita in una città divisa. Perché la mancanza di coesione sociale alimenta sospetto, sfiducia, aggressività, paura, risentimento. E produce dipendenze, liti, ruberie, il moltiplicarsi delle violenze anche gratuite e le morti terribili come quella di Petru. La cultura di camorra, sostenuta dal diffondersi dell’economia del malaffare, spinge queste infamie nel novero delle cose ordinarie. Ma è il mancato sviluppo e l’assenza di politica nuova - capace di riscatto - che ne sono le cause profonde. Tutto questo è ulteriormente aggravato da spinte xenofobe e razziste – in tutto simili al resto del Paese - che hanno moltiplicato gli attacchi ai singoli in quanto “diversi da me” – la donna africana che partorisce, la bambina rom sospettata di essere positiva alla tbc, la persona gay. Ma da noi tali spinte hanno, al contempo e più che altrove, fornito nuova benzina all’astio dei molti poveri contro altri poveri, fino ai terribili attacchi di massa ai rom e agli immigrati. Così, le aggressioni sospinte dalle condizioni materiali di esclusione si intrecciano con quelle aizate dalle nuove sirene dell’odio.
A questo clima cittadino si aggiunge il clima politico nazionale. Che, però, ricade più pericolosamente che altrove sulla nostra città. Perché essa è ben più povera di lavoro, di reti protettive, di presidio dei limiti e di abitudini al rispetto di diritti e doveri. Perciò: fa più male di quanto già faccia agli altri che un uomo che ha vinto le elezioni e gode di una legittima e schiacciante maggioranza, che gli consentirebbe di governare con sicurezza e anche con garbo, non riesce a farlo e, invece, urla e strepita. Fa più male a noi vedere il capo del governo maniacalmente preso dalla difesa dei suoi interessi privati, che confonde con le questioni pubbliche. E fa male perché – in un luogo più povero e dove è più difficile difendere le ragioni dell’interesse generale – offende di più l’accecamento che non si placa neanche dinanzi alla propria età e alla certezza di una fortuna enorme che permetterà una vita da ricchi ai figli, ai nipoti e ai pronipoti. E poi fa male la mancanza di auto-disciplina nell’uomo che ha la prima responsabilità del Paese, la sua incapacità di misurare le parole, controllare i gesti, distinuguere i diversi contesti entro i quali muoversi, il suo non sapere negoziare con l’altro da sé, il suo aggressivo fastidio per le procedure e l’arbitraggio, che sono il sale delle democrazie.
Ma va detto. Da tutto questo nessuno di noi può sentirsi immune. Siamo tutti a rischio di contagio. E viene alla mente il passaggio dei Promessi Sposi, quando Manzoni commenta l’ira di Renzo per il torto subito: “i soverchiatori, tutti coloro che in qualunque modo fanno torto altrui sono rei non solo del male che commettono ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi”. Si sta facendo strada, infatti, un’assuefazione generalizzata al fatto che, nel dibattito pubblico, le posizioni altrui siano inaccettabili e dunque sia normale stravolgerne i termini per attaccarle meglio o che le negoziazioni vengano escluse come opzioni possibili o che si disprezzino le posizioni intermedie, i toni pacati, i ripensamenti, le proposte di confronto aperto, le disponibilità a parlarsi. Non vi è temperanza. E ogni volta, anche nella nostra povera politica locale, qualcuno si incarica di chiamare a schierarsi contro qualcun altro o a urlare al tradimento, per ribadire il primato dell’appartenenza. Che, così, si rende nemica della cittadinanza.
E’ per queste considerazioni – e non per una mia inclinazione verso il revisionismo storico, che notoriamente aborro – che ho usato la metafora della vita di Pound per ricordare le cose terribili che ereditiamo dal secolo passato e che dobbiamo pur superare.
O davvero pensiamo che - oltre a tutto il resto - i nostri figli debbano rivivere adesso in questa città ciò che noi abbiamo vissuto oltre trentanni fa? Vogliamo davvero le sprangate subite e poi date, i cortei attrezzati per lo scontro militare, gli attacchi alle sedi altrui come cemento per la propria identità, gli agguati sotto casa, i ferimenti o peggio?
Oggi sono rafforzato nella mia convinzione di andare oltre gli steccati. Lo sono grazie al potente gesto – insieme umano e politico – della signora Lisa Norall, la mamma di Francesco. Che è andata a casaPound e ha chiesto conto. “Cosa state facendo veramente qui?” E non penso sia un caso che sia stata una donna a fare questo passo. E sarebbe bene che, colpevoli o no, le ragazze e i ragazzi di casaPound andassero a visitare Francesco e chiarissero i loro intenti in città. Ma ci vuole anche di più, ci vuole una moratoria vera. Questo giornale può chiedere al sindaco di farsene promotore e garante: convochi tutti i centri sociali, chiami a sottoscrivere un patto di comportamento, basato sulla rinuncia assoluta alla violenza reciproca, sull’apertura delle sedi alla cittadinanza, sul dibattito plurale intorno ai temi dello sviluppo, dell’eguaglianza, della differenza e dell’identità – che sono i grandi temi comuni della città e del villaggio globale.
Finiamo questa spirale finché siamo in tempo. Abbiamo bisogno di pace per pensare alla rinascita di Napoli.

