22 dicembre, 2010

Miserevolezza, pericoli, riscatto

Ieri sulla prima pagina de l’Unità è uscito questo mio articolo, che la redazione ha titolato:

Ragazzi, date una lezione a chi vi minaccia.

La pagina e i commenti sono sul sito de l'Unità.

Mercoledì il Parlamento andrà alla votazione finale sulla legge universitaria. A pochi giorni dal 14 dicembre migliaia di persone di nuovo protesteranno. C'è di che preoccuparsi. Per quel giorno e, ben più in generale, per il clima nel Paese. In particolar modo, per quello tra generazioni che, come per tanti insegnanti, è stata la mia ragione di lavoro e di riflessione per molti anni. Non ho voglia di fare appelli né sermoni o rimbrotti. Perché penso che questo sia il tempo di ragionare, con passione civile. Nel farlo non penso affatto che ci si debba rivolgere solo ai giovani. Penso, invece, che ci si debba rivolgere a tutti e, dunque, a se stessi e agli altri. A tutti i cittadini. Che abbiano quindici, diciotto, venticinque o trenta anni o quaranta o sessanta o ottanta. In questa riflessione comune si deve partire - in primo luogo - dal riconoscere una cosa del tutto evidente, che ha cambiato il paesaggio sociale, politico e umano nel quale siamo chiamati a vivere. E che è questa: noi persone «più grandi» stiamo, oggi, consegnando a chi è nato dopo di noi un'Italia peggiore di quella che abbiamo ricevuto in consegna dai nostri genitori. Peggiore per condizioni materiali e per quantità e qualità delle concrete possibilità di lavoro, di reddito, di studio. Peggiore in termini di accesso ai crediti materiali e spirituali in vista dello sviluppo economico e civile e dell'imprenditorialità umana. Peggiore per quanto riguarda il riconoscimento del merito e la possibilità di fare parte della ricerca delle soluzioni ai problemi della vita comune. Peggiore per presidio delle procedure e delle regole della civile convivenza e per la tenuta di ritualità e occasioni comunitarie. Peggiore in termini di protezione di fronte all'ineguaglianza e alle avversità della vita. Peggiore riguardo al fare fronte alle normali fragilità, difficoltà personali e alla possibilità di commettere errori. Peggiore per estensione - reale e percepita - degli orizzonti di speranza. È nel bel mezzo di questo paesaggio - impoverito, depresso, che crea ansia e rancori quotidiani, paure e rabbia diffuse e persistenti - che questa destra si è rivolta ai giovani chiedendo loro di approvare le nuove norme che li riguardavano e omettendo, tuttavia, di fornire occasioni per confrontarsi nel merito. «Noi facciamo le leggi secondo quanto crediamo perché abbiamo vinto le elezioni. Ma voi leggetele bene e convincetevene. Se non lo fate, vi state facendo strumentalizzare». Così, non è stata neanche considerata la civile possibilità che i destinatari di misure di governo possano essere in disaccordo ma non per questo preda di strumentalizzazioni, che possano essere portatori di osservazioni e proposte importanti o utili, che possano notare incongruenze tra intenzioni e mezzi. Dietro questo vi è un'idea povera - e involutiva in termini democratici - della politica: la politica si esprime e decide secondo i rapporti di forza. Punto. Altre volte la destra ha aggiunto a questo una miserevolezza umana: «Studiate e non manifestate. Pensate all'amore e non ai cortei». Come se fossero cose in contraddizione. Mentre non lo sono mai state. Tale miserevolezza rivela un'assenza di esperienza e curiosità umane che impediscono di pensare che si può, al contempo, studiare e partecipare alle cose pubbliche e che è tanto grande la gioia di stare insieme, parlarsi, cercare comunità, incontrarsi e domandarsi del proprio tempo che viene esaltata la possibilità di amicizia e anche di incontro amoroso. Ma - va pur detto - anche nell'opposizione troppo spesso, al di là di intenzioni o meno, è prevalso il riflesso teso a ricondurre la protesta alla vicenda politica contingente, alle sue esigenze particolari, al suo gergo. Da tutto questo deriva un pensiero, diffuso nelle nuove generazioni, che è legittimo: non siamo rappresentati. E' in questa atmosfera che si manifesterà di nuovo. L'ombra del 14 dicembre peserà. Perché ha svelato tutta la gravità della scena italiana riguardo il rapporto tra generazioni. Tanto che tantissimi hanno sentito di condividere l'esplosione di rabbia anche senza partecipare alle sue azioni. Non si è trattato di provocatori isolati. Non si può rimuovere la forza di una rabbia radicata e diffusa. Però non si può neanche nascondere che le cose sono complicate dal fatto che molti indizi fanno sospettare che qualcuno ha voluto tessere trappole brutte e pericolose. E che a farlo non siano stati né la stragrande maggioranza dei manifestanti né i poliziotti. Tali segni, in questi giorni, vengono purtroppo confermati dall'insistenza su un possibile esito terribile per la giornata di mercoledì prossimo. Si tratta di una profezia urlata. In particolar modo da una componente specifica della destra di governo, che ha una storia politica mai rivisitata, fatta anche di brutte vicende di piazza nella propria giovinezza, rimosse e mai ri-elaborate. Di fronte a questa insistenza su un esito nefasto della prossima protesta acquista ancor maggiore importanza una riflessione su come si manifesterà mercoledì. E diventa ancor più urgente il grande bisogno di smentire una storia italiana che ha spesso depotenziato grandi movimenti, riducendone una parte ai rituali prevedibili dello scontro di piazza e una ben più grande alla mancanza di parola. Questa smentita è forse finalmente a portata di mano. Perché questo movimento sta insegnando a noi - altro che sermoni nostri ai giovani! - una nuova modalità di azione civile. I titoli dei libri davanti ai cortei, il salire sulle gru e sui tetti, il mostrarsi insieme ai monumenti sono stato questo. E, a me come a tanti, è venuto alla mente Gandhi. È lì che vanno trovati i modelli di azione potente che servono a fare valere le ragioni di chi è escluso dal futuro. E penso quanto sarebbe potente se mercoledì - anziché porsi il problema di forzare la zona rossa del centro di Roma, messa lì ed estesa ad arte per attirare nelle vecchie trappole - si decidesse di sdraiarsi per terra, nella Capitale e in cento altre città. Vestiti di bianco per bloccare tutto, in silenzio. Come suggerito dalle nevicate di questi giorni. Pacifiche e implacabili.

17 dicembre, 2010

Quattordici dicembre e paesaggio politico

Sarò lungo.

La rabbia di una generazione inascoltata – e non i black block – ha mostrato, il 14 dicembre, come nel resto d’Europa, la potenza di una cesura brutale tra generazioni. Mi fa quasi impressione citarmi da solo ma davvero l’avevo appena detto in tv: noi abbiamo lasciato ai nostri figli un paese molto peggiore di quello che avevamo ereditato. E i ragazzi lo sanno. Ogni giorno sulla loro pelle sparisce l’orizzonte di speranza.
Quest’è.

Al contempo c’è la politica. Al netto delle sue cose vecchie e deprimenti – che il  principe de Curtis le sapeva cinquant'anni prima della Gabanelli – mister Berlusconi è stato confermato. Manovre e fibrillazioni continueranno. Continuerà l’altalena tra elezioni, ancora assai probabili, e tirare avanti. Il clima resterà incerto.

Se si andasse a elezioni tuttavia non ci si può dimenticare che vi sono e resteranno sulla scena talune costanti che colorano il nostro paesaggio politico. A destra. E a sinistra. La destra manterrà le tre fondamentali caratteristiche di questi anni. Che sono. Una: obbedire a un capo che non sta bene di testa e ha sempre confuso e fatto confondere questioni generali e anche legittimamente di parte con forti interessi privati e personali. Due: essere capace di tutto e dunque ledere, minacciare, spezzare le procedure e le regole, che sono il sale di ogni assetto civile e di ogni modello politico liberale. Tre: essere, in aggiunta, capace di poco o nulla – che non siano i fatti suoi - in termini realizzativi. In sede storica ci si dovrà pur chiedere com’è che l’Italia, più di altri luoghi, è “laboratorio” di queste cose. Dunque, si tratta di una sorta di summa di varie cose, che sono parti del nostro passato e che oggi stanno dinanzi a noi in modo congiunto e potentissimo. C’è la politica “capace di tutto ma buona a nulla” di montanelliana memoria. C’è la versione odierna della “borghesia sovversiva” di cui parlava già Salvemini. C’è il “cesarismo” specificamente italico di cui parlava Gramsci. Il quale, peraltro, va ben oltre i recinti della destra – con il moltiplicarsi, ovunque, dei partiti personali, dove le dinamiche sono tutte impoverite. Perché sono legate al capo, più e molto più lungamente che nelle altre democrazie occidentali. Legate e perciò ridotte intorno all’essere ognuno in situazione di sudditanza / dipendenza / distanza / vicinanza / interpretazione / fedeltà / tradimento nei riguardi di un solo attore preminente. Con gli aderenti a quella parte che, così, assumono la veste di tifosi e non di partecipanti, di sudditi e non di cittadini. Per troppi aspetti non si sottraggono a ciò Fini, Grillo, Vendola. E ancor più Di Pietro – il cui partito personale, inoltre, ha avuto e mantiene nel tempo la tendenza precipua ad allevare “mariuoli in corpo”… come si è visto. Non fanno parte di questo novero – sia pure con altri difetti – il Pd, la sinistra e, in qualche modo e nonostante Bossi, la Lega.
Tutto questo – la politica per come è e per come si discute in Italia - evidentemente, conosce una variegata e perpetua vicenda quotidiana. Che ci angustia e deprime.
Ma che ha anche una “esistenza separata” dalle vicende concrete della vita sociale e anche individuale di noi cittadini. Vita nella quale il focus è sull’arrivare alla fine del mese, trovare una scuola ok per i figli, ridurre i danni di metropoli e territori divelti e malsani, mantenere il lavoro, pagare il mutuo, capire cosa faranno i figli da grandi quando lo sono già grandi, evitare i cappi di banche o di criminali sulle imprese, ecc. In un’idea minimamente accettabile di politica, i problemi veri sono la cosa di cui parlare e da cui partire per dire, proporre, agire. E sarebbe compito dell’opposizione – di centro, di sinistra, di centro-sinistra – capire, innanzitutto, com’è che queste cose della vita vera – alle quali il governo e il Berlusca non rispondono - non si traducano, però, in “più forza all’opposizione”. Perché il declino del paese, che coinvolge le nostre esistenze e l’orizzonte di speranza non intacca chi ne è il primo responsabile?
Ecco: nel paesaggio politico queste domande non sono centrali. Vengono qui e lì balbettate. O fanno parte del commento dei commentatori. Non si sostanziano in azione politica, in proposta, in innovazione di modi, di idee, di metodi, di persone. Dunque vi è un’involontaria ma forte collusione tra berlusconismo e pochezza dell’opposizione. Beninteso: certe volte appaiono barlumi di cose più sensate. Qualcuno avanza proposte su come affrontare la questione dell’evasione fiscale o della crisi produttiva o della povertà o della scuola. Si entra nel merito. Si argomenta. Ma sono voci inascoltate in mezzo al solito frastuono di fondo, uguale, immancabilmente, a se stesso. La rappresentanza – in senso minimamente credibile – non c’è per noi. Che abbiamo lavoro e reddito. Figurati per i nostri ragazzi.
E la politica è porta a porta e ballarò, trallallero e trallalà. Sì, il solito frastuono: dove prevale lo slogan, la dietrologia, l’ultimo boatos inverificabile, la manovra tattica, lo spot, l’urlo e la sua replica. Così l’antiberlusconismo – anche grazie alla personalizzazione parossistica della nostra politica – è speculare al berlusconismo. Certo, con meno disponibilità di denaro e meno polvere da sparare; ma con poca distanza effettiva dal modello avversato. Il frastuono è lo stesso e purtroppo la critica al berlusconismo, con quei temi e quei toni, spesso si è fatto ed è confuso in esso, una sorta di controcanto stonato. Che noi e ancor più i ragazzi percepiscono come tale.
Per tutti quel che manca è la parola propositiva e le proposte sul da farsi trovate in via partecipativa. E’ questa la questione delle questioni. La parola che cerca cosa fare e quella che accompagna i processi democratici è la parola che è emarginata dalla scena, rara e coperta. Davanti a questa mancanza, come meravigliarsi che esplode la rabbiosa impotenza…

