30 dicembre, 2011

Giro di boa?

Care e cari maestri e professori,

gli anni passati a insegnare in tre diversi continenti, ma in particolare gli ultimi tre, trascorsi in giro per l’Italia, osservando, ascoltando e confrontandomi con migliaia di colleghi di ogni ordine di scuole, scuole dell’agio e del disagio, scuole per chi a scuola non va più, licei, scuole di base e centri di formazione professionale, mi hanno consegnato una sorta di carta geografica, sicuramente approssimata per difetto, ma capace, credo, di descrivere il territorio della “scuola italiana”, dove si aggira, si impegna, si misura la figura del docente.
Un po’ come Caboto, credo che questa mia mappa, per quanto migliorabile, possa guidarmi nella nuova rotta che ho intrapreso come Sottosegretario all’istruzione.
Quando ci si ferma a parlare con le donne e gli uomini che “fanno la scuola”, tra le mille differenze e le tante somiglianze, nel cahier des doléances emerge spesso la voce profonda e affaticata di noi docenti: esausti per le tante, troppe cose che si pretendono da noi. Essere psicologi, sociologi, assistenti sociali, consulenti dei genitori. Edotti di organizzazione, di didattica, della disciplina e degli spazi tra discipline. Esperti del computer e dotati di capacità manageriali. Preparati nelle nostre materie, ma attenti al territorio. Una stanchezza che fa emergere la velata nostalgia per un tempo passato, in cui fare l’insegnante era più semplice, rassicurante, soddisfacente.
Quando la nostra professionalità si fondava sulla padronanza di contenuti disciplinari molto stabili e su alcune competenze pedagogiche; su certezza del tempo (l’ora) e dello spazio (l’aula).
E’ questa la crisi d’identità emersa di fronte ai cambiamenti e alle nuove incessanti richieste educative che ricadono sulla scuola pubblica. Un’instabilità accresciuta ed aggravata dalla sempre maggiore solitudine sociale degli insegnanti, dalla mancanza di un ruolo pubblicamente riconosciuto. E dal disprezzo di alcuni “soloni” che strombazzano contro di noi senza essere mai stati in classe. E’ questa la sofferenza del nostro lavoro, nel nostro tempo attuale. Tutto questo sento che un ministro, un sottosegretario, lo debbano ricordare. Innanzitutto per dire, ripetere “grazie” a chi fa questo lavoro. Che è bello, vario, prezioso e però poco riconosciuto e mal pagato.
Ma all’inizio di questo mio incarico e all’avvicinarsi del nuovo anno, mi sento di proporre a tutti noi anche un capovolgimento dell’ottica da cui osservare le trasformazioni.
La complessità sempre maggiore delle competenze e delle conoscenze, la necessità di ridefinire e forse allargare il ruolo svolto dall’istruzione e quindi dall’insegnamento, non segnano la decadenza della nostra professione, ma la sua rigenerazione, la sua inevitabile evoluzione.
Le difficoltà che ci investono, indicano dove siamo arrivati e dove dobbiamo andare. Ed è proprio sulla rivendicazione della complessità del mestiere di insegnare che dobbiamo basare la nostra richiesta di riconoscimento sociale, e non su una malinconica nostalgia del tempo passato.
La complessità su cui dobbiamo fondarci non è tanto quella di una scuola sempre più stretta tra le complicazioni organizzative e gestionali, tra nuove materie e curricula sempre più articolati. E’ la complessità delle fasi evolutive dell’infanzia e dell’adolescenza che ci troviamo davanti, la complessità crescente del sapere che ormai sfugge ai classici confini disciplinari, la complessità dei nuovi linguaggi e delle nuove domande sociali, la difficoltà nel riconoscere sempre negli studenti la capacità di trasmetterci a loro volta saperi ed esperienze.
Tutta questa complessità rende l’insegnamento una professione fondante dell’epoca in cui viviamo. Dobbiamo esserne fieri e consapevoli. E dobbiamo imparare.
L’augurio che rivolgo a tutti noi per l’anno che viene è di rinnovare il nostro impegno per la scuola pubblica. Innanzitutto per rendere più vivibile il lavoro quotidiano degli insegnanti. Alleggerendo le scuole da troppe complicazioni burocratiche, dando finalmente fiducia ad un’autonomia progettuale delle scuole e dei gruppi docenti, garantendo un po’ di stabilità in più al sistema nel suo complesso.
In secondo luogo, auguro a voi tutti di sentirvi sostenuti nella presa in carico della crisi educativa che si riverbera giorno dopo giorno nella scuola. E auguro a noi istituzioni di saper realizzare e trasmettere questo sostegno pieno alla professione docente, alla sua capacità di rigenerarsi, trasformarsi insieme al mondo. E’ evidente che non è un intento facile e che i soldi pubblici per operare sono molto pochi .
C’è da augurarsi di non ricevere dal nuovo anno nuovi sogni irrealizzabili, ma conquiste possibili e concrete sì. Seppure in una contingenza complicata come quella attuale, auguro di cuore a tutti noi un realistico giro di boa.


