21 aprile, 2010

L'insegnante bloccato in trincea


Oggi è uscito un mio pezzo sulla prima pagina de La Stampa. E' sulla questione sciagurata delle graduatorie regionali per gli insegnanti. Una questione che tocca i diritti costituzionali, ma anche l'organizzazione pratica della scuola e la vita degli insegnanti.
L'articolo ha avviato una discussione, per esempio stamattina durante la rassegna di RadioTre. Analoghe posizioni ho espresso in un’intervista per Il Mattino. Su Radio24 ho continuato a difendere queste posizioni – in un confronto con il senatore della Lega Nord che sta proponendo, con disegno di legge, la regionalizzazione del reclutamento dei docenti della scuola pubblica italiana di ogni ordine e grado.

L’idea del Ministro Mariastella Gelmini di rendere strettamente regionali le graduatorie degli insegnanti risulta contraria al parere del Consiglio di Stato che si è già espresso a favore del carattere nazionale della nostra comunità scolastica, sulla base degli articoli 3, 4, 16, 51 e 97 della Costituzione.
Ma, ben al di là del diritto costituzionale, l’idea di limitare gli insegnanti a svolgere il proprio compito solo entro la propria regione appare difficilmente praticabile. In primis per come è la vita reale delle persone e, poi, perché è in contrasto con i principi stessi sui quali si fonda l’Europa unita. Infatti, se questa proposta passasse, il giovane docente di matematica che insegna a Castelfranco Veneto e si sposa con la collega di Brescia o di Mantova o di Bari o di Catania, non può cambiare sede. E la docente di latino di Trento che ha il padre malato di Alzheimer che vive nella confinante provincia di Verona, non può chiedere l’avvicinamento. L’Unione Europea, poi, si fonda sulla libertà di andare e venire delle persone e delle cose. E così io, insegnante elementare con buone competenze di lingua inglese - se seguo le norme per l’immissione nelle scuole britanniche - posso andare a insegnare a Leeds o a Oxford. E il mio amico docente di genetica a Edimburgo ha deciso di venire a insegnare a Napoli, sua città d’adozione spirituale, con grande soddisfazione dei suoi studenti partenopei. E noi tutti mandiamo i figli a fare l’Erasmus - in giro per la casa comune europea – perché, insieme alle lingue, promuoviamo, nei nostri ragazzi, questa santa libertà di muoversi, fare esperienze nel mondo e di cambiare vita se lo si vuole. E’ un grande lascito del pensiero liberale. Una cosa meravigliosa, che apre gli orizzonti del sapere e le possibilità della vita.
Alcuni sostengono che le scuole del Sud e del Nord hanno problemi diversi e dunque che bisogna creare comparti distinti e separati. E’ in parte vero che hanno problemi diversi. Perché pesano sulle scuole del Mezzogiorno pubbliche amministrazioni meno capaci ma soprattutto incide la povertà, che è molto maggiore. E che è una povertà materiale e culturale insieme. Infatti nelle regioni meridionali risiedono il 65,3 percento delle famiglie povere. In termini assoluti le famiglie povere residenti nel Mezzogiorno sono 1.713.000, tre volte di più di quelle residenti nel Nord, che ammontano a 595.000. E i bambini e ragazzi poveri sono, in Italia, 1.809.000, il 17% del totale. Ma nel Sud risiede il 70% dei minori poveri: 1.245.000. Fare scuola a Sud è spesso più difficile. Che facciamo? Negli Stati Uniti, paese federale per eccellenza, gli squilibri nei tassi di esclusione precoce dovuti a maggiore povertà e a analfabetismo funzionale delle famiglie non spingono ad abbandonare le zone più difficili ma al contrario a occuparsi delle zone povere come parte del patto nazionale, unitario, perché la cultura è una, indivisibile. E sia Bush che Obama hanno promosso, con l’unanimità di Senato e Congresso, programmi tesi a fare spostare i docenti migliori, con forti incentivi, per sostenere lo sforzo comune. E’ una tradizione che, del resto, ci appartiene. Migliaia di docenti del Nord sono partiti per il Mezzogiorno subito dopo l’Unità d’Italia. E migliaia di docenti e dirigenti di origine meridionale hanno costituito l’ossatura delle scuole di tutta Italia prima, durante e dopo il fascismo.
Fa bene il Ministro a richiamare i temi della didattica e del merito. Ma faccia attenzione: sono grandi temi nazionali. Confonderli con la regionalizzazione dei docenti non aiuta ad affrontarli. Perché, ben oltre le differenze regionali e locali, la scuola, ovunque, si sta oggi misurando con almeno due radicali mutazioni che sono comuni a tutto lo scenario italiano. La prima mutazione è data dal fatto che è saltato il patto implicito tra scuola e famiglia. I professori di oggi non possono più dare per scontato l’accordo con i genitori dei propri alunni com’era un tempo. Questa rottura del patto tra adulti ha molte cause. Contano enormemente i modelli veicolati dall’insieme della società e dai media. I valori dei genitori non si formano più entro comunità culturalmente omogenee bensì in modi molto differenziati. E la società italiana sta conoscendo anche una crisi drammatica nel presidio delle procedure, delle regole e del limite che sono cose fondamentali per poter educare. Ci vuole un grande lavoro per rifondare tale patto. La seconda mutazione sta nel fatto che la scuola non è più il solo luogo dove si accede alle informazioni e ai modi di apprendere. Tutte le discipline sono, infatti, parte della rete e sono accessibili in mille forme, rapidamente. Con la possibilità ulteriore di essere manipolate, variate, confuse, confrontate. Lo stesso modo di imparare – il funzionamento del cervello umano – viene chiamato in causa: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita, ecc. Questa è la prima generazione di docenti che ha perso il monopolio delle conoscenze e dei mezzi per trasmetterle. E che deve insegnare a distinguere, scegliere, confrontare, in mezzo a un mare di informazioni complesse e contraddittorie, valutando il sapere e le competenze che i propri alunni hanno acquisito in moltissimi modi, anche lontano dalla scuola e diversi da come loro hanno imparato. Ci vuole una semplificazione della scuola e una contemporanea capacità di affrontare questa crescente complessità.
Così, si tratta sì di affrontare il tema del sostegno ai gruppi docenti – non basta promuovere i singoli - in termini meritocratici ma con gli occhi rivolti a cosa è insegnare e imparare oggi. Ma questa gigantesca sfida educativa – che ha un profondo senso culturale e politico per la modernizzazione del Paese - vale a Messina come a Napoli, ad Aosta come a Milano o Torino o Bologna o Venezia o Reggio Calabria. E, per vincerla, ci vuole un esercito civile unitario ben preparato e nuovamente motivato e non delle ridotte locali chiuse ciascuna nel proprio particolare.