Montedidio

La violenza è, tuttavia, un problema. E’ solo rabbia? C’è da chiederselo. Ci sono tradizioni ideologiche vetuste ed ereditate che riaffiorano? Forse e anche. C’è qualche black block? Forse e anche. Ma la questione centrale è che c’è una generazione (o forse due generazioni e mezzo) che da quasi 4 lustri sta/stanno sulla soglia, in un paese senza avvenire. E che non dà, appunto, parole propositive, non nomina le strade da prendere, non indica possibilità. Non c’è lavoro fisso. Non c’è giusto salario. Non c’è denaro per la scuola del ventunesimo secolo. Non ce ne è per la ricerca. Non avranno pensione. Non possono chiedere un mutuo. Non avranno un prestito per aprire un’attività.

Contro tutto ciò c’è solo impeto rabbioso? No. Altre volte non c’è l’impeto rabbioso. C’è l’immaginario creativo. Migliore. I tetti, le gru, i libri attaccati ad aprire cortei pacifici. Happening di speranza. Sono possibili premesse al passo successivo. Condizione necessaria. Ma non sufficiente. Ci vorrebbe una sorta di gandhismo occidentale – un sapere chiedere e creare in proprio. Zone liberate, fatte di lavoro comunitario e di produzioni sostenibili. Attività che prendono dimensione globale e locale insieme. Rottura dei conservatorismi del credito. Scuole pubbliche non necessariamente statali. Un respiro libertario. Che rompa il duopolio tra statalismo e oppressione della rendita legata ai soliti noti. Difficile, certo. Ma da esplorare, riscoprire, indagare, provare… Qualche segno di questa via, timido, c’è.
Oggi però, ancora prevale, anche nei movimenti,il più semplice; che è il ricadere sotto vecchie modalità. Chiedere soluzioni stataliste. Opporsi senza proporre. Abbracciare, nel dibattere, un rivendicazionismo solito, legato alle retoriche di chi sa porgere le cose con maggior enfasi. O ci sono le sirene e gli ombrelli di chi già è organizzato. Con propri mezzi, gerghi, modi. E vuole tirare tutto dalla propria. Come spesso è già avvenuto. E c’è Grillo che urla e urla contro. E quando propone lo fa senza confrontarsi. O ci sono i proclami di Vendola – dove la parola si fa vezzosa, cripto profetica, simil onirica – per contrapporsi a tutto ciò con il semplice tentativo di lirismo. Che tuttavia, fatica a tentare di dare risposte: cosa si deve fare per.
C’è anche un’altra dimensione – importante – del paesaggio. C’è una scena depressa e bastonata. E si deve poter aspirare a gioie, vie di uscita. Non deliranti ma promettenti sì. E evocare speranza è di grande importanza. Ma accennare a speranza senza co-costruire prospettive realistiche e risposte possibili mi pare un esercizio monco. E’ comprensibile se si tratta di movimenti. In una prima fase. Ma diventa una cosa esiziale quando si tratta di proposta fatta da forze politiche.

Questa situazione fa dire a più d’un commentatore “avvertito” che c’è una riformulazione del rapporto tra politica e vita sociale molto profonda e che richiede impegno di lunga da lena. Impegno da spendere contro la degenerazione della società avuta grazie al berlusconismo o grazie – dicono i più sofisticati – a una osmosi tra berlusconismo e elementi di mutamento profondo già in corso e che si sono potenziati ed estesi a dismisura. E che hanno davvero mutato il paesaggio in termini non solo politici ma antropologici. Ciò è ovviamente vero e molto condivisibile, un buon punto da cui riprendere a ragionare. Ma è importante sapere chi lo afferma. Perché chi lo dice deve essere credibile. Non può esserci il sospetto che lo dice per cooptare, per l’ennesima volta, lo scontento, strumentalizzarlo, portarlo a sé senza mai mutare alcunché di sé. Dunque, non è credibile chi fa queste analisi a partire da una richiesta di adesione a una parte già organizzata, chiusa, strutturata, fatta di linguaggi, gerarchie, ceto stabilizzato, proposta formulata. Com’è la gran parte del Pd, di SeL, dei comunisti, di IdV. Con alcune eccezioni. Che vivono una condizione scomoda.

E’ più credibile, invece, chi analizza i nessi tra berlusconismo e degenerazioni del tessuto sociale profondo avendo abitato un territorio a cavallo tra società e aspirazione a una nuova rappresentanza e a un nuovo metodo della politica. Questo qualcuno è tanti e tante di noi. Che, senza avere aderito alla finta società civile - quella telecomandata dagli apparati - ha cercato nuove vie di rappresentanza e partecipazione effettiva. E che, volta dopo volta, ha vissuto e vive la condizione di impotenza e, al contempo di continua, disperata supplenza dei compiti che spetterebbero alla politica nella sua relazione di ascolto autentico, mediazione e proposta.
Questa parola, forse, può risuonare nel frastuono. E’ ancora possibile. Ma deve avere alcune caratteristiche. Che ne sostengano il tono, l’intensità. La prima è che chi la pronuncia deve essere credibile. Per storia e per capacità. La seconda è che ci vuole non un singolo ma un coro di voci, un ensemble ricco e credibile. La terza è che sia capace di proposte vere: né utopie fumose né un eccesso disperato di tanti piccoli realismi… Lontano dalle ideologie del secolo passato e dal mero compito immediato.
Difficile, difficile. Eppure qualcosa muove e si muove. E c’è da pensare a una prospettiva.

13 dicembre, 2010

La medicina per curare il pessimismo

queste note sono state pubblicate da Repubblica Napoli l'11 dicembre.

Scendo dal treno con i sensi di colpa. Lavoro al Nord, nella città considerata la più vivibile d’Italia. Scambio qualche battuta con i miei compagni di viaggio. Ormai sono tanti e tanti i napoletani che vivono fuori. In crescita costante: 6 per mille ogni anno da un decennio. Ricchi e poveri. E quando ci sveglieremo con i dati del censimento del 2011 scopriremo che la nostra bella città sarà scesa ben sotto il milione di abitanti, per la prima volta dal 1951. Siamo i napoletani che rientrano per il fine settimana. Molte migliaia. Se facessimo una lista elettorale forse conteremmo pure qualcosa. Ma ognuno fa quel che può. In posti diversi e lontani. La prospettiva politica, beninteso in senso proprio - “pensare al governo della nostra città” – c’è. Ma la fiducia nella politica - così com’è - è esilissima. Più e più volte sento ripetere: non voterò. E’ così anche altrove. Ma qui di più. “Il mio è un esilio volontario” – dice una signora. Ma l’appartenenza a Napoli resta formidabilmente forte. Cocciuta. E superbamente orgogliosa. Guai chi ne parla male nei luoghi lontani. Guai a non difendere i colori della squadra. Guai a dismettere la parlata, il tono, l’ironia fatta come facciamo noi.
Rampe Petraio
Ad aspettare il treno ci sono mogli, mariti, fidanzati, fratelli, papà, mamme, amici. Oppure nessuno. A ottobre, con i dati di legambiente sotto braccio, un ragazzo con un sorriso dolce, mentre il treno si avvicinava alla città mi diceva “Guarda che meraviglia di cielo, che città bella abbiamo; eppure anche qui da noi l’aria è irrespirabile”. L’altro giorno stessa scena. Questa volta a citare la classifica delle città meno vivibili è un ragazzo che ha un contratto precarissimo in una piccola città del Nord, un diploma da ragioniere, nessuna prospettiva di carriera. “E’ triste essere via” – dice – “ma i miei amici qui sono più tristi di me. Per com’è la città”. Un coetaneo aggiunge: “E’ della serie: nonsolomonnezza”. “Vorremmo tornare tutti – dice una bella ragazza – ma..” Si ferma. Come sulla soglia di una pena. Guardo di lato. Mi fa male proprio la sospensione della frase. Poi qualcuno lo deve interrompere il silenzio. “Come tornare? E a fare cosa? E con questi qui, che pure cercheranno i voti…” Lo dice a noi e a se stesso un signore di mezza età. Si fa di nuovo silenzio.
Napoli è affranta in modo straziante. Lo sente e lo vede ogni ora chi ci vive. E chi vive fuori lo sente come pena interiore, acuta e cronica insieme. Difendere la nostra condizione quotidiana – in faccia a chi ci chiede come è potuto succedere – è ogni volta un compito davvero arduo.
Si avvicinano le elezioni. Il non voto cresce da tempo. E siamo diventati pessimisti in tanti. Non perché lo siamo noi. Ma perché c’è motivo di esserlo. Eppure c’è da riprendere la battaglia per curarsi. Per curare la città. Non si può demordere. Vanno fatte le proposte. Manutenzione ordinaria. Monnezza. Lavoro e formazione. Criminalità. Smog. Scuole... Molte migliaia di napoletani le saprebbero fare le proposte, lavorando insieme: hanno i dati, hanno le competenze. E’ questo il retroterra per curarsi. Ma per liberare questo retroterra, c’è prima da fare un’altra cosa. Prima di riprendere le proposte e renderle credibili e realistiche – quanto tempo ci vuole, quanto costa, chi lo fa? - ci vuole un momento di verità. Impietoso. E’ un compito ingrato. Ma per poter parlare di cosa va fatto e come, si devono poter fare le domande vere su cosa è successo. Com’è potuto succedere che non c’è la raccolta differenziata? Date, nomi, decisioni prese oppure no. Quanti soldi ci sono nelle casse del comune? Scelte. Colpe esterne e interne. E crude cifre. Quando finiranno i cantieri aperti e come? Date e motivi. Perché non c’è manutenzione delle cose? Procedure, bilanci, scelte.
Non si tratta di trovare il colpevole. Sul quale fare ricadere tutto. Per poi ricominciare come prima. Si tratta di analizzare. Per proporre, subito dopo, le cose possibili da fare. Ma da fare in un altro modo. E magari con altre persone.
Chi è disposto e saprà fare un bilancio politico, insieme alla città? In una città europea normale lo farebbe il sindaco e la giunta uscenti. Dubito che avverrà. Sarebbe bene, allora, che lo facessero i candidati a sindaco. Non per piangersi addosso. Né per ripetere le solite accuse strumentali. Ma per poter ripartire senza fare finta che il danno non ci sia stato.
Ora ci vuole verità. In senso antico e letterale: aletheia, “non nascondimento”. “Cosa è successo? Perché siamo messi così?” – se lo chiedeva una ragazza che lavora lontano, mentre tirava giù la valigia. Ecco. Se si risponde, allora possiamo trovare le cure per Napoli e le molte migliaia di medici curanti che sono necessari. Altrimenti no.