04 ottobre, 2009

Saluto al comandante



L’altro ieri è morto a novantanni Marek Edelman.

Ebreo laico, giovane militante socialista del Bund, comandante militare dell’insurrezione del ghetto di Varsavia, combattente per la libertà contro il fascismo e poi contro lo stalinismo e il socialismo reale che socialismo non è mai stato, molte volte incarcerato e pacatamente indomito, medico bravo e generoso, consigliere testardamente laico del movimento operaio polacco egemonizzato dal cattolicesimo, uomo capace di tenere insieme forza e temperanza.

“Guardiano dei morti” – così chiamò se stesso nelle memorie, è stato soprattutto un grande amante della vita, della solidarietà tra le persone e verso ogni luogo oppresso, dell’amicizia, della passione amorosa.

02 ottobre, 2009

Le case di Ezra Pound

Ancora un pezzo che è uscito su Repubblica Napoli, stavolta in occasione di un corteo antifascista contro un centro di casapound e che è finito in modo violento.

Mentre i cortei si muovono tra le grida che evocano il ricordo delle Quattro Giornate, Erri De Luca chiama all’antifascismo militante anni settanta, i responsabili di causapound si proclamano oscuramente fascisti della terza generazione e il comune intende far disoccupare con la forza gli spazi da loro occupati intitolati al grande poeta americano, può capitare di pensare alle case di Ezra Pound, quelle vere, dove egli visse. E che forse potrebbero suggerirci qualcosa.
Sì, le case. Quella dove nacque in mezzo agli spazi vuoti e sotto il cielo largo dell’Idaho, quelle dove approdò, ancora ragazzo, nelle grandi città, dove poteva condurre la vita sregolata che desiderava, lontana dalla sua bigotta provincia. E dove accumulava i libri dei poeti antichi e medioevali o iniziava l’amicizia con T. S. Eliot o pranzava con William Carlos Williams o amoreggiava con Hilda Doolittle grande poetessa e donna apertamente bisessuale. Quelle inglesi o parigine dove studiava il teatro Nò giapponese con Yeats, imparava la boxe da Hemingway o da cui scendeva per presentare James Joyce alla sua futura editrice. O quelle italiane degli anni trenta dove scriveva versi di innovativa potenza, studiava le musiche rinascimentali e giocava a tennis. Ma dove iniziarono i segni di un lucido e terribile delirio. Infatti prese una vera fissazione contro le banche in quanto tali. Sposò le teorie sulla superiorità della razza ariana denigrando i neri d’America come inferiori mentre, al contempo, esaltava Thomas Jefferson come possibile ispiratore di Mussolini, dimenticando gli scritti sulla democrazia del fondatore degli Stati Uniti o il fatto che avesse vissuto e fatto molti figli con una donna nera dopo la morte di sua moglie. Poi vennero le case del tempo di guerra. Dove Pound continuò a difendere il regime anche durante la repubblica di Salò, facendosi portavoce del nazi-fascismo alla radio con parole incancellabili: “Se mai vi è stata nazione che ha prodotto efficiente democrazia, questa è stata la Germania. Eliminate Roosvelt e i suoi ebrei o gli ebrei e il loro Roosvelt”. E la casa della prigionia – che casa non era ma una gabbia all’aperto e poi una tenda – dove fu rinchiuso nel campo americano di Pisa, accusato di alto tradimento. O la prigione dove soggiornò durante il processo e dove si salvò dalla pena capitale solo perché quasi tutta l’avanguardia artistica del Novecento che aveva avversato il nazi fascismo si mobilitò generosamente per lui e perché, grazie alle garanzie liberali, i più grandi psichiatri d’America ne riconobbero la effettiva infermità mentale. Primo Levi un quarto di secolo dopo il processo scrisse: “Forse il tribunale americano che giudicò Pound mentalmente infermo aveva ragione: scrittore d'istinto, doveva essere un pessimo ragionatore e lo confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale per i