15 aprile, 2010

La destra vincerà a Napoli a meno che…

La fine del cosidetto ciclo bassoliniano ha portato via dalle urna molte migliaia di elettori di centro-sinistra. La destra può oggi tranquillamente vincere a Napoli. E se il Pd & company fanno quel che stanno facendo, vincerà. Norberto su ciò fa una puntualissima analisi, che invito a leggere.
Dunque la destra sta per andare a Palazzo San Giacomo. A meno che ora, subito ci sia una rottura con il notabilato di centro-sinistra che ci ha portato fin qui - o con le primarie o in altro modo. A meno che si individuino 4 temi chiave – lotta alla camorra e sicurezza, salute (che comprende aria, acqua e rifiuti), macchina burocratica, sviluppo e misure locali per l’inclusione sociale – e si facciano poche proposte chiare che rispondano alla depressione dilagante ridando ambizione e voglia di fare alla città. Con una campagna elettorale dura con chi ha governato in questi anni, capace di far sognare, concreta e lunga. Che costringa anche gli apparati di partito a misurarsi con un moto che sia esterno alle sue logiche e ai suoi linguaggi. Solo se avviene questo, se nel farlo potranno e sapranno emergere uomini e donne credibili perché nuovi, che facciano squadra intorno a un candidato sindaco che dia speranza, si potrà, forse, riattivare chi si è allontanato dal voto e provare a invertire la tendenza.