06 dicembre, 2010

Appelli vari, rimozioni e un annuncio (piccolo)

Girano e riceviamo appelli. Tanti e vari.

C’è l’appello che invita alla veglia per il risveglio di Napoli:
mercoledì 15 dicembre, piazza del Plebiscito dalle 19 alle 20,30. Con una candela e tanto silenzio.
Che chiama ad andarci e basta. E aggiunge che è
“….perché non c’è altro da dire , ma c’è il nostro assordante silenzio che non è indifferenza! Il fatalismo di chi pensa che nulla può cambiare, nasconde spesso un vuoto di passioni e di idee che non rispecchia affatto l’indole di molti napoletani che continuano a credere di poter fare ancora qualcosa!”
Non male. Anche la simbologia, infatti, necessita ormai di un cambio..

E c’è l’appello dalle firme importanti – gli intellettuali che vogliono che Napoli abbia una speranza:
Gae Aulenti, Francesco Barbagallo, Roberto Esposito, Giuseppe Galasso, Ernesto Galli Della Loggia, Raffaele La Capria, Mario Martone, Elisabetta Rasy, Aldo Schiavone, Toni Servillo.
Leggete. Fate sapere che ne pensate.

Poi, più “politicamente”, gira l’appello a favore della candidatura di Libero Mancuso a sindaco. Che è una brava persona. Peccato – lo dico con vera tristezza - che l’appello ha un gravissimo difetto. Di rimozione. Infatti non nomina - neanche di striscio! – il fatto che la città è stata governata per ben 4 mandati dal centro-sinistra e che se sta così la nostra parte politica c’entrerà pure qualcosa! Sì, la rimozione... quella cosa lì, per la quale fa troppo dolore e fatica passare per la crudezza delle cose per uscire dalla m….
O no?

Infine un piccolo annuncio:
mercoledì sera, 8 dicembre, alle ore 23,15 sono in Tv su Rai 3, presso la Dandini. A “Parla con me”.

Aggiornamento: dalla Dandini poi sono davvero andato e la trasmissione si può vedere qui, sul sito Rai, che è un po' macchinoso e lento, ma si vede: sono una decina di minuti e iniziano dal min. 9.

29 novembre, 2010

Scuola, al Torino Film Festival

Nel week-end ho visto i documentari sulla scuola che vengono presentati al Film Festival di Torino. E ne ho scritto su La Stampa. Questo è l’articolo che è uscito oggi.

Finalmente la scuola irrompe sulla scena. E smentisce i troppi soloni che la denigrano. Così, ieri al Torino film festival si è visto il bel documentario di Marco Saltarelli: Scuola media. Il mare all’orizzonte e la potenza dell’Ilva che sprigiona fumi fanno da cornice ai ragazzini della scuola media Pirandello di Taranto che si chiedono quali sono i vantaggi e gli svantaggi di un’eventuale chiusura dell’impianto siderurgico. Il grande tema della salvaguardia dell’ambiente e del come conciliarla con l’occupazione si combina con i visi dei ragazzini che si domandano della loro futura salute. E dei padri che perderebbero il lavoro. Cambia scena. E una monaca di clausura, da dietro le sbarre, parla ai ragazzini che sono andati in gita d’istruzione a trovarla. Loro le raccontano che hanno studiato i Promessi Sposi e la monaca di Monza... E lei, con voce ferma, dice loro che devono vivere in modo pieno, come ognuno può fare. E che devono farlo per scelta. E le ragazzine ascoltano. Attente. Poi, quando si allontanano, parlottano tra loro in dialetto. Fitto fitto si dicono le loro cose, le cose degli adolescenti. Di nuovo in classe una professoressa guarda oltre la prima fila e chiama a raccolta – appunto – il gruppo di adolescenti che trama dietro i primi banchi. La scuola, qui come ovunque, è il luogo d’appartenenza potente che riunisce i pari di età. Che hanno in mente e nei discorsi i loro miti, le loro storie, ben più forti delle “cose da imparare” che non hanno più l’ausilio fornito dal senso di colpa. “Vai a scuola per imparare” – ci dicevano i nostri genitori. Erano parole che funzionavano. Sia pure con le normali trasgressioni. Ma è stato eroso il patto implicito che c’era tra i nostri padri e i nostri insegnanti: ora la parola adulta non ha il retroterra di un tempo. Così i docenti devono conquistare ogni metro di attenzione a gran fatica. Convincere il gruppo di adolescenti e poi ciascun suo membro che si sta lì perché conviene imparare è la prima sfida che i docenti si pongono. Il film mostra questo. Ed è una grande faticosa opera quotidiana. Lo rivela la prof. di matematica: “la parola mia vale ogni volta di meno di quella del vostro compagno… com’è possibile?” Lo chiede a loro. E a se stessa. E’ quello che noi adulti che insegniamo ci chiediamo ogni volta. Eppure i docenti sono lì. Ogni giorno lì. Ed è come se ogni volta dicessero: va bene, capiamo, non rinunciate a essere gruppo, a essere ragazzi come siete voi e non come noi. Però fatene qualcosa. Trovate, provate, scoprite in positivo. E così le ragazzine guardano il foglio con il problema di geometria con la prof che, quasi di lato, segue i tentativi che vengono avanti. Il dettato scandito dall’altra prof. rivela una lingua obsoleta. Eppure i ragazzi scrivono, provano a tenere il passo. E le ragazzine suonano mirabilmente i violini. E un ragazzo legge le note. E dalla grammatica che sta sul pentagramma esce musica. Ed è la preside – ora si dice dirigente scolastico – che rivela quel che è davvero al centro di tutte le fatiche: dare grammatiche a ciascuno, grammatiche per leggere il mondo e starci dentro, senza le quali non si saranno cittadini. Perché senza grammatiche non ci sarà scelta.
Domani ci sarà il bellissimo film di Giulia Cederna e Angelo Loy: Una scuola italiana. Sulla scuola d’infanzia Carlo Pisacane di Roma, Tor Pignattara. Dove otto bambini su dieci sono stranieri. Le maestre lavorano con bimbi e mamme intorno al mondo del Mago di Oz e di Dorothy che vi è capitata. Non è solo la metafora della scoperta attraverso l’estraniazione. E’ il laboratorio scelto di una scuola che non solo “tiene botta” ma crea. Perché fa entrare ognuno nel mondo attraverso la porta delle emozioni e delle relazioni autentiche. La recita delle parti del Mago e del Leone, dell’Uomo di paglia e dell’Uomo di latta rapisce maestre e bambini – italiani e siriani, indiani e cinesi, latinoamericani e marocchini, del Bangladesh e del Pakistan. Lo fa mentre preserva le routine che servono a crescere: mangiare insieme, lavarsi le mani, litigare ma dire scusa e riparare, cantare “tanti auguri”, impastare e dipingere, nominare gli animali e i colori, commentare le storie altrui e raccontare le proprie. Civili, competenti, appassionate, le maestre guidono ogni passaggio e si interrogano, con commovente onestà, sui propri errori e sul senso del lavoro. E’ l’Italia migliore. Ma, intanto, fuori dall’edificio, compare - aggressivo quanto patetico - l’urlo dell’odio che chiama a sfasciare tutto questo o l’accanimento imbecille di chi deve mostrare i conflitti in tv, incapace di rispettare l’opera che si sta compiendo.
Ma forse è l’Italiano il protagonista che tiene la trama: la meravigliosa, accogliente lingua franca nella quale tutti i bimbi s’avvicinano alle loro paure, alla loro nuova casa e alla nostalgia per quella lontana, al nominare se stessi e il mondo, a dare ruotine e rito alle sante giornate. Sì, l’Italiano. Che anche le mamme vogliono imparare. Che si può imparare presto e bene. Che serve per andare in prima. In una scuola italiana.

24 novembre, 2010

Remember monnezza?

Terribile mondezza. E sulla monnezza Berlusconi e la destra fanno schifo.
Ma c’è bisogno di un’aggiunta: siamo in pochi a poterlo dire a voce alta.
In pochi.
Perché in pochi abbiamo parlato chiaro e per tempo delle colpe di chi – il centro sinistra – ha amministrato questo territorio. Siamo stati in pochi a dirlo chiaro e ogni volta e a fare proposte sensate.
Lo so che è inelegante quanto inutile dire che uno l’aveva detto e ripetuto. Però si devono o no ricordare le cose? Quelle dette oltre tre anni fa.
O quando in molti segnalammo questo riassunto video della vicenda.
O quando c’erano da mettere insieme diversi segni inconfondibilmente legati entro un’unica brutta scena.
O quando facemmo in tanti, da diverse posizioni, questo appello realistico e forte - e tanto fece l’amministrazione da boicottare ogni anelito di cittadinanza per calcoli di quattro soldi, sindaco compreso! O quando si provava pure a scherzare per parlarne in altro modo.
O quando, stavamo a cercare una risposta civica ai giorni di Pianura, durante i quali la cupa idiozia del governo comunale si capiva, eccome.
O quando, negli stessi giorni, iniziammo l’anno con lo slogan e l’iniziativa dal basso “differenziamoci”.
O quando l’ineffabile D’Alema diceva puttanate in campagna elettorale.
O quando c’era pure il manifesto “monnezza a chi?”.
O quando più di recente, ma prima che ritornasse la monnezza per strada
O quando…
Quante e quante volte e prove e ancora prove di sensata civile militanza positiva. Inascoltata.

05 novembre, 2010

I parassiti

Mentre continua la terribile situazione della monnezza, il centro-sinistra entra nel turbinio delle manovre che tutto sono fuorché ricerca vera di risposte alle questioni che attanagliano la città.