27 dicembre, 2011

Napoli fra degrado e riscatto: dialogo con Giorgio Bocca

È morto Giorgio Bocca. Partigiano. E azionista. Come mio padre. E cuneese. Con un’idea del Sud forse utilmente impietosa ma ferma nel tempo. E sovente incapace di cogliere le promesse che pure nel Sud resistono, provano, fanno…
Una volta con lui ho avuto un dialogo nel merito, che proprio oggi viene ripreso da Micromega, che lo pubblicò. Ero nel bel mezzo della campagna elettorale per sindaco di Napoli. Era uscito il suo ultimo libro sul Sud, Napoli siamo noi, e la “società civile” si divideva: ha ragione, ha torto.
Oggi, nel ricordarne la grande dirittura, mi piace segnalare questo nostro dialogo. Perché è grazie alla nettezza della posizione di Bocca che si è potuto parlar chiaro tra noi.

21 dicembre, 2011

La terza buona notizia

Le prime reazioni alla proposta di riaprire i concorsi per docenti dopo 13 anni di blocco mi sembrano complessivamente buone.
Nel merito ho risposto ieri alle domande de L’Unità. Certo, sono comprensibili le preoccupazioni di chi lavora in modo precario da tanti anni, in attesa del passaggio in ruolo. Come è comprensibile la cautela sulle cifre, su cui è impossibile fare stime accurate prima che i tecnici abbiano studiato gli effetti delle nuove norme sul pensionamento.
Resta il fatto che il mondo della scuola sente con forza la necessità di dare accesso all’insegnamento a una nuova generazione. Anche nella vita capita spesso di dover tenere insieme due principi. Non per rispettare chissà quale equilibrio, ma perché in cattedra serve sia l’esperienza, sia le energie nuove. Sia la tradizione pedagogica, sia una nuova missione educativa adatta al nostro tempo. Sia carta e penna, sia computer e lavagne multimediali.
Dobbiamo anche pensare a chi ha subito anni di precariato, suo malgrado. Sono decine di migliaia di insegnanti che hanno maturato pratica ed esperienza anche in contesti difficili, bisogna tenerne conto. Per questo la metà dei posti disponibili verrà coperta dalle Graduatorie ad esaurimento. L’orizzonte a cui guardare è la stabilità sia per i docenti sia per i ragazzi. La formazione e l’aggiornamento. Non vogliamo creare false speranze o dare inizio al balletto delle cifre sui posti disponibili: il mondo della scuola è un mondo complesso e adulto. Sa quanto sia difficile oggi rimettere in moto il sistema. Ma è almeno altrettanto necessario.
I nuovi concorsi sono la terza buona notizia in pochi giorni: le altre due sono lampanti, perché per ora non si parla più di tagli. Anzi. Con il Piano Coesione si recuperano fondi per l’edilizia scolastica e la lotta alla dispersione. Proprio domani vado a parlarne con gli assessori campani.