13 aprile, 2010

Polveri sottili in aumento a Napoli



Pm10 - polveri sottili – in aumento in città. Si parla spesso della Milano della Moratti a tal proposito. E si fa bene.
Ma questo sobrio ragionare di Francesco mette ancora una volta il dito nella piaga di una mancata politica ambientale lungo il corso dei 20 anni di governo di centro-sinistra nella nostra città.
In una politica decente questo sarebbe il primo focus di una seria campagna elettorale per sindaco.
La salute nella città di Napoli: “a prima cosa è a salute” o no? Come si è arrivati a ciò? Cosa si può fare, rapidamente e con realismo?

12 aprile, 2010

Antiche minacce soffiano in forme nuove. Per arginarle ci vuole una nuova politica.

Questa crisi si sta prolungando in una lunga stagnazione. E sta producendo crescente esclusione sociale e perciò grandi frustrazioni nelle nuove generazione soprattutto delle tante periferie urbane e – come fu dopo il 1929 - anche mostri. Così, venti antichi, già visti eppure rinnovati soffiano da oriente, minacciosi. Di questo bisognerà pur riflettere anche quando si parla dei nostri risultati elettorali. In Polonia sono ore di lutto nazionale e cresce anche la voglia di votare a destra alle elezioni presidenziali perché questo tipo di consenso lì trae nuova linfa dal perdurare della crisi e, ora, dalla martirizzazione del presidente morto nell’incidente aereo, Lech Kaczynski, notoriamente omofobo e populista.Ma nella vicina Ungheria la deriva xenofoba e nazionalista è ancor più pericolosa. Lo Jobbik, il movimento dell’ultradestra di ispirazione fascista e antisemita, è entrato per la prima volta in Parlamento, ottenendo il 16,7 % di consensi. In parte neutralizzati dalla vittoria della destra moderata. Ma comunque un dato moltoinquietante, che risulta in ulteriore crescita rispetto al clamoroso 14,77 % ottenuto alle ultime Europee. Lo Jobbik attacca gli ebrei. Crea odio omofobo e aggredisce anche fisicamente gli omosessuali. Vuole cacciare subito i rom e intanto organizza concretamente la violenza contro di loro.
Nell’Ungheria questa tradizione apertamente fascista è forte. L’ammiraglio Horthy negli anni trenta condusse il paese all’alleanza con l’Asse. E durante la II guerra mondiale furono deportati oltre 600 mila ebrei e molte migliaia di rom e sinti che vivevano da secoli in Ungheria. A farlo, insieme ai nazisti, furono le croci frecciate magiare, unità paramilitari di ispirazione cristiana fanatica, spesso fatte da giovanissimi provenienti dalle classi popolari. E’ a questi criminali che si oppose, tra gli altri, Giorgio Perlasca.