Ma perché accade ciò? Perché prevale - rispetto alla logica dei problemi veri e del come provare a risolverli – questa logica del parlare di oggetti non intelligibili dai cittadini? Perché avviene, invariabilmente e ogni volta, che – quale che sia la condizione della città e quali che siano i tanti problemi disattesi – vi è una strenua tendenza a fare quella cosa lì che è la politica staccata dalla vita?
Ci sono molti motivi, certamente. Ma tra questi c’è che vi è una massa di persone – sufficientemente estesa, ancor più che nel resto dell’Italia – che si guadagna da vivere, appunto, facendo politica. E che non sa fare altro. E che pesa, perciò, sull’agenda, sui toni, sui ritmi, sui modi, sul lessico della politica. Si tratta, cioè, di persone che della politica hanno fatto luogo, motivo e tempo di lavoro variamente remunerato.
E’ una storia antica. Infatti il notabilato, nella tradizione del Sud – quello ben individuato da Giustino Fortunato in avanti – si è spesso composto da una quota parte di persone “capaci di tutto e buone a nulla” - piccoli e medi mestieranti delle pubbliche cose - i quali, tuttavia, avevano una qualche rendita di famiglia che forniva la base più o meno solida di una vita tranquilla. I mantenuti della politica partenopea odierni sono, invece, sempre “incapaci e incombenti” perché sono, per troppa parte, una genia di persone che non hanno mai imparato alcuna arte o che l’hanno fatta male per un certo periodo per poi dismetterla; che non sanno fare nulla e, dunque, vagano, parlano, fomentano, intrigano. Ma – rispetto alla genia analizzata dai meridionalisti classici – costoro non hanno un reddito proprio. E hanno la sola possibilità di procacciarsi reddito personale nella politica stessa. Esclusivamente. Dunque il loro agire si basa sul “creare o ricoprire spazi”, costruire pacchetti elettorali più o meno veri, prefigurare o fabbricare condizioni per un do ut des o, peggio, per ricattare e ottenere. Cosa? Un posto nel quale ottenere un buon reddito facendo politica a ogni ora del giorno. Un posto in un consiglio comunale o di municipalità, un distacco entro un ente qualsivoglia, un comando sindacale; o fare parte dello staff o dei consigli di amministrazione di aziende: municipalizzate, semi-pubbliche, private fortemente sovvenzionate, ecc. Ma – attenzione! – in una posizione laterale e protetta, dove non si deve lavorare ma “fare politica”, appunto. Un’altra cosa. Senza, cioè, dover dare conto ad alcuno che non sia il capocordata dell’appartenenza politica scelta o di un suo sottogruppo.
Queste condizioni esistenziali prive di mission e di responsabilità professionale e civile sono i loro ripari e il loro nutrimento. Si tratta, dunque, di parassiti. In senso proprio, non dispregiativo: “animale o vegetale, che vive e si nutre a spese di un altro essere vivente o ne sfrutta le risorse”. E, infatti, nella nostra vita di ogni giorno ce li troviamo a fianco lì dove noi lavoriamo e dobbiamo dare conto. Essi si individuano per questa loro funzione tacita ma altra. E ci si interroga. E non è facile la com-presenza. Perché percepiamo che noi ne garantiamo la sopravvivenza, senza volerlo. Come accade per ogni rapporto tra parassita e non parassita. E ogni volta verifichiamo, con tristezza e impotenza, che vi è tra l’una e l’altra situazione – entro gli stessi posti - una dimensione, assai complessa, fatta di opportunismi e risentimenti, sudditanze, conflitti. Proprio perché - entro gli stessi ambienti - convivono persone che fanno cose e hanno competenze e persone e parassitari taciti e accettati da troppo tempo.
Così c’è questo esercito parassitario – annidato in cento e cento anfratti e gusci accanto alle nostre vite – che ora sta entrando nella fibrillazione propria della stagione elettorale. E’ una fibrillazione non dettata da cattiveria. E il giudizio etico c’entra poco; e varia di persona in persona, come sempre. E’ una fibrillazione naturale. Perché è questo il tempo in cui questa genia difende le proprie posizioni, ogni individuo a suo modo; o aspira a una più redditizia o blocca la scena per poter agire. Tutto questo ha un risvolto che contribuisce non poco a paralizzare la città. Infatti chi non è parassita e sa fare cose, sa rispondere del proprio operare e, magari, vuole e potrebbe fare politica come effettivo impegno civile, si trova la scena occupata da chi lo impedisce .

E’ tempo che anche queste cose siano oggetto del dibattito pubblico. E forse dobbiamo ricominciare a gridare che – oltre e insieme ai poteri forti  evocati nell’articolo di Sergio e Guido sulla questione dei rifiuti – vi sono i parassiti, a sinistra come a destra, che impediscono la politica. Quella vera. Perché devono sopravvivere a se stessi. Perché altro non sanno e non possono. La ripresa della città è possibile solo se si combatte contro i poteri forti, le corporazioni conservatrici e i parassiti.

03 novembre, 2010

Berlusconi Silvio non aiuta alcun adolescente “bisognoso”

Sabato scorso La Stampa ha pubblicato questo mio editoriale e lo riporto qui di seguito. Ho voluto dire in parole semplici, recepibili da chiunque (sì, anche da chi lo ha forse votato a Berlusconi Silvio), che il mestiere di aiutare i ragazzi è una cosa seria.

Il presidente del Consiglio ha affermato che la sua conoscenza della giovane Ruby è dovuta al fatto che egli aiuta chi ha bisogno. E la stampa e la politica si dividono tra chi crede a questa affermazione e chi pensa che si tratti di tutt’altro.

Ma forse la questione importante è soprattutto un'altra. Sì, perché sono milioni gli italiani che aiutano ragazze e ragazzi che hanno bisogno. Molti lo fanno per lavoro. A salari estremamente contenuti. Insegnanti di scuole in zone terribilmente difficili. Assistenti sociali. Psicologi. Operatori delle Asl e del privato sociale. Educatori nei centri sportivi. E, finite le ore pagate, spesso continuano a lavorare. Perché sanno che Patricia è in pericolo, che Carmine potrebbe mettersi nei guai, che Antonio va guardato a vista altrimenti ricade in errore, che la bimba di pochi mesi di Giovanna ha bisogno di pannolini. Altre volte fanno altri mestieri. Lavorano in banca. Sono imprenditori. Hanno un negozio di scarpe.

Sono operai. Eppure devolvono denari e dedicano tempo e mettono a disposizione conoscenza e attenzione emotiva e operativa. Per una casa famiglia per adolescenti in miseria o in pericolo, per un'attività di animazione di quartiere, per dare continuità a un gruppo scout che resiste in un posto difficile o una comunità per tossicodipendenti, per sostenere degli educatori di strada che raggiungono di notte e di giorno ragazzini che vagano senza un adulto di riferimento, per animare gli oratori e le altre comunità. O sono semplici genitori che fanno parte delle tante forme dell'aiuto reciproco informale che affronta crisi e pericoli della crescita. O sono esperti delle fondazioni che decidono a quali progetti dare i denari, vagliando quanto chi li gestirà saprà usarli con equilibrio e sapienza.

Sono davvero tanti gli italiani che aiutano i ragazzi, italiani e stranieri a evitare le vie difficili da cambiare. O a misurarsi con le difficoltà materiali e con gli incubi, le paure, i falsi miti, la confusione. Spesso aiutano le loro famiglie costruendo complesse misure di sostegno, rispettose degli equilibri emotivi e del diritto. Altre volte provano a ridurre i danni dell’assenza di famiglie, con l'affido o con ore e giorni di tempo dedicato. Spesso passano parte delle loro vacanze con le giovani persone povere o in difficoltà. E - per fare bene queste cose - si aggiornano sul cosa e il come fare. Studiano. Partecipano a weekend di confronto. Seguono conferenze di psicologi, pedagogisti, giudici minorili, medici. Affrontano una terapia personale o una supervisione di gruppo per evitare errori macroscopici. Vanno all'estero e si confrontano con chi fa le stesse cose altrove.

Sono credenti e laici. Votano a destra quanto al centro e a sinistra. Perché quando si tratta di fare davvero queste cose, le barriere ideologiche cadono. E il confronto, che prevede anche posizioni e indirizzi diversi, si sposta, comunque, sulla comune e difficile riflessione intorno alle cose fatte e ai risultati ottenuti o meno. E ai tanti errori. Il che richiede umiltà. E la fatica di guardarsi dentro e chiedersi: lo sto facendo per i ragazzi o per me? Ogni volta chiedersi. E sorvegliarsi. Perché educare è un mestiere difficile. Ma educare e sostenere chi è giovane e in difficoltà è difficilissimo.

Questo è il grande, laborioso esercito di persone che aiutano davvero i ragazzi che hanno bisogno. E che forse rappresentano la migliore Italia «bipartisan». Chi ne fa parte può pensare bene o male del presidente del Consiglio. Ma nessuno - proprio nessuno - ritiene che regalare gioielli e denaro e vestiti di marca a un'adolescente in difficoltà sia aiutare chi ha bisogno. Perché il solo pensarlo offende, profondamente, gli anni di lavoro, le cose fatte e apprese, lo stesso senso della vita e della relazione tra esseri umani che hanno dato significato al loro impegno.

29 ottobre, 2010

La scuola che vorrei: collezione completa e dibattito

E' uscito il quarto (il primo è uscito il 7 settembre) e, per ora, ultimo mio articolo sull’Unità per la serie: la scuola che vorrei. E l’Unità li ha messi qui tutti ben bene in ordine. E potete anche intervenire con commenti, come molti hanno già fatto.

15 dic. Aggiornamento: non sono affatto più lì dove erano. Appena li ritrovo...

28 ottobre, 2010

Quale sguardo sulla monnezza

Mentre la percentuale di raccolta differenziata scende ulteriormente a Napoli, qualche improvvido politico che ne condivide la responsabilità insiste che ci si è sforzati di fare progressi…
E’ chiaro da troppo tempo che sulla monnezza – questione che ha debilitato fino all’inverosimile lo spirito stesso della città - dobbiamo guardare anche dietro di noi per poter andare avanti. E’ sempre così quando si arriva al dunque… Tanto che sento che devo, quasi per forza di cose, in questa occasione ricordare il famoso passaggio di Walter Benjamin noto come Angelus Novus:

"C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta".

Comunque, oltre all’ottimo reportage di Napolionline (link), con riflessione di Francesco (Iacotucci) che commenta le immagini di questi giorni, sul presente suggerisco gli aggiornamenti che quotidianamente appaiono su Napoli monitor sulla crisi dei rifiuti, tra cui questo di Viola Sarnelli che racconta una nottata tra Boscoreale e Terzigno.

Consiglio, poi, quest’altra, apparsa sulla rivista “una città”, a me cara. Scritta da Guido Viale, pubblicata circa due anni fa: si possono trovare le previsioni del disastro annunciato e le responsabilità di chi in 15 anni non ha mai voluto mettere mano seriamente al problema.

Riporto, sempre da “Una città” il pezzo in cui Ugo Leone ci ha raccontato come l'area candidata a diventare la settima meraviglia della natura (il parco del Vesuvio) era stata contemporaneamente destinata ad ospitare ben due discariche per rifiuti nemmeno trattati.

13 ottobre, 2010

Segnalo che...

Per mia memoria, più che per segnalarlo a chi mi segue, faccio un piccolo elenco di cose fatte di recente.

Ero intervenuto sulla povertà in Italia al festival nazionale di Torino a fine settembre.