banchieri. Ora, chi non sa ragionare deve essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la Germania di Hitler”. O l’altra casa di Pound che casa non era – ma stanza di ospedale psichiatrico – dove, nonostante tutto, continuava a incontrare i capi segregazionisti e a proclamare un testardo razzismo: “E’ una missione quella di lavar via dalla razza anglo-sassone gli elementi che la infangano, i negracci e gli ebreacci”. O l’ultima casa, a Venezia, dove un giorno del 1967 andò a trovarlo il poeta Allen Ginsberg. Lì salutandosi sull’uscio della porta - in risposta al “grazie per le sue poesie” del poeta della beat generation, ebreo fiero di esserlo – Ezra Pound timidamente disse con un fil di voce: “Il mio più grave errore è stato il mio stupido pregiudizio antisemita da sobborgo, una roba che ha rovinato tutto”.
Che dire allora di e su casapound? Sono figlio di un antifascista condannato a venti anni dal tribunale speciale. Da ragazzo facevo antifascismo militante per le strade di questa città ma leggevo con ammirazione i Cantos di Ezra Pound. E forse iniziavo a capire che si è chiamati a vivere in un mondo complicato, che ereditiamo da un secolo che è finito ma sul cui senso ci si deve interrogare ancora e con lo spirito del ventunesimo secolo che ha evocato Obama pochi giorni fa alle Nazioni Unite. E che si fonda sulla necessità imperativa di superare la paura dell’altro e di andare oltre gli steccati e parlare del merito delle cose. No, io non manderei la polizia a sgombrare casapound e tanto meno ci andrei io con i miei compagni. Ci andrei sì. Ma per parlare. E domanderei: quali delle case di Ezra Pound vi ispirerà in questo luogo? Quella dei poeti di ogni cultura e inclinazione sessuale? Quella dei proclami di odio? Quella della riflessione sugli errori? Perché - come ha scritto Paola Concia, donna di sinistra che lotta per la causa di ogni diversità e che si reca in questi giorni a casapound di Roma - la paura del diverso si annida in ogni cultura, a destra e a sinistra. E noi lo sappiamo nelle vicende quotidiane di razzismo e di omofobia che ci stanno opprimendo. E non basta il proclama antifascista: un nostro quartiere che è insorto contro i carri armati nazisti durante le Quattro Giornate, che sempre è restato fedele all’antifascismo, ha anche cacciato vecchi e bambini rom a suon di molotov. Sì, io andrei innanzitutto a parlare. Perché la città è satura di aggressività; c’è un bisogno immenso di parole scambiate, anche se sono difficili.

01 ottobre, 2009

Gli spazi dell'infanzia

La Questura di Napoli ha reso noto i primi risultati di una vasta operazione di indagine su video poker e slot machine. Centinaia di macchine, trovate manomesse, sono state sequestrate con multe per migliaia di euro. Nel corso dell’inchiesta è emerso che decine di ragazzini commettevano reati quali scippi e rapine, a Pianura, nei Quartieri Spagnoli, nella Sanità per rispondere al bisogno di giocare a soldi con questi arnesi. Ho commentato questa notizia su Repubblica Napoli di oggi con l'articolo che segue.

Alcuni video giochi - slot machine e video-poker - sono osservati da tempo da chi si occupa di povertà perché sono creatori di dipendenza, capaci di sottrarre soldi a chi ne ha già pochi. Accade nel nord come nel sud di vedere un uomo terminare una giornata di lavoro in cantiere, una donna che finisce un turno delle pulizie, una casalinga con la busta della spesa, un giovane disoccupato fermarsi in un caffè e ogni volta immettere in queste macchine quattro o cinque euro almeno e magari vincere e rigiocare fino a che perde ancora. Chi gestisce questi arnesi ha, dunque, molto da guadagnare. E da noi è la camorra che ha i liquidi e la rete organizzativa per l´acquisto e il controllo di questo vasto mercato, che permette riciclaggio di denaro e nuovo profitto.