19 dicembre, 2011

Si comincia da qui

“Aiutami a essere me stesso”. Secondo Alessandro D’Avenia, è questo che i ragazzi chiedono ogni giorno ai propri insegnanti. Essere adulti di riferimento senza diventare mai degli amici. Senza mai giudizi sprezzanti, saper ascoltare e presidiare il limite. Ne ho discusso in questa intervista, dove però ho voluto ribadire quanti insegnanti siano guide competenti per i loro studenti. È giusto riconoscerlo, perché chi ogni mattina si sveglia, e per uno stipendio poco superiore a quello di un operaio, si occupa dei nostri figli in un contesto mutato, molto più complesso che nel passato, merita un riconoscimento. Ci stiamo lavorando, anche se forse non sarà possibile un aumento di stipendio, non subito. E stiamo lavorando per portare la scuola nell’era contemporanea. Tutte le più importanti indagini sul confronto tra i risultati scolastici in Italia e in Europa mettono in evidenza i divari preoccupanti tra Nord e Sud, e tra scuola e scuola. Sono queste differenze troppo forti, le opportunità diseguali dei nostri ragazzi a rallentare tutto il sistema e a creare ingiustificabili discriminazioni. Il  Piano Azione e Coesione si occupa anche di questo: l’istruzione, il suo primo capitolo, ha un posto centrale. Si prevede quasi un miliardo di nuovi finanziamenti che si sommano a due miliardi di fondi europei non ancora spesi dalle quattro Regioni del Sud. Il Piano si prefigge di fornire computer collegati a Internet e lavagne multimediali nel 54% delle scuole del Sud.  Riqualificare gli edifici scolastici nel 43%. Innalzare i livelli dell’apprendimento dei ragazzi con i risultati scolastici meno soddisfacenti. Promuovere e sostenere i percorsi formativi che limitano e prevengono la dispersione scolastica.
Queste non sono belle parole, ma investimenti concreti sulla scuola pubblica. Sono segni meno, che diventano segni più. Più risorse per la scuola, più fiducia nel sistema e nei professori, più inclusione e opportunità per i ragazzi. E’ da qui che si comincia.

16 dicembre, 2011

Pensare di più

Veniamo da anni orribili, per quanto riguarda fatti, linguaggi e messaggi di chiusura, odio e paura per gli altri. Sì, gli altri. Perché siamo tutti uguali e, per fortuna, diversi. Eppure pare che ce ne siamo dimenticati. Che abbiamo digerito senza tanti problemi le immagini dei barconi a fondo a largo di Lampedusa, le notizie di pestaggi, caccia alle streghe contro immigrati e rom nelle nostre città- l’ultima di queste proprio in questi giorni, a Torino (due anni e mezzo fa, a Ponticelli) . Pensando a quel che è accaduto a Firenze, mi viene in mente che ha ragione Adriano Sofri quando chiede di non appellarci alla follia per spiegare i fatti. Nell’essere contro gli altri in modo estremo, certo, c’è sempre un “tratto di follia”- Una follia specifica- la paranoia. La follia non può essere negata, ma non aiuta a capire, a guardare oltre la superficie, a ragionare sul collettivo, sulla comunità in cui matura e poi esplode il gesto tremendo.

Ed è troppo facile spiegare il tutto con le categorie degli estremi: estrema destra, in questo caso.
In Italia c’è un humus razzista che si riproduce tra antichi pregiudizi e una nuova paura di fronte alla crisi economica globale e anche al “senso di retrocessione” del Paese a confronto con i vicini europei. Alla paura più antica del mondo, quella del diverso da noi, si somma il senso di vertigine per una caduta che ci allontana dall’Europa e forse evoca dentro ciascuno il fantasma di essere schiacciati contro l’altra sponda del Mediterraneo, proprio là da dove arrivano i disperati e diversi. Le paure prendono strade loro proprie: “Non è che chi arriva cerca futuro e noi qui lo stiamo perdendo?”. I gesti tremendi sono frutto di follia e di perfidi convincimenti- ideologie malate e orrende. Che salgono come rigurgiti dal “secolo breve”. Ma sono anche nutriti dalla paura.

Casapound è espressione di questo humus: luoghi in cui condividere ed esprimere la predica fanatica e il linguaggio dell’odio, contro le banche, la finanza, le razze “nemiche”.Luoghi della paura e delle semplificazioni che servono a rimuoverla. Scrivevo qui della necessità di entrare nelle sedi di Casapound per aprire un dialogo, per quanto difficile. Chiedevo anche che quelle sedi si aprissero per moto proprio. Sono ancora convinto di quel che affermavo. Ma oggi Casapound deve scusarsi. Non basta dichiarare folle un loro militante oggi omicida, né incontrare la comunità senegalese, seppure sia un gesto apprezzabile. Sarebbe il momento per loro di aprire una seria riflessione sui linguaggi e sui messaggi. Accettare la complessità del mondo in cui viviamo. E aprire un dialogo, per quanto le posizioni di partenza siano lontane fra loro. Questo Paese ha bisogno di una riflessione profonda sui diritti dell’uomo e sui principi fondanti della comunità. Fatti come quello di Firenze non possono semplicemente essere archiviati con la retorica dei buoni sentimenti, nell’assenza della politica e nella semplificazione mediatica. Occorre pensare e discutere. Molto di più. Pensare a quali parole, occasioni, esperienze servono per guardare diversamente, sì agli altri, ma innanzitutto a noi stessi.