Il terzo inserto (nazioni) sui 150 anni dell’unità d’Italia, uscito con Il Manifesto del 5 ottobre ha pubblicato un mio saggio divulgativo sulla Questione meridionale (link: http://www.ilmanifesto.it/archivi/150-anni/)

Venerdì 8 ottobre ho parlato all’assemblea nazionale del Pd. Di giovani esclusi, Mezzogiorno… e quale dovrebbe essere il senso dato alla politica per la cittadinanza da un partito che si definisce democratico. Come potrete vedere non ho usato i toni solitamente in uso in tali assise…

Sabato 9 ottobre è uscito su l’Unità il mio terzo intervento sul merito di cosa può o dovrebbe essere la scuola pubblica. L’ho centrato sul riconoscimento precoce delle differenze e su un’idea larga, articolata di equità, contraria alla standardizzazione. Lo potete leggere andando alle pagine 34 e 35 dell’edizione pdf del giornale.

Per quanto riguarda la faticosa strada verso le elezioni comunali a Napoli, ho condiviso l’appello dei “cocciuti” che ostinano a pensare alla città e in più di 500 ne discutono in gruppo su FB.

E in ultimo, ma non per importanza, invito, sempre a proposito della nostra città, a visitare il sito di Simonetta – la mia amica urban sketcher che cura gli acquarelli che ogni tanto trovate qui – dove si vedono i suoi lavori, pubblicati su ANIMAls, sul sangue di S. Patrizia e la sedia di Santa Maria Francesca a Napoli; e quelli realizzati all'Aquila domenica scorsa per raccontare quello che lì (non) succede con una Carriola di disegni.

12 ottobre, 2010

Manifesto dei “cocciuti” – dateci idee per la città

La politica segue percorsi tortuosi. Berlusconi raccoglie la fiducia più ampia di sempre ma tutti capiscono che è al capolinea. A Napoli si avvicina il voto per le comunali ma la sfida per le primarie si apre senza che siano chiare le regole.

Tuttavia siamo sicuri che la politica - anche se la strada che percorre è tortuosa – arriverà a porsi la domanda chiave: come si esce dalla crisi economica, sociale ed etica nella quale siamo precipitati?

Abbiamo provato a buttar giù delle idee per Napoli. Idee cantierabili, cioè fattibili. Sono sul gruppo Facebook: ideexnapoli.
 Invitiamo chi se la sente a collaborare. C’è una sola regola: il traffico è un problema? Non basta proporre “di favorire il trasporto pubblico rispetto a quello privato”. Bisogna dire come.

Chi siamo? Persone convinte che sia sbagliato lamentarsi della politica e lasciare che tocchi sempre ad altri occuparsene. Persone che hanno messo la faccia alle scorse comunali o alle recenti regionali. Leggete le firme: non è l’abbozzo di un partito.

Siamo cittadini cocciuti. E proviamo a fare qualcosa per tutti senza cambiare noi stessi. Ecco perché lanciamo la raccolta di idee. Lo dobbiamo alla città che ci è cara. Lo dobbiamo a chi ci ha dato fiducia.


Osvaldo Cammarota, Elena Coccia, Sergio D’Angelo, Nino Daniele, Franco Di Liberto, Igina Di Napoli, Marco Esposito, Roberto Fico, Marco Rossi Doria 

04 ottobre, 2010

Piovono candidati

Da tempo mi giungono voci. Lucia Annunziata o Walter Veltroni candidati a sindaco di Napoli?
Mah!? Davvero il pd e/o il centro-sinistra, per le elezioni a sindaco vogliono fare venire qualcuno da fuori per provare a vincere - il soi disant papa straniero - che o non conosce una strada e non capisce l’idioma o non ha mai aspirato ad amministrare una comunità? E se sì, pensano forse o anche o magari a un collettivo vero, capace di dire, fare o altro? Ma, poi, non bisogna volere fare le cose per aspirare a farle? E queste persone non hanno – mi pare – detto di volerlo fare…
Inquietante, dunque, soprattutto per quanto riguarda la nostra città nella sua relazione con la politica. In ogni caso. Infatti se questo boatos non è vero siamo alla solita ormai malata e patetica dietrologia di un luogo che non può credere più alla politica e quindi la riduce solo a questo. Se è vero significa che un’intero schieramento politico, che ha governato per quasi quattro lustri, riconosce - ma senza il coraggio di dirlo - che è stato distrutto tutto il personale politico del centro-sinistra partenopeo a causa di questi terribili anni. Tanto che nessuno ma proprio nessuno che sta nel giro – e vive, in senso proprio, di politica - è considerato – a Roma o altrove - capace o credibile o sufficientemente distante dall’eredità del fallimento. Vi è poi dell’altro ancora: chi sta fuori dal giro – e non vive di politica - non viene neanche preso in considerazione. Infine restano altre due domande cruciali circa il rapporto tra buona politica e città:
1- Le cose da fare per la città, dal 2011 al 2016, chi le dice?
2- Le famose primarie - come esercizio di effettivo dibattito pubblico, civile, appunto, sul programma, la squadra competente, il metodo di governo – le si fanno davvero o no? E se no, comunque, interessa a qualche luogo politico fare effettiva campagna elettorale e dunque coinvolgere la cittadinanza intorno al tema: cosa significa governare Napoli. O no?

24 settembre, 2010

Cronaca di un giovedì

Il Napoli e la monnezza
Sono arrivato a Napoli di pessimo umore per la sconfitta interna del Napoli col Chievo: 1-3. E i ragazzi del mio quartiere mi hanno subito raccontato che lo stadio era pienissimo e che era stata una mortificazione uscire in così tanti a viso basso. Ho pensato a come le delusioni sportive si avvinghiano intorno a un magone persistente dovuto allo stato della città, aumentandone il peso. E nelle narici e negli occhi ne ho subito avuto la conferma: nel mio quartiere come altrove i cumuli di monnezza sono alti come nei tempi peggiori e il caldo ha fatto il suo effetto aumentando il tanfo. Mi sono venute alla mente le scene della grande crisi. Del resto tutti i giornali nazionali ne parlano. Ma al solito l’analisi più puntuale di questa rinnovata crisi dei rifiuti ci viene da Francesco.

E' 'na parola riprendere la parola
Sono arrivato presto a Santa Maria la Nova per la nostra assemblea-iniziativa che vuole riprovare a dare parola allo stato reale della città e alle cose da fare. Infatti l’abbiamo voluta chiamare: riprendersi la parola. Sembra facile!. E’ ‘na parola riprendere la parola! Da quattro anni e ancor più negli ultimi mesi avverto - nelle parole, appunto, dei ragazzi, degli amici, dei colleghi di lavoro e nella mia “voce di dentro” - uno sconforto estremo. Perché c’è stato a Napoli – in tutti i campi della vita – un vero breakdown nello spirito della città, una china inesorabile, terribilissima, segnata da una catena di lutti che hanno annullato la speranza. E hanno prodotto una depressione civile grave e diffusa. Che sta alla base della difficoltà, appunto, di riprendere la parola. Tale difficoltà fa sì che anche la comunicazione politica è sempre più faticosa, sviata ancor più di quella nazionale.
Due episodi emblematici
Con questo in mente, due episodi della giornata mi hanno colpito. Sono gustosi e al contempo depressivi. Tra loro diversi eppure emblematici per chi vuole guardare ai segni come evidenze e non come mere casualità. Il primo è stato banale: nella sala del consiglio della Provincia più popolosa d’Italia non funzionavano i microfoni. Punto. Abbiamo così tenuto una riunione unplugged. Che ha costretto tutti a un compìto silenzio e a una maggiore attenzione. Il secondo episodio è stato attivato dall’ultimo post nel blog di Antonio Bassolino. Che aveva riportato la nostra iniziativa pubblica nelle ore precedenti come uno dei luoghi per riparlare della città. Niente altro che questo. Ma che i giornali avevano riportato con qualche titolo enfatico. Così, nella rete, le poche righe dell’ex governatore sono state lette da tanti addirittura come appoggio a una mia presunta candidatura a sindaco. Tanto che se ne chiedeva conto a quelli ritenuti “davvero informati”, che un’amica mi ha riferito che “tutti sanno che hai già preparato i manifesti”, che gli amici di napolipuntoeacapo mi hanno rivolto alcune domande.
Ma ben al di là di questo episodio, continua a colpire l’evidenza che, ancor più che altrove, nella nostra città, vale molto di più il supposto o il paventato di quello che uno dice o scrive e argomenta e fa lungo la sua vita.

Ritorno ai fondamentali
C’è davvero bisogno di un ritorno ai fondamentali. Così ad apertura dell’incontro ho ricordato che non mi sono candidato a sindaco. E ho sottolineato come il declino nei modi della politica nella città abbia prodotto guasti anche nell’uso della parola e dell’immaginario politico. Ho evidenziato come – l’ossessione sulla parola scritta da Bassolino – mostra anche quanto si è ancora intrappolati intorno all’idea di capo che detta l’agenda e guida alle soluzioni - il deus ex machina. Che svia da ogni esercizio democratico. Sono i miei temi di sempre: invece di affrontare la fatica dell’analisi e dell’elaborazione di proposte in risposta ai bisogni complessi e ai problemi si cercano scorciatoie, si seguono trame, si preferiscono i personalismi. Che hanno contribuito a ledere speranza nello spirito pubblico. Tanto che una nuova stagione non può che partire dalla fatica di proporre confronto vero e argomentato sull’economia, la pubblica amministrazione, la gestione del territorio, improntato anche a ricostruire comunicazione e confronto in senso liberale. Ho, poi, sottolineato come è ora di riprendere un’idea di città produttiva.

L’assemblea
Comunque l’iniziativa, ben riportata da Norberto in rassegna stampa e soprattutto con questo clip, è servita per spostare un po’ di attenzione sui problemi e le possibili soluzioni. Sono venute circa 120 persone. Pochi giovani – va detto. E troppe facce conosciute. E c’è, dunque un gran lavoro da fare. Per allestire ascolto diffuso. Fin dalle prossime settimane, municipalità per municipalità. Come ha proposto Sergio D’Angelo nelle premesse. Si tratta – ha detto Sergio – di un lavoro che intende ridare, appunto, parola. Che inverte le priorità spostando l’asse dal nome dei candidati intorno ai quali fare la consueta campagna ai temi della città. Il dibattito è stato ricco. Adriano Giannola ha descritto lo scenario entro il quale è possibile ridefinire un meridionalismo delle produzioni e dei mercati, una versione “nittiana” adeguata al terzo millennio, un’opera di ricostruzione economica, sostenuta in modi non protezionisti eppure tali da riconoscere l’esclusione effettiva del Mezzogiorno dallo sviluppo europeo, un’opera complessa da proporre entro i nuovi scenari Europa-Asia, nella quale la più grande area metropolitana del Sud non può non cercare un ruolo centrale. Si è soffermato sui diversi errori politici dovuti a approcci culturali provinciali e di corto respiro, che abbiamo subito troppo a lungo e alle scorrette analisi sulla fine della Questione Meridionale. Ha prospettato il compito di un aggancio del Sud alla green economy, una ricostruzione del credito, all’attenzione alle reti di legami sociali ed economici - cose che vanno guidate dalla politica di una grande città. Enrica Morlicchio, nella scia anche di un lavoro teorico che si sta riprendendo, finalmente, su questi temi, ha tracciato le gravissime dimensioni della povertà in città e i suoi nuovi caratteri insieme a una valutazione argomentata di quei dispositivi di welfare che pur hanno funzionato e che forse vanno ripresi, aggiornati, migliorati. Isaia Sales, a partire anche da un riconoscimento della propria parte nelle politiche pubbliche, ha posto l’accento sulle iniziative possibili se si considera Napoli come parte politiche dell’area che la circonda, dell’Italia, della UE e del mondo. Ha difeso alcune delle buone ragioni della sinistra in città anche se queste sono state poche efficaci a causa di un’idea di politica che ha escluso molte risorse umane, preferendo la pratica della cooptazione. Ha, poi, svolto considerazioni sulle aziende partecipate e il loro governo e sulla gestione dell’ordinario. La riunione è proseguita accogliendo taluni brevi interventi centrati su temi urbanistici, la questione dei rifiuti che continua a seguire logiche di potere anzicché partecipative, il come dare continuità a reti, azioni e servizi, il come usare i fondi pubblici e anche come rispondere alle politiche di governo sul pacchetto Sud. E si è conclusa con il rilancio di un prossimo calendario di iniziative, centrate sulla responsabilità attiva delle reti di cittadini, ben oltre il recinto dei partiti, ormai assai povero.

