01 giugno, 2010

Indignazione e angoscia

Sono, ad un tempo, fortemente indignato e molto angosciato per l’attacco della marina israeliana in acque internazionali contro chi portava qualche ristoro a Gaza. La responsabilità di quanto accaduto è di Israele e solo sua. E’ giusta l’indignazione. Sono azioni abiette. E non si tratta solo di errore militare. Forse a Israele le cose sono sfuggite di mano perché ormai non fa più politica; forse, invece, stava facendo politica e voleva tenere chiuse le “proximity talks”, le timide speranze che Obama cerca di rimettere in campo fornendo, intanto, un’occasione per una prima ri-partenza del buon senso. Comunque sia, quella che Israele sta mostrando è una politica abietta.

Abietta e anche miope. Infatti questa azione dice molto sul governo di Israele attuale. Vi sono forti critiche in Israele contro questo governo. E l’opposizione va sostenuta nella sua fatica. Ma è un governo che è stato votato. Come Berlusca da noi. E vi è un legame tra una maggioranza di una nazione, per quanto non schiacciante, che vede le cose così e gli atti di un governo. Così, non solo per la Palestina e per il Medio Oriente ma anche per Israele, Netanyahu è una vera iattura. Perché raccoglie il peggio del sentire miope e lo moltiplica, impedendo una prospettiva di pace. E crea presupposti seri per l’aggravarsidell’isolamento di Israele, il quale Israele - mentre danneggia i suoi vicini e porta strazio tra i palestinesi – così contribuisce a moltiplicare, al contempo, tutte le componenti estremiste del Medio Oriente. E dà ossigeno a chi non vuole Israele e basta, toglie possibilità e prospettive evolutive al quadro per lunghi anni a venire. Come dicevano i latini: “Quos Deus vult perdere, dementat prius”. Quando il Dio vuole perderti, per prima cosa ti rende folle.

So che c’è un’altra scuola di pensiero – quella che ritiene che Israele è questo e null’altro. Non la penso così. Non è tutto determinato sempre. E Israele è una società complicata e varia, con molta opposizione, anche non radicale. Fallimento, disastro, fiasco sono le parole ricorrenti sulle odierne pagine dei giornali israeliani. I punti di vista sono, certo, molteplici, spesso contrastanti ma su una cosa esperti e analisti concordano: non doveva finire in questo modo. Un´affermazione che sembra retorica quando si parla di vittime, morti e feriti ma che nasconde il problema del futuro di Israele e la sua legittimazione a usare la forza.Per esempio dalle colonne del moderato popolare Yediot Ahronot arriva la critica di Eitan Haber, noto giornalista israeliano ed esperto in questioni militari, che scrive "Israele ha sempre una sola soluzione a ogni problema: la forza, l'esercito… Ci saranno quelli che diranno `lo stato non deve esitare. Ora avranno ancora più paura di noi´. Chi pensa in questo modo e chi cede a questa tentazione vive in un epoca passata; conviene che si svegli da questi sogni devianti. Noi viviamo nel 2010 e la risposta dell´esercito di ieri mattina appartiene al secolo scorso".
Vi sono poi i difensori di Israele sempre e comunque. Assumono la posizione speculare a quella anti-israeliana “a prescindere”. Non la penso nemmeno così. Perciò: su quella nave vi erano – legittimamente - persone di pace insieme a persone non necessariamente tali. E avranno pure brandito qualche mazza ferrata per rabbia. Ma non è questa la vera questione. La vera questione è che si è trattato di un’aggressione ancora una volta sproporzionata, inaccettabile.

Ma, più ancora, la vera questione è che il popolo palestinese deve avere la sua terra e l’embargo di Gaza è intollerabile. E questa vera questione deve fare dire che - nonostante errori palestinesi nelle passate tornate della storia negoziale e nonostante le arroganze di Israele o quanto altro - la Palestina deve avere un suo stato vero e va imposto a Israele di rimettersi a un tavolo di trattativa che sia tale.

Poi non sono ingenuo. Non tutto dipende da Israele. Anche se è utile richiamare il principio secondo il quale chi è più forte deve essere colui che si muove per primo con generosità. Vi sono nemici della pace nel mondo arabo, che da decenni usano i palestinesi senza alcuno scrupolo, per nascondere e rimandare le possibili soluzioni delle contraddizioni e delle pene, sociali e civili, dentro le proprie società. I conflitti verso l’esterno da sempre servono a questo. E tali forze, oggi, sono di fatto convergenti con quanto fa Netanyahu.

Sono contro l’embargo a Gaza. E, al contempo, non ho alcuna simpatia per Hamas. So che la sua ascesa è dovuta ad errori e corruttele cresciute sotto Arafat e presenti in Fatah e in altri (ma anche all’iniziale sostegno della stessa Israele che la ha foraggiata contro l’OLP). Non ho alcuna simpatia per Hamas perché è un integralismo religioso che ripudia la cultura dei diritti e persegue finalità politiche su base messianica. E la penso così anche se so che vi è una vera azione di sviluppo locale che Hamas propone e che spiega il suo radicamento.

Così, come Netanyahu per Israele, penso che anche Hamas sia una iattura perché la sua miopia politica impedisce al popolo palestinese di avere la prospettiva che merita. La questione delle classi dirigenti – come la chiamava Gramsci – è parte della questione palestinese e così come non tutto di Israele dipende dall’estremismo degli altri nell’area, non tutto della Palestina dipende dall’oppressione di Israele.

Il mondo e questo tempo sono complessi. Ma resta il fatto che avvengono tristi e terribili cose quando la politica è povera di speranza e generosità, quando manca una politica che sappia farsi proposta, intelligenza nell’agire. E la politica è povera di speranza e di intelligenza nell’agire quando non vuole o non sa vedere l’altro da sé e non sa, perciò, individuare i legami e le prospettive che, sia pur faticosamente, possano mettere insieme il sé e l’altro da sé. Oltre l’indignazione, è questo che angoscia.

1 commento:

Pietro Spina ha detto...

Di solito non scrivo commenti solo per dire che sono d'accordo, ma stavolta forse serve a qualcosa. Forse, un pochino, serve far sentire che i ragionamenti un po' più articolati non sono destinati a restare isolati, ma possono diventare coscienza condivisa. Io penso, in generale, che una nuova politica dovrebbe partire proprio da questo, dal riuscire a condividere e creare consenso su discorsi articolati, complessi, abbandonando la facile tentazione degli slogan e della retorica.