15 dicembre, 2011

Istantanee

Sanzioni disciplinari come per l’hockey: per punire un’infrazione grave, si va in panchina per un breve tempo in cui accogliere la regola e poi di nuovo in classe, dopo aver riflettuto e svolto qualche attività “riparatrice”. Lunedì il Corriere della Sera ha riportato quello che penso sulle sospensioni degli studenti. Se ne è parlato ben più ampiamente nel convegno della rete Context tenuto a Trento. Martedì Giorgio Israel mi risponde sul Giornale, definendo allarmanti le mie idee e dandomi del “tecno-buonista”. Credo nel ruolo educativo della sanzione, a patto che non sia una scusa comoda per restare a casa a dormire.

Poi in serata a Genova, per parlare con Cesare Moreno e Andrea Ranieri di lotta alla dispersione scolastica. Ho incontrato alcune maestre che qualche settimana fa hanno portato in salvo dall’acqua qualche centinaio di alunni: l’acqua scendeva da un lato dell’edificio, giù per le scale, dal tetto che dava sul lato del fiume in esondazione. Hanno messo i bimbi in fila. Controllato che le altre scale fossero sicure. E sono andati in cima all’ala opposta, ancora sicura. In pochissimi minuti. Sono situazioni complesse. Sono da valutare anche queste.

Gli insegnanti hanno tanti dubbi e poca fiducia nel Governo, ed è su questo che occorre fare subito qualcosa. Primo, cambiare il nostro linguaggio e abbandonare il nostro atteggiamento giudicante.
Davvero, non è facile far scuola tutti i giorni. Il rispetto per chi svolge un ruolo difficile, complesso e prezioso è la precondizione per poter migliorare questo bel lavoro.

Martedì notte ho partecipato a Crash, una trasmissione del canale educativo della Rai: abbiamo discusso di inclusione, integrazione e apprendimento. Su Rai Educational il video; le repliche in TV a partire da Domenica, ore 23 su Rai Storia.

Queste sono alcune fotografie istantanee degli ultimi giorni: tante cose affollano il mio nuovo incarico. Posso soltanto cercare di elencarle in modo breve e un po’ didascalico, quando trovo il tempo. E non dimenticare nessuno. Perché ogni aspetto di questa responsabilità ha la sua importanza.

11 dicembre, 2011

Muoversi

C'è da insistere sul cambiare, in meglio, la scuola.
La sua funzione pubblica è difendibile solo se migliora, se sta sull'agenda vera. Venerdì su questo è uscita una mia intervista a Repubblica Napoli. Sabato mattina sono stato con il ministro a Napoli, ho incontrato il presidente della Campania, Caldoro e il sindaco di Napoli, de Magistris.
Si è parlato di cose concrete: ottimizzare l'uso dei pochi soldi che ci sono per ricerca e università, rimettere in moto un po' di soldi per l'edilizia scolastica, partire da ciò che funziona e migliorarlo, aggredire povertà minorile e dispersione scolastica.
La strada non è facile ma è ora di muoversi, dare segnali, presto. Poi bisogna vigilare che le cose vengano attuate e sui tempi. Muoversi.

04 dicembre, 2011

Un po' sottosegretario

Eccomi qui finalmente. Scusate.

Ho letto tutti i vostri commenti, come ho letto gli sms e le email. Tanti, che mi sono arrivati in questi giorni di frenetico lavoro, inatteso e di cui mi sento onorato.
Grazie. capisco che le attese sono tante, anche io le ho. Ma la situazione è veramente difficile, il tempo è poco.
Capisco che bisogna concentrarsi sulle cose possibili e essenziali. Perché sotto sotto sono anche un po' sottosegretario.
Direi così: nessun ulteriore taglio al budget della scuola (se la manovra non lo intacca, sarà già un buon segnale), riprendere la strada dell'autonomia delle scuole e ascoltarle. E poi pensare ai ragazzi, a come e se imparano e a quelli che partono con meno.