21 settembre, 2010

Cose possibili

L’iniziativa di giovedì inizia a trovare eco.
Si tratta di provare davvero a parlare dei problemi e soprattutto di come fare per dare risposte realistiche ma anche ambiziose, togliendoci di dosso la insopportabile cappa dei personalismi, della politica politicante, del parlare “vuoto a perdere”. Cosa proporre per Napoli. Cose possibili. Che ridiamo speranza. E’ un primo momento. E speriamo che…

Giovedì 23 settembre, ore 17.00
Sala del Consiglio provinciale di Napoli
Santa Maria La Nova

20 settembre, 2010

Differenziata: parlarne ancora e ancora, capire, fare


In questi giorni si riparla di differenziata a Napoli. E’ tema che fa ribollire il sangue…
E’ noto ma va ribadito: vi è uno strettissimo legame tra la crescita umana e di cittadinanza e la raccolta differenziata. Perché è un atto che si ripete, costante nel tempo. E’ una cosa pratica e quotidiana che lega l’etica all’operatività: ogni giorno ognuno tratta quel che butta via. O non lo tratta. La libertà individuale è ri-collegata alla responsabilità del fare individuale. Differenziare significa mettere le mani nella propria mondezza secondo criteri condivisi, costringe a parlare e decidere, da individui, appunto, ma come comunità e nell’interesse generale e non egoico. Inoltre sposta in avanti, nel futuro, i risultati dei propri personali comportamenti. Dunque è tema sommamente educativo. Come è per ogni tema che sia davvero politico. Ed è in questa chiave che è stato trattato in tante scuole, fin dal 1996 a Napoli – sì, a Napoli le scuole quindici anni fa avevano avviato una differenziazione partecipata, che coinvolse le famiglie, anche nei quartieri difficili! – per poi, però, essere violentemente disatteso, creando disillusioni tremende in generazioni di bambini che ora sono ragazzi e spesso cittadini maggiorenni. Una realtà diseducativa. Di cui risponde una intera stagione politica. Senza appello. Perché è stata una violenza che pesa, che fa ancora male. Perché è intervenuta sul principio di speranza nel tempo stesso della sua prima formazione, mortificandola nei giovani, togliendone orizzonti.

Ma proprio per questo, bisogna riprendere le cose in mano. E parlarne ancora. A partire dal mondo reale. Ed è a tal fine utile confrontare quel che accade per assenza di condizioni minime di effettiva raccolta a Napoli e quel che avviene per esempio a Vico Equense, a pochi chilometri dove si raccoglie il 62% in modo differenziato e si raggiungono i primi dieci comuni più virtuosi.

Per chi, come me, vive tra queste due città è impressionante la differenza nello stile e nella filosofia di vita ogni volta che si passa dalla responsabilità che nutre orgoglio e soddisfazione e la sciatta irresponsabilità che mortifica il senso civico interno e deprime l’anima!

Muoversi, muoversi!

C’è da muoversi. E a tal proposito, segnalo con soddisfazione la riuscita dell’ottima iniziativa di ripresa civile di parola sulle cose e le proposte concrete, sulla quale si sono impegnati gli amici di Napoli punto a capo e molti altri, con buona pace dei giornali immersi nel politichese  e vi ricordo l’appuntamento di giovedì, sempre per parlare di cosa fare della e nella nostra città!

Ecco il comunicato stampa:

La città può riprendersi la parola
Assemblea pubblica sulle priorità di Napoli in vista delle amministrative
Intervengono Sergio D’Angelo, Marco Rossi Doria, Isaia Sales, Adriano Giannola, Enrica Morlicchio

Giovedì 23 settembre 2010 ore 17.00
Napoli, Sala del Consiglio provinciale
Santa Maria La Nova

NAPOLI – Giovedì 23 settembre, a partire dalle ore 17.00, a Napoli presso la Sala del Consiglio provinciale di Santa Maria La Nova, si terrà l’assemblea pubblica dal titolo “La città può riprendersi la parola”, con interventi di Sergio D’Angelo, Marco Rossi Doria, Isaia Sales, Adriano Giannola, Enrica Morlicchio.
L’incontro si propone come un momento di riflessione comune sulle priorità di Napoli: ripulire l’ambiente e curare il ciclo dei rifiuti; combattere la povertà e la disoccupazione; ridurre drasticamente gli sprechi; ridare alla città servizi degni e produzioni industriali; rifondare la macchina amministrativa e chiudere con ogni forma di clientelismo; riportare i ragazzi alla scuola e alla formazione; colpire la camorra e dare possibilità vere a chi vuole uscire dalla strada sbagliata.
L’obiettivo è suscitare il coinvolgimento di singoli cittadini e di quella parte di società attiva che da tempo si organizza in comitati, associazioni, cooperative, movimenti civili, affinché le cose da fare diventino un percorso condiviso e non restino nell’ambito circoscritto del dibattito politico dei partiti.
L’assemblea sarà l’inizio di una serie di incontri che proseguiranno fino alla vigilia delle elezioni amministrative, per ridare la parola ai napoletani e rendere così l’appuntamento elettorale un concorso di idee e una mobilitazione civile.

16 settembre, 2010

Tempo di battaglia

Che lo vogliamo o no, che ne abbiamo o no le forze, è tempo di battaglia. Non possiamo sottrarci. Infatti l’educare – il tema decisivo in ogni società – vede attaccato il suo stesso fondamento. Perché si educa se si considerano uguali i bambini e i ragazzi. E’ questo che sta a fondamento di ogni scuola e di ogni apprendimento trasmesso da una generazione all’altra. Perciò: non si può non rispondere. E bisogna anche difendere ogni volta il senso positivo che la scuola ha. Nonostante tutti i suoi difetti. Bisogna lo stesso partire dalle cose buone che fa; per esempio partire dal suo rituale primo, il primo giorno di scuola dei bambini. Per questo ho scritto a loro, ai bambini su La Stampa del 13 settembre i miei consigli di maestro. Perché qualcosa va salvata. E’ parte della battaglia.

Mentre i “simboli padani” della scuola di Agro imbrattano ogni idea di diritto uguale e di scuola come luogo salvo per tutti, l’atmosfera europea è infestata dalla cacciata dei rom dalla Francia – con moltissimi bambini e adolescenti - un precedente storico che speriamo provochi un sollevamento di indignazione vero. Così come è il caso di indignarsi contro il nostro presidente del consiglio che ieri ha applaudito, in splendido isolamento, lo screditato Sarkozy.

In questo scenario, l’inizio dell’anno scolastico ha posto la scuola al centro dell’agenda. E non solo per Agro e i precari cacciati. Ci sono classi bellissime con ragazzini di ogni colore e lingua, con docenti che vi lavorano magnificamente: da Verona a Trento, da Caserta a Roma a Palermo a Mantova a Torino. Il mondo è il mondo. Ed è qui. Per fortuna. E per fortuna c’è chi se ne occupa, nonostante i tagli alle scuole. Così, piccoli e grandi segni marcano un paesaggio molto vario, che ha bisogno di letture e anche di militanza: forte, argomentata, propositiva. E di riconsiderare la scena antropologica nella quale viviamo e si fa scuola oggi. Come ho provato a iniziare a fare con l’articolo su L’Unità del 7 settembre che parla del patto saltato tra scuola e famiglia. C’è, dunque, un attacco alla scuola e c’è anche un nuovo scenario educativo entro il quale la scuola si muove, è spaesata, fa fatica, prova a resistere. Il Sud è ancora una volta il più colpito. E ha bisogno di proposte semplici. Ne parlo nell’editoriale di seconda pagina de L’Unità di oggi, con il titolo La scuola e le due Italie (vedi qui sotto).

E poi Napoli. Che è colpita dalla chiusura definitiva del progetto Chance… E’ stata distrutta in dieci mesi l’ultima prova, faticosamente messa su da Cesare Moreno con una mediazione estenuante con la vecchia giunta campana, un compromesso con tanto di delibera, che – visti i difetti di quel governo regionale e l’ignominia di questo – è finita male davvero…. Ne parla oggi Salvatore Pirozzi su Napoli Monitor, domandandosi cose pertinenti, sulle quali ci interroghiamo da tempo.

Per me – che mi occupo ora a Trento di ragazzi difficili di ogni paese, impegnati nella formazione professionale - questa fine della cosa alla quale ho dedicato dieci anni difficili e bellissimi è cosa dolorosa. Penso all’autunno del 1996, a quelle pagine scritte, a quelle poche aule visitate, ai primi colloqui coi genitori del mio quartiere i cui figli non andavano a scuola. Un potere politico ignobile, lungo questi duri anni, non ha voluto e saputo rappresentare Chance e ha distrutto le nostre forze impedendoci di crescere, esaltando così ogni nostra inevitabile debolezza e mandando tutto a malora. E’ la politica che ha impedito che una isttituzione buona, legata alle persone e ai bisogni, potesse imparare da se stessa e insegnare alla città mentre ancora imparava da altro, da altri. L’opposto di quel che è chiamata a fare la politica. Semplicemente.

La scuola e le due Italie

Questo articolo è uscito oggi, 16 settembre, su l’Unità come editoriale.

