22 dicembre, 2009

White Christmas


Qualche settimana fa i deliranti capi leghisti istigavano ancora una volta, pericolosamente, all'odio razzista. Lo facevano contro tutti, arcivescovo di Milano compreso. Con una furia di chi si sente l'ago della bilancia della compagine di governo e può urlare tutto. E, scimmiottando antichi slogan del Ku Klux Klan degli anni trenta e quaranta del secolo scorso auspicavano per la padania un White Christmas, un Natale fatto solo per i bianchi, con tutti gli stranieri fuori.
White Christmas è una famosa canzone degli stessi anni dello slogan del Klan, cantata da Bing Crosby - il disco più venduto del secolo scorso - e le sue parole sono una struggente esaltazione della neve a Natale, che ricorda quella del paesello da bambino a chi ora è nella grande città: bianco natale in senso proprio, nulla di razzista.
Il gioco di parole ignobile dei leghisti, che capovolgeva in odio una canzone d'amore, deve, però, avere risvegliato, il Signore degli eserciti. Il quale - forte di poteri superiori - ha fatto cadere sulla padania un vero bianco Natale, Fatto di neve e di ghiaccio. Che ha bloccato tutto.
Così mentre attraversavo la bianca, di neve, padania sul treno regionale con ore di ritardo ho visto la bimba cinese che giocava con la nonna italiana di un'altra bimba, il ragazzo del Senegal che aiutava l'anziano signore a mettere a posto i bagagli, la giovane donna col capo coperto che si alzava per fare sedere l'uomo anziano che lo ringraziava, si sedeva e poi leggeva poi la Padania e lo studente orientale che giocava a scacchi con il collega italiano.
Il mondo è fortunatamente più sorprendente e ricco dei fanatismi.
Buon Natale.

18 dicembre, 2009

Bruttopaese


Sono sgomento per l’ulteriore attacco alle libertà… liberali. C’è da alzare la guardia a difesa della libera rete in libero stato. Consiglio di seguire il dibattito e di leggere Zambardino.

Segnalo poi l’uscita ufficiale del rapporto 2008-2009 della commissione povertà o commissione indagine sull’esclusione sociale (CIES) – della quale faccio parte. E’ lunga ma esorto davvero a leggerne almeno il riassunto iniziale, la relazione di sintesi. Insisto: è quasi un dovere civico farlo. Per capire come vengono colpiti sempre i più poveri, che lavorino a no, i giovani, il Mezzogiorno. E i bambini. Questo è un Paese dove cresce l’ingiustizia sociale e nessuno ci bada – o, meglio detto, badano a altro. E non si tratta di extracomunitari ma di italiani nati in Italia. Però poveri. In aumento e senza ombra di politiche pubbliche.

Il clima politico è mefitico. Ma la sua base sta nell’impossibilità di una decency in termini di coesione sociale che, a sua volta è dovuta al carattere macroscopico del duplice divario: tra ricchi e poveri e tra Nord e Sud. Il sintomo è la titanica lotta tra S.B. e i suoi avversari, come la punta di un iceberg si vede quella cosa lì. Ma la base, quel che sta sotto e minaccia è la divisione sostanziale e reale dell’Italia.

E’ l’impossibilità di duratura coesione sociale la questione vera, di fondo del Paese. Ma (sic!) il puntuale rapporto annuale viene ripreso oggi solo dall’Avvenire, quotidiano della conferenza episcopale. Tace la libera stampa, muto è il sindacato, tacciono, nell’ordine, Bersani, Di Pietro e pure “li comunisti”…

15 dicembre, 2009

Carla Melazzini

E’ morta ieri Carla Melazzini. Ho avuto la fortuna grande di aver lavorato con lei dal 1997 al 2007. Ho sempre imparato dalle sue parole e dai suoi silenzi.
In pochi giorni sono morte due donne, Monica e Carla, che ci hanno insegnato a vivere. E a considerare la morte parte del vivere, riuscendo quasi a darci forza per la loro fine.
Il Padrone dell’Universo le benedica.
Invito a leggere questo bellissimo ricordo di Carla, scritto dal suo compagno di sempre, Cesare Moreno. E la scrittura qui sotto, sulla nostra comune avventura a Chance.
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QUEI NOSTRI RAGAZZI
Di Carla Melazzini.
Da UNA CITTÀ n. 104 / Maggio 2002

La dura esperienza di Chance, maestri di strada napoletani, in quartieri che sono vere e proprie sabbie mobili che in ogni momento possono inghiottire il ragazzo che tenta di studiare e avere un’alternativa. Ci sono possibilità?