Proverò a raccontare, di questo e anche di alcune cose divertenti che accadono a uno come me. Ancora grazie

21 novembre, 2011

Changes a Napoli


Changes Napoli si terrà domenica prossima, una occasione per riflettere sui cambiamenti possibili e la politica.
Ecco luogo, tempi, programma:

Domenica 27 novembre 2011
Palazzo Forum Universale delle Culture, ex asilo Filangeri, Vico Maffei 4 (nei pressi di S.Gregorio Armeno)


Questi i temi:
Il cambiamento è cultura: Ricerca, sapere, giovani: le fondamenta del cambiamento

Il cambiamento è partecipazione: Partiti, persone, cittadinanza: i soggetti del cambiamento

Il cambiamento è politica: Il mezzogiorno, l'Italia, le cose da fare: le leve del cambiamento

20 novembre, 2011

Giornata mondiale dei diritti dei bambini e adolescenti – appello a Monti

Oggi esce questo mio articolo-invito al nuovo governo, su La Stampa.

Il 20 novembre ricorre l’anniversario della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Che stabilisce che ogni persona che nasce deve avere uguali possibilità di riuscita nella vita. In queste giornate il Presidente del Consiglio, Mario Monti, ha più volte rivolto al Parlamento della Repubblica l’impegno di combattere iniquità e privilegi e di dedicare forti energie alle giovani generazioni del nostro Paese, a partire da chi sta peggio.

Milioni di persone – nella scuola, nelle famiglie, nel privato sociale – si occupano del benessere di bambini e adolescenti. Abbiamo posizioni politiche spesso divergenti. Ma condividiamo le stesse crescenti preoccupazioni. Innanzitutto per la piaga della povertà minorile in un grande paese qual è l’Italia.
Infatti l’Istat conta 2 milioni e 734 mila famiglie povere, l’11%, di cui, però, 1 milione e 829 mila nel Sud, il 23% delle famiglie meridionali. E se le persone povere sono 8 milioni e 272, pari al 13,8% della popolazione, i minori poveri sono 1 milione 876 mila, il 18,2% di tutti i minori! E, secondo i parametri dell’UE, i nostri bambini e ragazzi a rischio di povertà sono il 24,4% del totale, il tasso più elevato della UE. Tanto è vero che, in Italia, più fai figli e più questi rischiano la povertà: il 30,5% delle famiglie con tre o più figli è povera. E – anche qui – il 70 % dei bambini e adolescenti poveri vive nel Mezzogiorno: 1 milione 266 mila persone in crescita, un terzo dei minori di anni 18 che vivono nel nostro Sud. Sono cifre terribili.
I bambini e ragazzi poveri sono la parte più debole, meno protetta della popolazione; e non votano. Ogni bolletta e ogni piccola spesa imprevista che capita nelle loro case sono un dramma, l’affitto o il mutuo sono spesso a rischio, insieme al lavoro dei genitori, quasi sempre precario. E sono a rischio le ormai brevissime vacanze estive, i vocabolari per la scuola, le rate del computer, l’invito agli amichetti per il compleanno. Lo racconta sempre l’Istat. E i quartieri dove vivono hanno meno verde, palestre, piscine, tempo pieno a scuola, asili nido.
L’Italia ha, al contempo, una grande risorsa: le persone che si occupano di infanzia e adolescenza in difficoltà sono molto esperte, le meno inclini a buttarla in protesta e le meno litigiose. Perché devono poter aiutare. Perché sono il front office di chi se la passa male, conoscono le persone, sanno trovare soluzioni perché tante volte si sono cimentate in questa opera. E oggi sono anche disposte ad abbandonare posizioni rigide e modelli vecchi pur di riequilibrare le cose a favore di chi parte con meno nella vita.
Perciò – per la giornata del 20 novembre - verrebbe da fare un appello semplice al Presidente Monti, al ministro dell’istruzione, a quello del welfare, al ministro della coesione territoriale. Si crei subito una camera di regia a Palazzo Chigi. Come quella che oltre dieci anni fa fu costituita a Downing street. Si metta su una squadra di persone che pensi - sulla base sì dei conti pubblici ma anche dell’urgenza del riequilibrio e sulla scorta dell’esperienza vasta che l’Italia possiede in questo campo - al come costruire un nuovo grande sforzo a favore dei bambini e ragazzi poveri. Uno sforzo insieme pubblico e privato. Da metter in campo entro due mesi. Per ridare sostegno all’auto-impresa dei giovani, agli asili nido e alle mense, alle famiglie e alle donne sole e alle scuole, innanzitutto quelle di base, nelle aree dove si concentra la povertà minorile. Programmi snelli, rigorose procedure di controllo. Cose realistiche affidate a chi sa fare, secondo i modelli che hanno funzionato meglio in questi anni. D’accordo con la Conferenza stato-regioni, per concentrare bene tutte le risorse. Un segnale forte dal nuovo governo. Subito.