La posta in gioco per l’istruzione in Italia è altissima.
Per capire la partita in corso, bisogna partire dal fatto che accade sempre che due modi di considerare la scuola si confrontano. Da un lato c’è la scena educativa concreta, la vita vera a scuola. Dall’altro ci sono le cornici sistemiche: rapporto tra bisogni e organici, spesa, organizzazione generale. Sono due mondi, con due linguaggi che in ogni sistema d’istruzione vanno messi in una relazione virtuosa. E’ proprio questa relazione “il governo della scuola”. E poiché ogni contesto locale tende a auto-centrarsi, è bene che vi sia il contraltare di una visione generale. Per esempio i temi della verifica dei risultati delle scuole, l’esigenza di una semplificazione degli indirizzi, l’opportunità di decentrare le decisioni sono cose che chiamano a fare i conti con vincoli, doveri di verifica, assunzione di responsabilità diretta. Ma l’anomalia politica che ha luogo in Italia è che da anni la destra fa una propaganda vergognosa e ripete che le forze di centro-sinistra non hanno accolto questa prospettiva. E’ una menzogna. Questi temi sono, anzi, stati posti dal centro-sinistra: stabilimento del fabbisogno generale e proposta di allocazione delle risorse con risparmi veri ma anche sostenibili in termini di tenuta educativa delle scuole (libro bianco), piano di rientro dei precari al fine di riprendere i concorsi pubblici, piano per la sicurezza delle scuole, avvio del sistema di valutazione. La verità è un’altra. La destra non mette in relazione la vita vera delle scuole e il sistema, ha una visione dirigista del sistema e, soprattutto, lo fonda sul risparmio come unico criterio.
Perciò la destra va battuta con la ripresa della priorità educativa rispetto a quella fondata sul budget. E poi ci si misura sul come reperire i fondi. Questo approccio, nella storia italiana, ha una forte tradizione. Ne hanno fatto parte, in modi diversi, la destra storica, Giolitti, per certi versi lo stesso fascismo, i governi centristi del dopoguerra e, con un salto in avanti, il primo centro-sinistra che, con la scuola media unica, applicò la Costituzione e aprì la via al successivo difficile cammino, ancora in corso, dell’istruzione per tutti e ciascuno. Il governo Prodi, con l’elevamento dell’obbligo, stava in questo solco. In questa tradizione ci sono stati anche errori e limiti. Da correggere. Ma è questo il solco delle politiche pubbliche unitarie del Paese. L’attuale governo rappresenta una grave frattura in questo indirizzo di responsabilità verso le nuove generazioni di tutte le classi sociali. Infatti, la priorità assoluta data ai tagli rivela qualcos’altro. Rivela un’idea di scuola in cui chi è protetto - perché ha a casa persone istruite - può permettersi poco tempo-scuola e gli altri faranno quel che possono con quel tempo. Così, la scelta di indirizzo fondata solo su criteri di bilancio sancisce il principio di ineguaglianza: dare poche cose uguali a chi uguale non è. E smentisce l’articolo 3 della Costituzione che chiama la Repubblica a rimuovere le cause dell’ineguaglianza. Nessuna riparazione per chi sta indietro. Inoltre il criterio del risparmio fa sì che l’educare non è più una funzione della scuola che è limitata all’istruire e dunque i grandi temi della comunità a scuola, della relazione scuola-famiglia, della gestione delle difficoltà dell’adolescenza sono “esternalizzati”, non finanziabili se non con risorse altre. Chi le trova bene, chi no è lasciato solo. Si tratta di una politica che consolida la divisione, nel Paese, tra popolazione protetta e poveri e tra Nord e Sud. E che sta portando alla chiusura delle scuole di montagna, all’accorpamento nelle mani di pochi dirigenti di molte scuole, con relativo annullamento delle funzioni di coordinamento pedagogico a favore di quelle meramente burocratiche, all’affollamento ingestibile delle classi, al decadimento pericoloso del patrimonio edilizio. E’ l’approccio contrario a mettere insieme scuole e sistema.
L’alternativa a questa politica sulla scuola pone, invece, l’intelaiatura di sistema al servizio di chi fa scuola, di chi deve mantenere le promesse della scuola perché risponde ogni mattina alle persone e ai compiti educativi: trovare risposte, caso per caso, classe per classe, alla crisi dei modelli educativi e alla caduta generale delle regole, affrontare la grande fragilità di un’ adolescenza sottoposta ai richiami di consumo e di comportamento dominanti e promuoverne, al contempo, le immense vitalità, integrare davvero i bambini e ragazzi stranieri, fare i conti con il fatto che i modi di apprendere nella rete e nei media vanno ricondotti a un senso, contrastare gli effetti, spesso devastanti, della povertà e dell’illegalità in intere aree del Paese dove la scuola è il solo presidio democratico. Dunque: l’agenda sulla scuola ce la fornisce la vita vera e complessa che già avviene a scuola. Altro che l’aritmetica delle ore cattedra per risparmiare! Ma la situazione si è così aggravata che, per rimettere in piedi una politica per la scuola, un governo alternativo dovrà affrontare, insieme, le questioni di cosa e come si impara e le due prime emergenze, che sono: fornire le condizioni necessarie per una scuola del ventunesimo secolo e dare di più a chi parte con meno. Dunque, mettere in sicurezza le scuole oggi non a norma e degradate e fornirle dei mezzi per garantire manutenzione ordinaria, mense e luoghi comunitari aperti tutto il giorno, palestre, laboratori scientifici, multimedialità costantemente aggiornata. C’è da fare – federalisticamente! – un grande patto stato-regioni su questo. E poi: dare subito di più a quel 20 percento di bambini poveri, ovunque e soprattutto nel Sud. Più asili nido nelle aree metropolitane del Mezzogiorno. Fornire le scuole d’infanzia di un monte ore ulteriore per la mediazione con le famiglie povere e soprattutto con le mamme delle zone a forte rischio che chiedono sostegno a una genitorialità difficile. Dare il tempo lungo e un organico funzionale a tutto la scuola del nuovo obbligo, fino ai sedici anni, ma a partire dalle aree più difficili, sul modello delle zone di educazione prioritaria francese, assicurando l’effettiva alfabetizzazione irrinunciabile – in primis solide basi precoci in italiano e matematica - che non possiamo garantire, in quei contesti, con il tempo corto e l’organico ridotto. Fornire scuole di seconda occasione per chi è già “disperso” a dodici o tredici anni. Il governo dell’alternativa è queste cose qui, da verificare con rigore.

11 settembre, 2010

Riccardo Sarfatti

E’ morto l’altro ieri sera in un incidente d’auto Riccardo Sarfatti.
Una persona cara, squisita. Un imprenditore d’avanguardia, che ha inteso la politica come servizio compiuto con onestà intellettuale e personale, non un mestiere. Con il quale ho avuto il piacere di conversare sulle comuni sorti e sul cosa fare, apprezzando ogni volta la sua ironia, il suo realismo mai cinico, la sua cultura, la sua voglia di fare il possibile e bene, nel mondo possibile. Ci mancherà.

09 settembre, 2010

Fermati un momento per Angelo Vassallo


Venerdì 10 alle ore 10.30 in punto ovunque tu sia, qualunque cosa tu stia facendo.
Perchè l'hanno ucciso con nove colpi di pistola, ad Acciaroli.
Perchè era un uomo e un sindaco con la schiena dritta.
Perchè alle 11 lo seppelliscono, ma non vogliamo che seppelliscano i suoi sogni.
Perchè non potremo essere lì, ma vogliamo che la sua famiglia senta forte il nostro abbraccio.
Perchè dal minuto dopo continueremo il nostro impegno con più forza.
Perchè così abbiamo imparato ad onorare la memoria delle vittime innocenti delle mafie.

08 settembre, 2010

Riprendersi la parola

Prima o poi si andrà a votare e sarà dura. E a Napoli si voterà per il sindaco, in primavera in ogni caso e con possibili primarie a breve. Converrà provare a ragionare con calma… e provare a non perdere. Ma detto ciò, resta che i temi dei cittadini sono lontani da ogni dibattito e spazio pubblico. E quelli di cui mi occupo io – scuola, sociale – ancor più. Eppure vanno rimessi al centro. O ci si deve provare. Comunque: va ripresa la parola. Nel mio piccolo ci provo e proverò. Così, ho avviato una serie di articoli sulla scuola su l’Unità – di cui il primo è uscito l’altro ieri. E ho indetto, insieme a Sergio D’Angelo, e in seguito al promemoria uscito su Repubblica Napoli il 10 luglio, un momento di riflessione su cosa fare a Napoli.
Invito tutti a partecipare:

Giovedì 23 settembre, a partire dalle ore 17.00, a Napoli presso la Sala del Consiglio provinciale di S. Maria La Nova, si terrà l’assemblea pubblica dal titolo “La città può riprendersi la parola”.

Un momento di riflessione sulle priorità di Napoli: ripulire l’ambiente e curare i rifiuti, combattere la povertà e la disoccupazione, rompere con gli sprechi, ridare alla città servizi degni e produzioni industriali, rifondare la macchina amministrativa e chiudere con ogni forma di clientelismo, riportare i ragazzi alla scuola e alla formazione, colpire la camorra e dare possibilità vere a chi vuole uscire dalla strada sbagliata. Le energie migliori della città, il recupero del suo orgoglio e della sue potenzialità hanno bisogno di un immediato cambio di passo, di voce e di proposta.

Ne discuteranno: Sergio D’Angelo, Marco Rossi Doria, Isaia Sales, Adriano Giannola, Enrica Morlicchio.

Per informazioni e adesioni: 081 787 2037 int. 218

01 settembre, 2010

A rieccoce

Sono rientrato al lavoro. A Trento e sui temi della scuola in generale . Quest’anno qui a Trento stanno arrivando vari operatori sociali; e studenti, operai edili, informatici, insegnanti. Da Napoli. Così mi sento meno solo. E più triste.
Ma può ripartire Napoli? Vedo l’intervento di Braucci di ieri. Concordo. E va nella direzione di quanto scritto qui a luglio.
Ci vuole una squadra. Varia, agile, forte. E – aggiungo - qualcuno che la tenga assieme. Bisogna saperlo fare. Di questo si deve parlare. E ancora di contenuti. Ho ricominciato a farlo su Repubblica Napoli contro il balletto degli organigrammi che ha oppresso l’estate partenopea. E il 23 settembre farò un’iniziativa con Sergio D’Angelo, Isaia Sales, Adriano Giannola. Sui contenuti, sul da fare. A partire dalla città com’è.
Vedo che Pietro Spina consiglia di partire da qualcosa di concreto. Rilanciamo la raccolta differenziata – suggerisce. Sì. Ci sto. E lo ringrazio. Anche se sarà dura organizzare qualcosa. Tutti noi, Pietro, stiamo perdendo la memoria storica… delle stesse nostre battaglie. L’ultima proposta con l’appello sulla differenziata immediata la facemmo nel luglio di due (2!) anni fa. (si veda qui, con tanto di commenti e adesioni…)
Facciamo un sit-in, con le buste pronte e differenziate? Dico davvero. Anche in cinque. Muti e con il lutto al braccio. Chiamando i giornali. Un semplice gesto “situazionista”. Sono disposto a venire da Trento ad hoc.

10 luglio, 2010

Un’idea di città, poi i nomi

Con Sergio D'Angelo ho scritto questo articolo che è uscito ne La Repubblica-Napoli di oggi.