Pasqua 2002: a San Giovanni a Teduccio viene ucciso il diciannovenne Filippo. E’ fratello di un’alunna di Chance, parente di altre due, amico di altri.
All’origine della scrittura del progetto ci fu anche l’uccisione di un ragazzo nel parcheggio del supermercato davanti a scuola. I giornalisti chiesero come mai il quattordicenne stesse nel parcheggio e non a scuola (i bene informati dissero che il ragazzo non era solo una vittima trasversale, ma già omicida a sua volta).
L’estate scorsa, in una delle innumerevoli risse con le quali i ragazzi di San Giovanni e di Barra si sforzano di imitare la guerra degli adulti dei due quartieri è finito ammazzato il sedicenne Cesare, che passò per la selezione di Chance e fu scartato per dichiarata indisponibilità a imbarcarsi nell’avventura. Per dei ragazzi non è difficile morire, in questi paraggi. Da quattro anni viviamo in questo mondo, accogliendolo senza giudicarlo, quasi senza parlarne. Adesso, dice un’insegnante, “abbiamo il morto in casa”: per cui si sente il bisogno di dire qualcosa.

Rituali di lutto
Lo Stato ha deciso che il morto di camorra non deve avere il funerale in chiesa, come il suicida. Nel rione di Filippo viene organizzata una fiaccolata per chiedere l’ingresso in chiesa; il parroco strappa lo striscione e lo butta nella monnezza.
Neanche fare i preti è facile da queste parti: è una scelta continua tra essere conniventi o impietosi.
In queste circostanze l’organizzazione pubblica del lutto vuole essere anche un’esibizione di forza: in altri rioni furono devastate le bancarelle che si erano presentate sotto il palazzo del boss defunto, per il mercato consueto, o bastonata la signora che aveva osato accendere la radio. Il prete della parrocchia vicina quando c’è il coprifuoco da lutto accende sulla chiesa un faro che illumina a giorno la piazza.
Le nostre ragazze dicono che la fiaccolata era anche sincera: Filippo era “nu buono guaglione”. E’ stato portato direttamente dall’obitorio al cimitero.

Morte e vita
Quattro anni fa constatammo costernati che i nostri ragazzi e ragazze, uscendo insieme da scuola come fanno gli adolescenti, si dirigevano al cimitero.
La frequentazione con le anime defunte è connaturata all’arcaica religiosità popolare napoletana, così come le fantasie sulla morte sono compagne di strada di ogni adolescente, ma qui c’era molto di più: l’intimità con la morte concreta ha marchiato la vita di questi ragazzi, ed è architettonicamente incarnata nelle palazzine funebri che ospitano un’intera generazione di maschi giovani morti di morte violenta.
I rimanenti stanno in quel luogo dei morti viventi che è il carcere. Così che “‘o colloquio” è il centro focale della vita di centinaia di famiglie.
Questa esperienza può produrre un’invincibile paura della vita, di cui la paura e il rifiuto della scuola è solo una modesta appendice.
Tre ragazze cugine tra loro, che non siamo riusciti in nessun modo a trattenere con noi, hanno trovato una via d’uscita nella gravidanza. Trucco vistoso e atteggiamenti sguaiati potrebbero trarre in inganno circa la natura di queste gravidanze, se non fosse così facile scoprire sotto quelle facciate variopinte le bambine terrorizzate, e nelle madri altrettanto dipinte la stessa paura delle figlie. Non è strano che in famiglie decimate traumaticamente della componente maschile le donne -bambine quasi ancora- si aggrappino alla loro facoltà generatrice di vita.
In secondo luogo, la gravidanza precoce rappresenta il modo più definitivo di rientrare nei ranghi del proprio destino sociale, tagliandosi i ponti alle spalle. Solo lentamente ci siamo resi conto di quanto la nostra presenza e la nostra azione, proprio perché accogliente, potesse essere percepita come pericolosa, aprendo prospettive di relazioni e di vita sentite come inaccessibili.
E’ difficile figurarsi fino a quale profondità questi esseri umani si sentano dei reietti.