15 novembre, 2011

Quale scuola vogliamo davvero


Sì, c’è la crisi economica, quella di governo e della politica in senso vero, ampio. Che vuole dire, però, la vita della società e delle persone. Ed è su questa che va mantenuta la sbarra della riflessione collettiva. A tal proposito ecco cosa ho detto (file word 45k) al congresso nazionale di Legambiente – scuole e formazione
Solo una parte dell’apprendimento avviene a scuola. E’ stato sempre così. Ma, nel tempo, si sono anche perduti alcuni decisivi apprendimenti. I quali da un lato afferivano più direttamente alla relazione tra uomo e natura e, dall’altro, erano appresi non in un luogo separato ma entro le comunità di appartenenza. Nelle società umane, da quelle dette primitive fino a metà del secolo scorso, l’apprendimento largo ha affiancato quello che avveniva a scuola. Le pagine nelle quali i ragazzi di Barbiana mostrano il loro sapere sulla terra, sulle coltivazioni, sul bosco e sugli uccelli sono gli ultimi echi di questo “mondo dell’apprendere” che era largo. E che poteva riverberarsi in una scuola ben fatta, consolidarsi in sapere scientifico, scrittura, calcolo e rappresentazione. Senza svilire quel piano primo dell’imparare. Era un apprendere nel quale la scuola era una parte, con suoi canoni distinti, che assumevano l’insieme più esteso degli apprendimenti. L’urbanizzazione non ha smentito completamente questa scena. Piuttosto la ha trasferita e modificata. E anche nelle città vi erano costanti attività dove i ragazzi erano in giro ad imparare, in vera autonomia, a fare cose e a misurarsi con socialità e conflitto, libertà e responsabilità, fuori dalla scuola. Certo, c’era la durezza del lavoro infantile. Ma c’erano, al contempo, esplorazioni, costruzioni, cacce, aquiloni, combattimenti. Vi è stato, dunque, un mondo di avvenimenti complessi, carichi di saperi e competenze che venivano svolti altrove dalla scuola. In modo per lo più auto-organizzato. E dove era possibile provare e provarsi. Molti di questi apprendimenti hanno sempre anche comportato la verifica “naturale” della competenza. “Sono bravo a…” Il mondo adulto era parte di tale riconoscimento, grazie ai riti di passaggio, comunitari e sapeva dire ai ragazzi: “Ora tu sai, ora tu sai fare”. E gli adulti - una volta riconosciuto ciascun sapere e apprendimento - delegavano compiti, funzioni, responsabilità diretta.
Ancora oggi la maggioranza dei bambini e ragazzi del pianeta conoscono queste cose nella loro esperienza di apprendimento. Invece, nei nostri luoghi – che sono una minoranza del mondo – la scuola ha progressivamente imposto il monopolio dei codici e dei metodi di apprendimento. Questo ha relegato in spazi secondi e terzi il corpo, l’autonoma organizzazione, il contatto diretto con le materie e la loro trasformazione, il rischio di fare, disfare, scegliere, provare conseguenze dei gesti, assumere presto compiti, eseguire opere. Ma questo ha recato un lutto e una nostalgia. E’ possibile elaborare quel lutto e rendere desiderio quella nostalgia. E’ possibile riscoprire l’apprendimento diffuso, basato sul compito, autonomo, in diretto rapporto con le cose del mondo. Ma solo se la scuola, insieme alle altre agenzie educative, ritrovano il modo di educare al rapporto con la natura, alla scoperta della biosfera e, insieme, al senso delle relazioni umane che servono a custodirla.