Così il monopolio di Stato sul gioco viene espropriato, a maggior ragione in quanto le macchine vengono taroccate: promettono vincite superiori ai limiti fissati dalla legge, mentre in realtà diminuiscono le probabilità di vincita. Questo ha scoperto un lungo e puntiglioso lavoro investigativo della questura di Napoli. Ma l´indagine ha soprattutto confermato quanto molti operatori sociali intuiscono da tempo: sono aumentate le rapine di minorenni anche perché c´è crescente dipendenza dei ragazzi dalle slot e video-poker. Il gioco, le sale gioco sono da decenni occasioni di aggregazione tra ragazzi. Ciò non è un male in sé. Può esserlo o no. Infatti ogni esperienza adolescenziale comporta rischi. Girare tutta la notte in auto può favorire sano divertimento e amicizia o essere pericoloso. Fermarsi le ore dinanzi ai bar può costituire la base per relazioni e progetti costruttivi o la premessa per avventure rischiose. Anche la sala giochi può essere luogo di socialità e apprendimento o di dipendenza e pericolo. A Napoli come a Milano, Londra, Nuova Delhi ogni volta che capita di entrare in un bar o in un luna park ci si rende conto come i ragazzini si mettono alla prova in molte cose contemporaneamente.


Mentre manovrano con velocità sconvolgente i videogiochi, spesso in gruppo, inviano messaggi sms per confrontarsi sul da fare o ascoltano musiche. Intrattengono conversazioni su punteggi o record o tecniche di gestione dei giochi. Ma le parole rimandano al governo delle relazioni, all´instaurarsi di gerarchie basate su abilità, conoscenza e competenza, a promesse di insegnamento. E, intanto, si fanno strada altri temi di conversazione: commenti su film, riflessioni sui corteggiamenti propri o altrui, opinioni sulla domenica sportiva o sui fatti di quartiere, organizzazione delle partite di calcio, finanche pensieri sulla scuola. Da sempre intorno ai giochi prende forma la costruzione della vita sociale. Accade sulle spiagge, negli oratori, nei centri giovanili. Dunque si tratta di esperienze che in sé non vanno demonizzate. Perché la crescita ha luogo lì dove ogni generazione si misura con la costruzione dei suoi linguaggi, dei gusti e dei modi, fuori da casa, lontano da noi genitori. C´è il rischio di dipendenza? Certo che sì. Ma c´è anche quando il gioco avviene in casa.

Però l´inchiesta della polizia rivela la novità del gioco d´azzardo di minorenni con le macchine mangiasoldi. Se questa novità coinvolge anche ragazzini di famiglie bene non lo si sa. Alcune segnalazioni ci sono state in città del nord. Ma l´allarme sociale nasce quando sono i ragazzini poveri ad essere presi da questa dipendenza perché ne nascono scippi, rapine con coltelli sempre più diffusi, aggressioni di gruppo. Come accade per altre dipendenze. Sono atti che vanno repressi. Ma attenzione: le città sicure non sono quelle che promettono un controllo totale sui ragazzi chiusi dinanzi al video-gioco di casa. Sono quelle che reprimono il grande malaffare e che, al contempo, favoriscono libertà di movimento sicuro in città e spazi molteplici per chi è ragazzo. È una città dei bambini e dei ragazzi che fu promessa per Napoli, che altrove esiste, che si può riprendere a cercare, nonostante tutto.

28 settembre, 2009

Consiglio di classe


Sta per uscire Consiglio di classe, un libro curato da Angelo Ferracuti e Stefano Iucci.
Vi si prova a raccontare la scuola di oggi e le persone che la abitano, con l'occhio un po' oltre i cliché. Vi sono anche delle belle foto. E' stato scritto a più mani da scrittori che insegnano o insegnanti che scrivono, che dir si voglia.
C'è anche un mio racconto che non ha nulla a che fare con il consiglio di classe, tratto da un taccuino su cui annotavo impressioni dalla strada e che ho aggiornato a giugno di quest'anno dopo una nuova esplorazione di quartiere e dopo un confronto con Salvatore Pirozzi su letture comuni.

27 settembre, 2009

Obama alle Nazioni Unite e noi


Tre giorni fa Obama ha parlato all’Assemblea generale dell’ONU. Vale davvero la pena ascoltare il suo discorso o leggerlo con cura, in ogni sua parte.

Sì siamo di Napoli, sì ci occupiamo ognuno di qualcosa. Ma gli interessi generali esistono, il mondo è davvero globale, i problemi e le soluzioni possibili e la via – il metodo e lo spirito – per affrontarli lo sono altrettanto.