Burqa, morsi
Infine, la gravidanza precoce serve a sanzionare il controllo del maschio sulla femmina. Niente temiamo di più, per le nostre ragazze, del “fidanzamento in casa”: atto ufficiale con il quale la famiglia si solleva del problema di un’adolescente turbolenta dandola in consegna a un ragazzotto qualunque e alla di lui madre (la “gnora”). Da quel momento lui decide se la ragazza debba o meno partecipare alle gite con i compagni, scendere nella strada da sola, continuare ad andare a scuola. O rimanere incinta.
A Chance si impara una cosa nuova al giorno. Una che avremmo preferito non apprendere è che il fidanzato può mandare in giro la ragazza con la faccia piena di morsi, così da sottrarla allo sguardo degli altri maschi, sfigurata dal marchio del possesso. Se ci si guarda attorno con un po’ di attenzione, si può scoprire che la civiltà di cui andiamo fieri spesso finisce dietro l’angolo di casa.

Sabbie mobili
Dei 63 ragazzi passati per Chance nei primi tre anni, l’85% proviene da famiglie prive di reddito regolare (dei rimanenti non si hanno notizie precise). Più del 50% ha a che fare con il carcere; un gruppo ristretto (sotto la decina) “appartiene”, come si dice, cioè è interno a famiglie del Sistema camorristico (i dati sono riferiti alla zona orientale di Napoli).
Sono concentrati in rioni che sono un vero e proprio brodo di coltura. I due Bronx di San Giovanni e le “case gialle” di Barra sono frutto dei miliardi dilapidati dopo il terremoto dell’80 e di una dissennatezza urbanistica che non avrebbe potuto fare di meglio se si fosse posta come obiettivo dichiarato di fornire manodopera semigratuita e logisticamente controllabile al Sistema.
Le famiglie dei nostri ragazzi -come migliaia di altre- sopravvivono nel cerchio più ampio ed esterno di tale sistema, né avrebbero altre possibilità: piccoli spacciatori e contrabbandieri, trasportatori di pacchi, prestatori di opere varie (e di persone, compresi i mariti “venduti” alle donne dell’est per regolarizzarne il soggiorno). Nella maggior parte non usufruiscono nemmeno delle provvidenze garantite dal Sistema, sicché in caso di carcerazione sono abbandonati a se stessi, e agli avvocati d’ufficio.
Qui non esiste distinzione tra lavoro regolare e irregolare o illegale; la discriminante passa tra “chilli ‘e miez ‘a via”, cioè i quadri militanti del Sistema, e tutti gli altri. Il padre di un’alunna, agli arresti domiciliari, mi dichiarava scandalizzato che lui stava facendo un lavoro onesto, le bombole (di gas, di contrabbando).
La percezione di un lavoro regolato da leggi è assente, e difficilissima da introdurre.
Ciò che visibilmente colpisce nella vita di queste famiglie è la destrutturazione del tempo. Si va in visita al termine dell’orario scolastico -mezzogiorno, l’una- e stanno tutti in pigiama, da poco svegli o ancora a letto; pronta, la parte femminile, all’unica attività strutturata, che sono i servizi domestici.
Difficile introdurre la scansione temporale della scuola; nemmeno i periodi di lavoro, nero e servile, cui i ragazzi si sottopongono quando hanno bisogno di soldi per comprarsi i panni o il telefonino, sono sufficienti a dare una svolta: finito il lavoro, si torna al rapporto privilegiato con il letto, dal quale è così difficile staccarsi. Il letto e la televisione, che si può tenere accesa anche tutta la notte, perché la paura del silenzio è la prima forma della Paura. E le lunghe mattinate di sonno, verso un risveglio privo di ogni attrattiva, diventano le incubatrici della depressione.
La proposta di un progetto di vita che comprenda l’idea e la preparazione ad un lavoro regolare è così straniante che può essere accettata solo se ha la forma della presa per mano e dell’accompagnamento da parte di una persona di fiducia. Altrimenti è più accessibile la rottura traumatica dell’emigrazione al nord (quando vi sia come riferimento un gruppo di parenti o di vicini), perché solo cambiando drasticamente contesto si può sventare la tremenda forza di risucchio che il quartiere, come una palude di sabbie mobili, esercita su chiunque tenti di sottrarvisi.
Per il successo di Chance niente è più rischioso delle lunghe vacanze; a volte basta una settimana per perdere un ragazzo.