Intanto, oggi sta avvenendo qualcosa che disegna un nuovo gigantesco apprendistato cognitivo. Che è globale. Che proietta tutte le discipline del sapere fuori dalle mura scolastiche, su un piano di libero accesso, in mille forme e in ogni luogo. Con la possibilità di essere rapidamente manipolate, variate, confuse, confrontate, espanse. Lo stesso funzionamento del cervello umano viene chiamato in causa: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici e dispositivi che stimolano i diversi sensi insieme, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita, tra rapidità e pazienza, tra rigore e invenzione.
Di fronte a questo scenario - una volta consolidati i saperi irrinunciabili durante l’infanzia – l’idea di scuola non può che mutare radicalmente. Perché il tema centrale dell’apprendimento umano passa dai modi della trasmissione del sapere in un tempo-luogo dati a tutt’altro: intreccio complesso tra nuovi media e salvaguardia del rigore del metodo, cura del sapere di base insieme a graduale acquisizione delle procedure di ricerca, sviluppo del protagonismo personale in risposta al rischio di subalternità ai gadgets. L’intero dibattito delle neuroscienze sul come si apprende, il rapporto tra teoria e operatività, tra modelli e laboratorio, tra apprendimento individuale e co-costruzione di competenze insieme agli altri, tra conoscenze fondative delle discipline e conoscenze atte a guardare ai grandi problemi del mondo entro campi di sapere pluri-disciplinari, complessi, con ampie zone di cerniera tra saperi, tra certezze da conquistare e dubbi indispensabili per farlo: è tutto questo che può essere oggi spostato in uno spazio x, che si trova in bilico perenne tra scuola e fuori.
Siamo già dentro questo nuovo orizzonte. Da trasmettitori di saperi ci stiamo facendo metodologi della loro selezione. Da detentori di un corpus di nozioni stabilite e rigidamente divise in discipline stiamo trasformandoci in esploratori e co-produttori di ricerca, sorveglianti di procedure, esperti dei rapporti mutanti tra forme e contenuti, tra acquisizioni e comunicazioni, tra aree diverse di sapere che hanno rimandi e campi comuni. Per farlo scopriamo che stiamo agendo in almeno tre direzioni tra loro complementari. Prima: ricostruire in altro modo i riferimenti fondativi delle discipline e far riscoprire i “classici” in ogni area di conoscenza. E anche i mezzi classici: il buon libro, il vocabolario, gli appunti, l’atlante, il calibro, la china, l’acquarello. Seconda: condividere una navigazione curiosa attraverso le scritture on line, i giochi di ruolo, i programmi di simulazione, scovando il sapere economico, geografico, storico, giuridico, scientifico e i passaggi logici che contengono o esplorare insieme gli immensi giacimenti informatici di letteratura mondiale o matematica, scienze, arte, musica. Terza: produrre opere in ogni campo, promuovere prove d’opera, creare produzioni e scambi globali.
E’ tutto questo che sta accadendo. Ed è così che siamo costretti ad imparare a spezzare il nesso rigido e il controllo deterministico tra l’informazione erogata (il testo, la lezione) e l’informazione richiesta (il test, l’interrogazione) e a fare ingresso nei campi proficui delle procedure di ricerca: l’elaborazione di progetti e produzioni, la decodificazione e l’interpretazione, l’analisi e l’attribuzione di significati, l’espressione di giudizi personali entro procedure sorvegliate e legittime, la validazione di ipotesi e percorsi.
E’ un universo. Che ha bisogno urgente di una nuova scuola.