Il movimento Jobbik, fortemente revisionista, si ispira anche alle croci frecciate. Le retoriche sono antiche, in modo impressionante. Ma le azioni sono nuove. Parlano di internet. Di identità di gruppo tra i giovani. Di attività radicate nelle periferie. Di rituali con un dna antico ma forme innovative. Nato nel 2002 come Associazione dei Giovani di Estrema Destra per iniziativa di alcuni studenti universitari cattolici e protestanti, lo Jobbik è diventato un partito nell’ottobre del 2003. Grazie ad un programma elettorale farcito di slogan che enfatizzano le radici cristiane del paese e demonizzano tutti coloro che “appartengono a razze inferiori o sono fuori dalla tradizione cristiana”, è riuscito in breve tempo a catalizzare un numero crescente di consensi. Merito anche del forte radicamento ancora una volta di una struttura paramilitare (la Magyar Garda) più volte sotto i riflettori per episodi di violenza e che esercita una fascinazione soprattutto nei giovanissimi e nelle aree dell’esclusione sociale. Così Gabon Vona, il capo di Jobbik, al termine degli scrutini ha annunciato con voce trionfante: "Entrerò in Parlamento con l'uniforme della Garda".
Un elemento che distingue ulteriormente lo Jobbik dagli altri movimenti politici ungheresi è lo stile comunicativo volgare e violentissimo. In testa alla classifica dei politici più volgari del nostro continente spicca la bionda avvocatessa Krisztina Morvai, deputata al Parlamento Europeo ed elemento di punta del partito. Subito dopo essere stata eletta confidò ai giornalisti quale fosse il suo grande sogno: "Sarei contenta se coloro che si definiscono fieri ebrei ungheresi se ne andassero a giocherellare con i loro piccoli peni circoncisi… la gente come loro è abituata a vedere la gente come noi mettersi sull’attenti ogni volta che loro danno sfogo alle loro flatulenze. Dovranno rendersi conto che tutto questo è finito. Abbiamo rialzato la testa e ci riprenderemo il nostro paese".

Frasi simili sono uscite in passato dalle voci di estremisti in questo nostro continente. E si disse che erano una minoranza. E’ stato così negli anni trenta e quaranta dello scorso secolo. E’ stato così anche dopo il disfacimento della Jugoslavia. E ogni volta le parole sono diventate fatti.
E’ ora di riprendere la via per arginare i mostri in agguato. ma per farlo non bastano davvero le retoriche antifasciste ormai stantie. E’ urgente un dibattito pubblico serio sul come rilanciare politiche di inclusione efficaci, lavoro educativo vero nei territori svantaggiati, promozione di inclusione culturale e sociale che siano libere dagli stereotipi inconcludenti che non convincono più soprattutto i giovani. Perché le questioni vere sono, ad un tempo, la legittima ricerca di appartenenze che diano senso alla quotidianità e che perciò siano identitarie-valoriali ma anche capaci di fare cose, trasformare i propri luoghi, richiedere risultati nella vita quotidiana e ottenerli, a partire da lavoro, reddito, riconoscimento e allargamento di saperi, abitazioni a prezzo possibile per chi è giovane, crediti veri per aprire imprese, ecc. Le diatribe dei notabilati delle compagini di centro-sinistra e di sinistra italiane sono distanti anni luce da tutto questo. E infatti hanno già regalato intere popolazioni alla lega. Ma può succedere anche di peggio. La vecchia politica è davvero diventata una pericolosa zavorra. Bisogna andare oltre. Ed è urgente farlo.

Nella foto: i corpi di pazienti e medici dell’ospedale ebraico di via Maros, trucidati dalle croci frecciate ungheresi, guidate dal monaco cattolico nazista Andreas Kun, Budapest 11/01/1945.

11 aprile, 2010

Almeno provare a muoversi

Oltre che di lavoro, di pranzi pasquali e di depressione per la tornata elettorale, mi sono occupato, in questi giorni, di numeri di votanti e voti a Napoli. Votanti in ulteriore calo e maggiore calo ancora che nel resto d’Italia. Votanti che vedono la sconfitta a Napoli città dove, però, il centro-sinistra continua nonostante la passima amministrazione a conservare consensi.
Credo che, prima della resa totale a una sconfitta ulteriore, annunciata e deprimentissima, si debba tentare qualcosa. Muoversi. Perciò – e con quel minimo di realistico buon senso politico che ci vuole, credo – ho scritto l’articolo che è su Repubblica Napoli di oggi e che riporto interamente qui sotto. Qualcuno risponderà? Mah…