E nelle cose generali della vita umana su questo pianeta così come nelle vicende di questa nostra città, non cambiano le questioni di spirito e di metodo con le quali si affrontano situazioni, problemi, relazioni con gli altri. Per esempio non si può dire di essere d’accordo con Obama quando dice che bisogna affrontare il merito di ogni problema, ascoltarsi reciprocamente ed essere umili e poi affrontare la polemica politica locale senza mai parlare del contenuto delle cose, insultandosi. Non ha senso applaudire Obama quando dice che è tempo di dire pubblicamente ciò che si dice nelle chiuse stanze o quando sostiene che i veri cambiamenti avvengono grazie alla attivizzazione delle persone che si intende rappresentare e poi al contempo continuare a curare solo le chiuse stanze del potere e a contrastare ogni moto partecipativo reale per anni, ripetendo che è illusorio e che non è “la vera politica”.

Obama in un passaggio ha detto che i veri arsenali per affrontare i nostri problemi globali stanno nel nutrimento delle speranze e dell’attivizzazione degli esseri umani. Ecco: l’Italia e Napoli sono poveri di possibilità di riscatto oggi perché sono poveri di questo spirito e sono poveri di questo spirito perché siamo guidati da gente che non vuole e non sa e non può cambiare e che – come pure ha detto il presidente americano – si ostina ad affrontare le cose del 21esimo secolo con l’armamentario culturale e l’atteggiamento mentale delle parti peggiori del 20esimo secolo.

Quando si ascolta o si legge un discorso politico come questo è veramente impressionante l’abisso che c’è tra il nuovo metodo che si fa strada con Obama e gli arnesi nostrani. Per questo, testardamente, non si deve demordere dalle cose che in tanti, pure sparsi e deboli, continuiamo a dire e a fare. E non bisogna arrendersi all’idea che debba esistere sempre e solo questa politica stracciona e fallimentare. C’è un’altra politica.

25 settembre, 2009

Auguri ad Alberta

Oggi queste righe sono per Alberta Levi Temin,
per i suoi novant'anni.
Testimone della storia nella nostra città, donna e narratrice straordinaria, educatrice attenta di bambini e ragazzi di Napoli.
Auguri.

18 settembre, 2009

Gli uomini di Maugeri

Ieri sera presentazione del libro di Mariano Maugeri, "Tutti gli uomini del vicerè", alla libreria Ubik di Napoli. La serata è stata occasione per tornare sui temi del governo di questi luoghi e ha anche avuto momenti di imprevista vivacità. La registrazione è su Napolionline.

15 settembre, 2009

Piccoli inviti a riflettere

Intanto serve guardare questo "sunto" sui rifiuti in Campania. Forse è troppo semplice. Ma qualche sano dubbio lo si potrà pur avere?

Poi sul centro storico di Napoli e su chi deve fare le cose e come è utile leggere questo invito a distinguere le persone dalle pietre.

Per pensare alle policies sulla povertà non è male prendere atto che qualcuno in giro le pensa e le fa anche.

E per “dovere di ufficio” c'è un contributo mio, uscito su La Stampa tre giorni fa di ricordi delle estati di lettura di Gomorra e delle percezioni e discussioni amicali che ne seguirono, molto preso davvero dalle voci ascoltate in questi anni e solo un po’ fiction.

E “last, but not least”, questa proposta di riflessione non banale di D.I.

10 settembre, 2009

Segna…libro

Mentre, per ciò che riguarda il futuro sindaco, dopo il Bassolino, anche la Mussolini viene iscritta al programma "facce nuove" al governo della nostra povera città, per quel che riguarda la valutazione della lunga stagione del centro-sinistra campano segnalo che ieri è uscito il libro di Mariano Maugeri sugli anni di Bassolino. Ne parlano per ora il foglio e napolionline.

E anche io ne parlerò insieme all’autore. Lo farò alla presentazione il libreria a Spaccanapoli giovedì, 17 settembre.
Sarebbe bello se fosse occasione per creare “effettivo spazio pubblico”. E, dunque, se si potesse anche riflettere, forse, sul cosa fare per ricominciare a nutrire speranze per il futuro. Cosa sempre difficile, però mai impossibile.