L’età critica
La fase di massimo pericolo, per un ragazzo, è fra i 13 e i 15 anni, l’età in cui in tutte le classi di tutte le scuole si combatte la lotta sorda per decidere chi è ‘o piccerillo e chi è ‘o gruosso: dappertutto il “piccolino” è colui che segue i professori e studia; soltanto qui il “grosso” si deve misurare con un modello sociale che è insieme odiato, temuto, riverito e ammirato. Sono i responsabili della paura in mezzo alla quale il ragazzo è cresciuto, degli incubi, della pipì a letto, e pertanto i depositari della forza. Si sa che hanno ottime probabilità di morire entro i trent’anni, ma intanto hanno i soldi, le moto (grosse), le auto (grosse), quindi le donne.
Più il ragazzo si sente piccolino, più il fascino del modello è irresistibile. Anche ad un’età inferiore si può rischiare; una delle maniere più subdole passa per l’amore degli animali, cani, ma sopratutto cavalli. Un bambino che gironzola con passione attorno alle stalle del Sistema è un bambino in pericolo.
Un mattino d’inverno passando davanti ai garage del Bronx fui stupefatta da una visione commovente e insieme ripugnante: da uno dei box, che contengono ogni tipo di cose, usciva una cavalla che trepidamente sosteneva il puledro, malfermo sugli zoccoli, tra pozzanghere ghiacciate e rifiuti, come una sorta di Bambi metropolitano. Una simile visione di grazia e tenerezza può ben scortare un bambino semi-abbandonato nel mondo delle corse clandestine.

Pietà l’è morta?
A Barra c’è una famiglia di malati di mente, abbandonata da Dio e dai servizi di salute mentale, che ha già prodotto tre vittime: una commessa polacca, una madre di famiglia, un giovane finanziere. L’omicidio di quest’ultimo diede luogo ad una spedizione punitiva da parte della Guardia di finanza contro l’intero quartiere tanto speculare, nella sua gratuita ferocia, ai rituali di lutto della camorra, quanto priva di conseguenze positive sia nei confronti della criminalità che della famiglia malata. Il cui ultimo esemplare, l’adolescente Bettino, vaga per il quartiere parlando da solo, sfottuto da tutti.
Una domenica di marzo, probabilmente, reagisce tirando una bottiglia in testa ad un ragazzo. Con questo malaugurato gesto catalizza su di sé la frustrazione e la rabbia pullulanti nell’animo della gente, che dà il via ad un tentativo di linciaggio. Vi assiste impotente e angosciato Ciro Naturale. Ecco il suo racconto.