Una lunga stagione politica sta finendo per usura e esaurimento. Come per una disidratazione, per lenta consunzione metabolica. E non è solo questione di Bassolino. L’esperienza amministrativa – il governare le cose per il bene dei cittadini - di un’intera generazione di politici locali si è conclusa con il bilancio in rosso. Infatti, dopo quindici anni di governo regionale, provinciale e della città, siamo più poveri, abbiamo speso poco e male gli ultimi fondi europei che avremo, la macchina amministrativa non è mai stata riformata, non si è visto alcun piano di riconversione post-industriale, i giovani non si formano e emigrano, la gestione del territorio – dai rifiuti agli assetti urbanistici – sono restati privi di un’idea che avesse gambe su cui marciare. Le cose nuove, i miglioramenti concreti si contano sulle dita di una sola mano. E ogni volta che lo facciamo davanti ai nostri figli, appariamo sempre più patetici. Un venticinquenne si guarda intorno e non può enumerare una sola cosa di valore che ha visto sorgere e consolidarsi in questi anni. E può rinfacciare a noi, suoi genitori, di avergli consegnato un luogo peggiore di quello da noi ricevuto. Sono dati di fatto. Crudi. Che non possono essere smentiti. E non va certo meglio sul piano della politica: la famosa “messa in sicurezza” del Pd e delle sue alleanze semplicemente non vi è stata e la rappresentanza è lontana anni luce dai cittadini.
Così, in un anno, il centro-sinistra ha perso la Provincia di Napoli e la regione Campania. La casa del partito democratico e anche il recinto delle potenziali alleanze sono in fiamme.
Ma la consapevolezza della situazione da parte del notabilato di centro-sinistra non c’è. E mentre si rischia di perdere anche il comune di Napoli, questi strani individui continuano ad aggirarsi ringhiando litigiosamente gli uni contro gli altri. E gli oggetti delle inconcludenti contese sono ora la segreteria provinciale del partito democratico ora gli assetti di questa o quella compagine della coalizione.
Nessuno ma proprio nessuno - che non faccia parte di quelle poche centinaia di persone che si nutrono solo di queste cose – può umanamente capire di cosa si stia parlando. E’ facile profetizzare che così facendo la casa e il recinto andranno in cenere. E, intorno alle rovine, piccoli cani smagriti staranno a leccare le ferite a lungo o forse continueranno ad abbaiarsi nel nome di antiche dimenticate fedeltà o infedeltà.
Si può fare qualcosa? Sì. Si può. Ma ci vuole un po’ di santo coraggio. E uno scatto di intelligente orgoglio e di buon senso. Si convochino subito le primarie per le elezioni comunali. E siano “di coalizione”, con l’accordo sul come farle da parte di tutte le sue componenti. Al contempo si favorisca una riflessione autentica – un bilancio delle cose fatte e non fatte. I candidati si cimentino con il compito di indicare soluzioni realistiche ai problemi della città. E, in questa contesa, mostrino le capacità di leadership nuova che la città merita e forse possiede, nonostante tutto. E – una volta scelto il candidato sindaco – vi sia una moratoria che eviti i litigi e si sostenga chi ha vinto.
Si faccia, poi, una campagna elettorale che dia il tempo di fare conoscere candidato e proposte – pochissime e chiare. Una campagna che sia fortemente partecipativa, come quella di Nichi Vendola in Puglia. Centrata sulle cose da fare. Insieme ai cittadini.
Se si fa così - e se lo si fa senza ingombranti quanto inutili padrini di questo o quel candidato, con Antonio Bassolino che si gode l’indispensabile tempo di riposo e Rosa Russo Ierevolino che esce dalla scena in punta di piedi – forse il centro-sinistra di Napoli può aspirare a governare la nostra città. In modo finalmente e davvero nuovo. Altrimenti no.