06 settembre, 2009

Segnalazioni sulla scuola per chi è escluso dalla scuola

Nel salutare il fatto che Cesare Moreno ha aperto il blog di maestri di strada – luogo dove vi sono aggiornamenti sulle vicende del progetto Chance e le sue persistenti difficoltà - nonostante le rassicurazioni del Presidente Bassolino apparse su il Foglio - a esistere nella normalità che si meriterebbe, segnalo anche le risposte di Cesare ad alcune mie osservazioni al suo appello su facebook, espresse nell’ultima parte dell’intervista a napolionline il 28 agosto.
Sui temi delle metodologie e della trasferibilità di esperienze come Chance e simili, che giustamente Cesare richiama come questione cruciale, segnalo il II volume del lavoro scientifico sulle scuole di seconda occasione curato da Cristina Bertazzoni, che esce insieme alla ripubblicazione, nella forma di I volume di un’unica opera, del libro di Elena Brighenti
già uscito tre anni fa grazie all’intenso lavoro della rete nazionale di queste esperienze che si dedicano a un amplissimo lavoro con i ragazzini che non andavano più a scuola che si svolge da anni a Roma, a Torino, a Reggio Emilia, a Trento, a Verona e naturalmente a Napoli con Chance.
Per chi è interessato, l’insieme dei due volumi rappresenta la più aggiornata compilazione sistematica di esperienze, percorsi, riflessioni e proposte di cui disponiamo su una nuova scuola per chi non riesce a stare nella scuola cosidetta ordinamentale.
Si tratta delle risposte propositive concrete – riformiste, mi viene da dire – al fatto, terribile e innegabile, che la scuola pubblica italiana resta di classe, come molte volte, ben oltre gli anni di don Milani, è stato documentato.
E’ interessante notare come le indicazioni che emergono – che partono da quindici anni di complesso e costante lavoro con chi non riesce a stare a scuola – siano preziose per riflettere sulla scuola in generale, che finalmente dovrebbe essere capace di andare oltre la standardizzazione e dare risposte a ciascun ragazzino, in modo ricco, flessibile.

05 settembre, 2009

Ragazzini fuori di testa, declino comunitario, responsabilità

C’è finalmente da fare una riflessione politica – in senso vero – e, perciò, un confronto pacato e preoccupato sulle terribili scene che abitano la nostra città e in particolare sulle ulteriori violente incursioni di giovanissimi. In merito ho brevemente risposto a domande di Dario del Porto per la Repubblica nazionale di ieri 4 settembre.

E sono tornato sull’argomento con più calma oggi su Repubblica Napoli.

I temi di un confronto serio potrebbero essere la questione dell’esclusione sociale di massa di lunghissima lena, gli spazi simbolici occupati dall’assenza di parole tipica della nuova camorra e l’eclissi della mediazione di quartiere, la ulteriore e potente vicenda della diffusione della cocaina.
Resta, poi, la questione della responsabilità individuale per gli atti commessi. Che non è più eludibile.

Aggiornamento:
Sugli stessi temi questo ottimo contributo di Maurizio Braucci apparso su Napoli Monitor.

28 agosto, 2009

Su Napoli, sulle povertà, sulla scuola



segnalazioni di fine agosto

Oggi Norberto Gallo mi mette in rete con una lunga intervista radiofonica - a margine dell’ennesimo pour parler estivo su Bassolino and company - sui temi più strutturali della società e della politica a Napoli e nel Sud. In fondo all’intervista aggiungo poche cose alla bella intervista fatta sempre da Norberto a Cesare Moreno sui rischi di chiusura e le possibilità di rilancio del progetto Chance, riprese ieri da Il Mattino e poi dal Foglio con un articolo di Adriano Sofri.

Dopo l’appello al PD apparso su pagina 19 de l’Unità del 23 luglio che richiede una vera politica su giovani, scuola, Mezzogiorno, povertà - al quale si ebbero risposte il 24 luglio alle pagine 13 e 14 - segnalo anche il mio editoriale su La scuola alla rovescia, apparso a pagina 2 de l’Unità del 20 agosto .

Ho poi iniziato una collaborazione con La Stampa con un contributo sulla scuola e il rapporto tra standardizzazione e merito a cui ha fatto seguito un largo dibattito durante il quale, nei giorni successivi, sono intervenuti Umberto Veronesi, Luigi Berlinguer, Daniele Checchi, Anna Maria Ajello, ecc.

Per docenti e operatori della formazione e dell’educazione che fossero interessati segnalo inoltre la rivista Educationduepuntozero della quale, in particolare, coordino le pagine dedicate ai tema della città educativa .

le figurine vengono da queste vacanze lavoro.