“Verso le 22 di domenica una folla è appostata all’altezza del palazzo dei C.; mi trovo a passare con la vespa e sento che gli animi sono accesi. Dal palazzo di fronte esce un uomo con passo veloce e una mano dentro la giacca, in compagnia di altri due attraversa la strada; molti scappano perché tutto fa pensare ad una spedizione punitiva a domicilio; io rimango perché li conosco, non sono i bravi di don Rodrigo, ma onesti fiorai (Ciro è appassionato ammiratore dei Promessi sposi, nei quali trova la più esatta descrizione del tipo di potere vigente nel suo quartiere). L’uomo entra nella casa dei C., si sente rovesciare mobili e rompere vetri, dopo poco esce senza aver trovato quello che cercava; arriva un fratello che cerca di calmarlo, perché qualcuno gli ha sussurrato che forse è armato. Nel momento in cui si placa, si sente il grido: ‘oì ccà’ (eccolo!). Tutti si girano e vedono Bettino e sua madre che rincasano chiacchierando distrattamente. Volevo urlargli di scappare, ma già gli era arrivata una pietra in faccia da brevissima distanza. Sono dieci, venti, trenta, bloccano il ragazzo e la madre sotto l’impalcatura di un palazzo: in pochi secondi prendono più calci loro che il pallone del Napoli in un’intera partita. Bettino riesce a svincolarsi e a scappare, ma viene riacchiappato. Cinquanta metri più in là c’è una macchina della polizia con la sirena spenta. Gli assalitori aumentano di numero; sono impressionato dalla loro giovane età; ci sono anche alcuni adulti, parenti di don Rodrigo, che li incitano. Per liberarli un po’ dalla presa, urlo che stanno arrivando altre pattuglie; alcuni si fermano e si girano; uno di loro non vedendo le pattuglie mi guarda negli occhi, ma sta zitto perché mi conosce. I poliziotti chiamano rinforzi stando chiusi nella macchina: mi chiedo perché non accendono la sirena e non sparano in aria. Bettino riesce a scappare di nuovo, gli assalitori forse sono stanchi; la polizia può caricare Bettino e portarlo al commissariato per chiamare l’ambulanza. La gente felicemente inferocita grida: ‘amma fatto comm ‘o pallone! quando fanno ‘e guaje ‘e guardie nun correno’, come sentendosi legittimati dall’atteggiamento della polizia. Alla contentezza generale rispondo che il ragazzo poteva anche morire: meglio, pecché ‘a capa nun è bbona’, è il commento . Uno rivendica che è stata sua la prima pietra, e mostra un occhio pesto alla madre di Bettino che passa con il volto gonfio, viola, il mento insanguinato: ‘uarda accà, pe’ colpa ‘e figliete. Lei impassibile risponde: ‘ha fatto bbuono’. Il mio cuore ha sorriso a questa risposta; ma mi chiedo: che senso di giustizia hanno da queste parti? Perché anche la madre? Non sarebbe meglio curare e assistere questo ragazzo anziché aspettare che finisca in corte d’assise d’appello come suo fratello?”.
Nei giorni successivi Ciro continua la sua inchiesta nel quartiere: nessuno mostra pietà per Bettino e sua madre.