Siamo preoccupati. Si stanno avvicinando le elezioni comunali e Napoli ha urgente bisogno di riattivare le sue forze migliori intorno a un’idea di città produttiva, vivibile, sicura, solidale. Ma il dibattito pubblico rischia ancora una volta di arenarsi entro gli angusti e irresponsabili spazi di questi partiti, da anni penosamente rivolti solo a se stessi, senza ombra di analisi né di proposta né, tanto meno, volontà di cambiare facce. E Dio sa quanto ce ne sia bisogno e anche desiderio.
Sia chiaro: non nutriamo alcun sentimento di antipolitica o di delegittimazione dei partiti. Anzi, insieme a tanti ci siamo battuti perché essi riprendessero finalmente ad assolvere alla funzione che la Costituzione attribuisce loro. Abbiamo richiesto le primarie di coalizione perché il centro sinistra si rimetta a pensare e proporre. Oggi - con spirito di servizio – facciamo un appello all’impegno comune per dare speranza a questa città. Ci vuole uno scatto di orgoglio, un cambio di passo, di metodo e anche di stile. E di generazione.


Proponiamo di partire dalle cose da fare, in modo autenticamente partecipativo. Perciò, nei prossimi mesi, intendiamo predisporre con cura proposte nuove e realistiche confrontandoci sul merito con tutte le forze disponibili. Con alcune ispirazioni chiare.
Innanzitutto la ripresa delle produzioni a Napoli. Una metropoli senza industria e imprese corrette non può avere fiato. Napoli può diventare una città industriale del terzo millennio, che salvaguardi i diritti e sia competitiva nel produrre, purché esca dai vecchi paradigmi. È una grande questione nazionale. Napoli salva se stessa se riprende a fabbricare beni in modo sì attento al carattere globale delle produzioni e dei mercati ma anche alla civilizzazione dell’economia che è legata alla qualità della vita: salute, servizi fruibili, apprendimento in tutte le età, difesa e rigenerazione dei luoghi e dei beni collettivi, sanità dell’ambiente. La via maestra per combattere la disoccupazione è ricostruire e innovare il tessuto produttivo urbano integrandolo con la città e legandolo al sapere tecnico e scientifico connessi con la crescita dell’economia sostenibile. E’ tempo di essere ambiziosi, di superare i lacci culturali del passato, di rendere operativa l’idea dell’imprescindibilità dell’attività economica dalla solidarietà e dalla responsabilità, anticipando quel che si deve fare in tutta Italia. Per farlo bisogna riconoscere che la crisi ha ridotto risorse e margini di azione e che lo scenario globale è la scena di ogni possibile rilancio, anche per una città; che c’è da battersi per contrastare l’agenda del governo che nega le condizioni minime per la ripresa nel Mezzogiorno; che va promossa una concertazione su investimenti che siano direttamente produttivi e credibili, pubblici e privati, sostenuti da quella parte del sistema creditizio disposto ad affrancarsi da logiche spartitorie e difensive.
Rilanciare i servizi pubblici. Snellirli innanzitutto. E renderli più prossimi alle persone, a partire da chi sta peggio. Una città divisa in due - tra tanti poveri e precari e relativamente pochi privilegiati - non può essere vivibile e sicura, né per gli uni né per gli altri. La lotta contro la camorra e il controllo dello Stato sul territorio - il ripristino del monopolio della forza – va accompagnata e sostenuta dall’offerta di aiuto costante a chi è meno protetto. Investire nella lotta alle diseguaglianze ha funzionato in molti luoghi. Purché ci si basi su principi di responsabilità personale, si creino alleanze tra gruppi di cittadini e soggetti sociali ed economici, si diano sicurezze economiche e anche occasioni formative agli operatori sociali, che sono una grande risorsa della nostra città. C’è, poi, da ridare ossigeno alla scuola - a partire da quella di base - che, davvero eroicamente, ha resistito in questi anni. Non è più tempo di fare recriminazioni sulla città dei bambini che non c’è stata, ma questa partita va rilanciata subito.
Sui rifiuti, tema concreto e simbolico, si può ripartire velocemente iniziando dalla riorganizzazione della raccolta differenziata. Sull’inquinamento è il momento di decidere di strappare pezzi della città al traffico. Sulle aree della città da valorizzare in tempi stretti e sul rilancio delle periferie c’è da dismettere i baracconi politico-burocratici che non hanno prodotto soluzioni ma, anzi, hanno fatto parte del problema: sono maturi i tempi per rapide concertazioni partecipate e l’avvio della trasformazione e dell’uso dei luoghi. Il piano senza il pieno riconoscimento delle azioni di quartiere, del protagonismo e delle reti di cittadini non ha prodotto cambiamento. Controllo serio, progettualità diffusa e attivazione delle persone vanno rimessi insieme. E va ripreso, con serenità ma rapidamente, il tema dei diritti: dei bambini, delle donne, dei disabili, degli stranieri. E dei gay. Una città che ha accolto così il Pride - con le donne dei quartieri che hanno applaudito il corteo e l’indomani sono andate regolarmente in chiesa - non può paralizzarsi su questioni di un tempo ormai tramontato. C’è la possibilità di una città delle differenze che sappia riconoscersi sicura e vivibile perché accogliente.
Parliamoci chiaro. In assenza di un candidato già riconosciuto, nella città più difficile e più giovane d’Italia - per pensare di fare queste cose – c’è da uscire dai soliti giochi e invertire la procedura: prima i compiti e il profilo e poi i nomi. Va costruita una squadra, intanto, di solide competenze e con molti giovani. E, poi, le candidature non possono più prescindere da alcune condizioni irrinunciabili: l’assoluta onestà personale, una competenza non ristretta ai circuiti della politica e alla scena napoletana, un linguaggio nuovo e chiaro, una cultura organizzativa contemporanea, la capacità di tenere insieme le differenze.
Ci diranno che la politica non si fa così. Noi pensiamo, al contrario, che una fase si sta chiudendo nel modo stesso di fare politica, e che la politica riprende senso e valore solo se si fa così. Non è facile, lo sappiamo. Ma c’è un’altra via?

06 luglio, 2010

(L)ode dell’Accompagnatore di carrelli

Ho un amico a Verbania. Si chiama Gianmaria Ottolini. E’ insegnante e ha a lungo condotto importanti esperienze innovative insieme ai suoi colleghi e colleghe. In una scuola che è stata all’avanguardia in Italia nella peer education. Che è quella cosa per la quale i più grandi si occupano dei più piccoli e vi è cura costante dei gruppi di pari perché da che mondo è mondo si impara uno dall’altro. Gli sono sempre stato grato per il rigore con il quale ha mostrato come cambiare a scuola sia possibile e utilissimo. Ora mi manda questa bellissima cosa. E la metto qui.

Aeroporto di Amburgo, primo pomeriggio del 23 settembre 2000. Sono di fianco alla scala mobile che sale nell’area di imbarco mentre aspetto le quattro ragazze della mia scuola che ho accompagnato nella settimana precedente ad Emden per un workshop internazionale (Germania, Austria, Italia, Russia) sulla figura dell’educatore svoltosi presso il locale l’Istituto professionale (Berufsbildende Schulen I).



Le ragazze sono in giro per l’aeroporto a far fuori gli ultimi marchi prima di imbarcarsi. Sfoglio un giornale mentre curo tre carrelli con i nostri bagagli. La coda dell’occhio mi fa percepire uno strano movimento nell’area alle mie spalle. Alzo lo sguardo e osservo uno strano turista – tra i 60 e i 65 anni - che, proprio di fronte a me e alla scala mobile, va a ad appoggiarsi alla balaustra delle scale che scendono al piano inferiore.
Ha l’aria tranquilla di chi sa che deve aspettare e passa il tempo ad osservare il via vai. Mi colpisce il suo abbigliamento che era certo quello del turista (forse un inglese, penso) ma con qualche incongruenza. Un po’ trasandato ma a suo modo di un’eleganza vecchia maniera. Pantaloni di velluto, scarpe larghe e scamosciate, un soprabito un po’ fuori stagione visto che quel fine settembre era ancora abbastanza caldo e un cappello di feltro grezzo, mi pare di ricordare verde. Al suo fianco, appoggiata, una borsa di plastica larga ed alta che sembra contenere uno o due pacchi.
Ad un certo punto, ero ritornato al mio giornale, lo intravedo muoversi celermente ma senza scomporsi nel correre. All’inizio non capisco, la borsa era rimasta al suo posto e vedo il nostro “turista” prendere un carrello abbandonato a fianco della scala mobile e sistemarlo nelle guide dell’apposito deposito. Naturalmente recuperando la moneta di due marchi.
Allora capisco. Il nostro è una sorta di “barbone snob”. Quello è il lavoro che si è inventato: recuperare i carrelli abbandonati e riportarli a loro posto con un guadagno netto di due marchi a carrello; e magari il recupero di qualche oggetto, rivista od altro dimenticati. Nella mezzora che segue sono altri quattro o cinque i carrelli abbandonati da viaggiatori frettolosi di imbarcarsi. Faccio mentalmente un rapido calcolo e penso che se la media è quella, il nostro può guadagnarsi almeno dai 10 ai 20 marchi all’ora.
Quando tornano le quattro ragazze, senza dare a vedere, spiego loro l’attività del nostro dirimpettaio. Decidiamo di abbandonare a nostra volta i tre carrelli, tanto le monete in banca non le cambiano e tra poco più di un anno si sarebbe passati all’euro.
Mentre stiamo salendo sulla scala mobile mi volto ed incrocio lo sguardo del nostro; ha un mezzo sorriso d’intesa. Ci siamo capiti.

29 giugno 2010. La giunta leghista di Montecchio Maggiore (già famoso per il caso della mensa comunale che aveva tenuto a pane e acqua i bambini non in regola con la retta) approva il regolamento di polizia urbana che all’art. 34, intitolato « Divieto dell’esercizio del mestiere girovago del cosiddetto “accompagnatore di carrelli della spesa” »– così recita: “È vietato su tutto il territorio comunale l’esercizio del mestiere girovago di “accompagnatore di carrelli della spesa”. Chiunque viola le disposizioni del presente articolo è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria, da euro 25,00 ad euro 500,00.”

Leggendo questa notizia la prima cosa che ho pensato è che alla definizione di Carlo M. Cipolla secondo cui gli stupidi sono coloro che riescono a recar danno contemporaneamente a se stessi e agli altri si potrebbe anche aggiungere: coloro che non si rendono conto del ridicolo del loro agire.
Mi è poi visivamente tornato alla mente l’Accompagnatore di carrelli di Amburgo. Nella scala di Cipolla è certamente un rappresentante dell’intelligenza umana: capace di perseguire allo stesso tempo il vantaggio proprio e quello altrui. Mettere al loro posto carrelli che sarebbero di intralcio ai viaggiatori traendone un non insignificante guadagno.
Chissà se è ancora al suo posto? Mi piace pensare che la sua scelta dell’aeroporto non fosse casuale o solo frutto dell’ingegno, ma una sorta di preparazione al suo grande viaggio. Me lo immagino in qualche paese esotico a godersi, con meritato riposo, i marchi (e poi gli euro) accumulati carrello dopo carrello. Alla faccia degli stupidi intolleranti che non sanno apprezzare varietà e diversità dell’essere e dell’agire umano.