Zona franca: una Chance?
Come si vede, grande è la confusione da queste parti, molto difficile tirare linee nette di separazione: tra vittime e carnefici, ordine e disordine, giustizia e pietà. Che cosa rappresenta Chance in questa realtà?
Da subito, ha assunto i connotati della casa; lo dice il tipo di attaccamento che i ragazzi sviluppano: fedeltà e nostalgia per gli spazi, gli oggetti, i rituali, oltre che per le persone.
Poi, è molto spesso un teatro, dove i ragazzi vengono intenzionalmente a mettere in scena emozioni e drammi, e si ha l’impressione che lo facciano nel senso catartico del teatro delle origini. Non sempre è facile individuare la “messa in scena” al di sotto di comportamenti apparentemente solo perturbanti o distruttivi, ma se si riesce a farlo il significato nascosto si dispiega, con grande vantaggio di tutti. Il dramma rappresentato esige che i suoi destinatari collaborino ad una agnizione, altrimenti il groviglio rimane irrisolto.
Tutta la primavera scorsa fu turbata dalle attività di un gruppo di ragazze e ragazzi, interni a Chance ed esterni, che inscenavano i loro amori nei corridoi e nel cortile della scuola. Ho sempre avuto la sensazione che quella volta ci abbiano trovati inadeguati: probabilmente travolti dagli aspetti disturbanti, dal rifiuto violento di ogni attività scolastica, dagli occhi malevoli che osservavano e protestavano; o forse era troppo complicato. Tentammo un confronto aperto, che fu immediatamente interpretato come un processo: con la sensibilità esagerata che li distingue, subodorarono in noi, contro ogni nostra intenzione esplicita, il prevalere del giudice.
Quella furibonda rappresentazione metteva in scena significati molto importanti: amori che rompevano le barriere di odio fra i due quartieri; che portando le botte fin sotto il nostro naso paradossalmente mettevano in discussione il diritto dei maschi di picchiare le femmine; che, per il fatto stesso di svolgersi all’interno di un gruppo di coetanei, in una zona franca lontano dalle rispettive abitazioni, contestavano la coazione asfissiante del fidanzamento in casa.
La rappresentazione, priva degli sviluppi che portano all’agnizione, si è esaurita, consegnandosi alla realtà. Abbiamo perso tutto quel gruppo. Una ragazza è già felicemente madre, un’altra incinta.
Grazie ai connotati acquisiti, e ormai riconosciuti dalla popolazione, lo spazio Chance funziona anche come una sorta di camera di decompressione.
Il giorno dei funerali di Filippo ci piomba a scuola la signora N., palesemente in preda al terrore: nel quartiere ci sono rappresaglie, teme per il figlio.
Il marito è morto in carcere grazie ai suggerimenti dell’avvocato (sulla figura e il ruolo degli avvocati da queste parti ci sarebbe molto da scoprire, se qualcuno avesse voglia); la signora svolge la sua attività illegale all’ombra del cognome del marito, ma si sta battendo con furia per salvare i figli da quella strada. Il ragazzo che sta con noi da quattro anni, che stiamo avviando all’apprendistato, non è ancora fuori pericolo: la forza del risucchio continua a chiamarlo.
Nel giorno dell’emergenza e della paura, a chi si può rivolgere la signora? Non alla polizia, che oltretutto è assente; non al servizio sociale, vissuto troppo come controparte. Viene a Chance, sapendo bene che niente possiamo fare, se non ascoltarla e consolarla.
La signora F., sorella di un boss defunto, si lamenta che da lei nessuno va a prendere il caffè. A Chance non solo prende il caffè, ma dà consigli alle altre madri su come tirare fuori i figli dai letti per farli andare a scuola. Sono la tutor di sua figlia, come anche di un ragazzo che stava con noi all’inizio, che si è successivamente dedicato ad attività pericolose e oggi sta nascosto con tutta la famiglia dopo un pestaggio e minacce di morte provenienti, se non personalmente dalla signora, dal suo stretto entourage. Con lei parlo di sua figlia, del suo bisogno di un padre: che non è meno vero per il fatto che tale padre era un tossico, che picchiava e tradiva sua madre fino a che è stato ammazzato.
La camera di decompressione può ospitare contemporaneamente tante concomitanti e conflittuali infelicità. E’ l’unico spazio nel quartiere dove è pensabile elaborare i lutti al di fuori degli schemi rituali: pensare cioè al morto non come vittima di una infamità che reclama una infamità eguale e contraria, successivamente idealizzato, nel suo mausoleo marmoreo, per punire il sentimento che la sua morte conti molto di più della sua squallida vita. Ma come la persona reale che è stato, comunque depositaria di affetti; alla quale si possono scrivere delle lettere. E’ uno spazio in cui può diventare pensabile, proprio perché nessuno la chiede, una forma embrionale di dissociazione.
Uno spazio simile, in termini economici, non costa molto. Se ce ne fossero molti, in questi luoghi di guerra, sarebbe forse possibile iniziare ad allentare le maglie della paura e dell’odio.

11 dicembre, 2009

Monica Tavernini


Monica Tavernini è vissuta ed è morta come una Socrate dei nostri tempi. Una, al femminile. Perché, con pacata caparbietà, Monica ha sostenuto e sorvegliato - nella dimensione politica come nella vita di ogni giorno - la cura autentica e curiosa per le relazioni umane, l’acuta sensibilità verso le emozioni, i piccoli gesti e i silenzi di ciascuno, l’ascolto di se stessa e il rispetto per la finitezza di tutte le cose, compresa la sua stessa vita. Solo una grande sapienza al femminile può trattare le vicende pubbliche e private come Monica le ha sapute trattare. Fino all’ultimo, con quotidiana semplicità, temperanza, ironia. Staremo in tanti e per lunghi anni a pensare a quante cose ci ha insegnato e a chiederci se sapremo condurci così fino alla fine.
Monica amava la politica in senso proprio. L’appassionava lo spirito migliore delle città, il senso della cosa pubblica, il rispetto dell’interesse generale. Per questo, quando vi era una qualsiasi questione politica, lo sguardo interiore di Monica non andava solo a vagliare i rapporti di forza o le occasioni o gli spazi che l’agone politico sempre offre e non si fermava solo sulle possibilità di un’opzione o dell’altra – tutte cose che pur sapeva che contavano e che sapeva fare. Il suo sguardo andava a scrutare i fondamenti delle leggi che consentono la vita civile, quelli che salvaguardano le comuni ragionevolezze dalle tentazioni del potere e dai demoni che distruggono anziché costruire. “La mia misura di fronte alla ragion di stato e alla politica - che si fa ora - resta Antigone”. Lo diceva e ripeteva Monica, scherzando con benevolenza arguta sulle cose serie, come sapeva fare.
E’ anche per questa fedeltà alla politica in senso alto, contraria al “saper fare politica” odierno, che Monica ha voluto e saputo “lasciare un brillante avvenire politico dietro le spalle” – come lei stessa usava dire. Si era iscritta ventenne al PCI ma “non ero comunista, mi piaceva il socialismo, che, però, non c’entrava nulla con quella roba lì”. Quando parlava del secolo scorso, Monica pareva sospendere i pensieri, poi li diceva con convinzione: “Ma il muro di Berlino a me non è crollato addosso; perché io davvero mi sono scansata per tempo; a quel mondo lì non c’ho creduto mai. Ma quanta brutta ruggine di quel mondo è restata addosso a tanti, che non sono proprio voluti cambiare davvero”.
E’ con uno straordinario spirito libero che Monica è stata sindacalista e giovanissima segretario del PCI dell’Alfa Sud. E oggi mi piacerebbe che le ragazze che entrano la mattina nella fabbrica di Pomigliano, operaie di molte nazionalità, si potessero fermare a pensare almeno per un minuto a cosa poteva essere la vita quotidiana di una giovane bella donna femminista che guida, negli anni settanta, centinaia e centinaia di operai maschi nel “prospettare un futuro migliore”. Da allora Monica ha sempre conservato il suo impegno nel sindacato – la CGIL – per la quale nutriva un legame irrinunciabile e avvertiva l’urgenza di un sommovimento culturale, fondato sulla crescita della responsabilità individuale.
Dai partiti, invece, si era allontanata radicalmente. Il loro esprimersi, qui più che altrove, come interessi separati, la follia che permea i costanti giochi di potere interno, il culto servile dei capi, le verità taciute e i compiti disattesi erano altrettante prove della inaccettabile miseria a cui si erano purtroppo ridotti, che lasciava spazio alle carriere, agli opportunismi, al nulla.
Monica ha fatto con grande serietà e competenza il consigliere comunale e regionale. “Studiavo la notte le cose che non sapevo e per la frustrazione a volte mi veniva da piangere”. Ha fatto la politica di mestiere ma sempre come rigoroso servizio alla cosa pubblica, con un rispetto estremo per le istituzioni “che vengono prima di ogni parte politica”. Quando le è risultato evidente che questa prospettiva si era drammaticamente indebolita ha lasciato questo campo. Con l’elegante sobrietà che l’ha accompagnata sempre: “Da venti anni non faccio più quella vita. Sono troppo incuriosita per tutto il resto che mi accade, troppo sincera o forse distratta a tal punto da non saper dire bugie o forse anche troppo pigra per restare viva in quell’ambiente”.
Così Monica ha dedicato da anni molto proficuo tempo ad altro: le letture, la famiglia, l’amicizia. E, oltre al sindacato, ha fatto parte delle battaglie civili a strenua difesa della laicità dello stato e dei diritti individuali e all’impari impegno per pensare a un sensato modo di fare ripartire la nostra città.
Monica ha amato immensamente la letteratura. Per lei è diventata sempre di più il grande, sapiente specchio della sua vita. Così pochi giorni fa, guardando con un coraggio disarmante e immenso alla sua stessa fine, ha ricordato un passaggio delle Memorie di Adriano: “…come il viaggiatore che naviga tra le isole dell’Arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte”.
Monica davvero lascia un grande vuoto. Tanto che oggi si stenta a parlare. Quando saremo pronti, dovremo dedicare un giorno su una spiaggia davanti al mare che adorava - un tempo di convivio giocoso e di parole - per onorare Monica, cittadina superba della nostra città e delle nostre vite. In quel momento qualcuno leggerà il verso di Ossi di seppia di Montale che Monica, pochi giorni prima di sapere della sua malattia, con una di quelle stranezze che a volte accadono nella vita, aveva eletto come suo epitaffio:
…. Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto si esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano…

Queste cose, che ho scritto con molta pena, usciranno domani su Repubblica-Napoli.