13 novembre, 2011

Passaggio


Passaggio: è il momento del cambiamento, il variare di stato, di condizione, di prospettiva. Come quando in una sinfonia si passa da una tonalità all’altra. Sentiremo altri suoni. Vedremo le stesse e altre cose in una scena cambiata e in un’atmosfera mutata. Ieri B. ha attraversato Piazza del Quirinale tra i fischi. I clacson hanno suonato a festa: “e da quel suon diresti che il cor si riconforta”. Ma non è una liberazione e non è ancora finita questa storia. Può esserci una bruttissima musica o una musica necessariamente molto seria. Al contempo, è stato rimosso un peso grandissimo, un impedimento che interrompeva ogni strada futura e che ci ha angosciato ogni giorno nel quotidiano dell’anima oltre che nelle relazioni sociali e nell’ecomomia reale. Nel passaggio della vicenda comune non è male ragionare ad alta voce. Con gli altri e più del solito. Ragionare e non aderire e semplificare. Cosa non facile, opera incerta. Con molti dubbi.

Giustino Fortunato
Un po’ la crisi mostra meglio le cose; le distilla.
La crisi politica nasce dall’economia oltre che dal logoramento della politica degli ultimi tempi. E’ il segno di una mancata autonomia e di una marcata incapacità della politica. La roba economica non è una macchinazione, non si tratta di un trucco.
Il capitale e i suoi cicli determinano le cose, spingono alle scelte, soprattutto nei passaggi più critici. La crisi della finanza oggi punisce l’Italia per il suo debito abnorme e per le sue debolezze specifiche e la grave stagnazione economica europea e italiana sono cose vere. Poi determina anche e accellera la vicenda politica. Ma non accettare il dato di fatto di dover dare risposte alla situazione economica con un nuovo assetto della politica, con un senso della straordinarietà della situazione vuole dire fingere di non capire la portata concreta delle cose, il peso del debito e i pericoli effettivi delle speculazioni, della concorrenza accanitissima, della forte recessione che è in atto.
Chi, a sinistra, fa questo errore e continua in giocarelli di bottega non vuole proprio capire; chi, poi, racconta che il default vero e proprio è cosa gestibile sottovaluta colpevolmente il fatto che il peggio davvero non è mai morto in questi casi.

09 novembre, 2011

Italian politics


Squilla il cellulare. “Can you explane all this to me, I really can’t grasp Italian politics” – “Che sta succedendo, davvero non riesco ad afferrare la politica italiana”. Così mi dice l’informatissimo Jack, avvocato, studi in scienze politiche e amico americano.
Gli racconto che sì, mister B. si è dimesso, anche se tecnicamente è un sospeso, il Capo dello stato ha le sue prerogative, vi è un tempo intermedio…
Jack capisce fino a un certo punto: nel mondo o ti dimetti o non ti dimetti. Parto da un altro argomento, che si intreccia con quello sulle procedure e le loro italiche interpretazioni. Gli dico che l’uomo è folle. In due sensi. Continuerà manovre, dilazioni, trappole e colpi di coda. Per provare la rivincita, che è il suo demone profondo. E per ridurre i danni, salvaguardare i suoi fortilizi e interessi, da qui in avanti, anche con l’uso di un eventuale ruolo di “capo anziano” e manovratore indiscusso dell’opposizione (se vincesse l’opposizione di ora), con i suoi deputati eletti con la vecchia legge elettorale, suoi servi, nella prossima legislatura, schierati assieme alle tv per non fare toccare, neanche se perdesse le elezioni, i suoi personali lucri e potentati. Ma è folle anche nel senso che la realtà coincide con il suo sé, come Gheddafi e dunque può anche fare cose per lui non utili…
Chi governerà? – mi chiede Jack. Gli spiego del governo tecnico che se fosse vero sarebbe utile… Ma che è improbabile. E più mi avviluppo nei meandri dei nostri tatticismi, meno capisce. A un certo punto taglia corto: “What are the issues, the debt and then? What would be your political agenda… the nine (not ten) things that you think should be done?” – “Quali sono i punti di merito, il debito sì, e poi? Quale sarebbe la tua agenda politica… le nove (non dieci) cose che tu pensi che andrebbero fatte…”
Venti secondi di silenzio. Poi enumero, uno in fila all’altro i punti, come so che piace a Jack:
1. un anti-trust contro il monopolio in tutto il sistema di informazione;
2. un provvedimento anti-evasione draconiano per chi evade e premiante per imprese e cittadini virtuosi, dedicata direttamente a coprire il debito e se necessario, l’Iva sulle case, secondo ragionevole misura;
3. una patrimoniale sui grandi patrimoni per cinque anni da utilizzare per allentare la pressione fiscale su imprese e lavoro, per riportare al 2006 il budget per la scuola e per politiche contro la povertà e a sostegno dell’auto-impresa vera, per i ragazzi del Mezzogiorno in particolare;
4. l’aumento dell’età pensionabile tranne per i lavori usuranti, con maggiore flessibilità nella sua gestione e un patto tra generazioni che ridia il diritto a una vecchiaia protetta a chi entra oggi al lavoro;
5. una seria flex-security anzicché il brutale diritto di licenziare;
6. un piano di dismissioni pubbliche che contribuisca a coprire il debito ma anche a creare un fondo per valorizzare il patrimonio e difendere terriorio e ambiente;
7. il superamento del bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie locali, la diminuzione dei parlamentari nazionali e ragionali e l’abbassamento dei loro stipendi al 10 per cento sotto la media europea;
8. una legge elettorale a doppio turno, con collegi uninominali e le primarie per legge;
9. e due diritti subito esigibili: i pat e una norma di fine vita decente.

25 ottobre, 2011

Povertà e politica


Dieci giorni fa la Caritas, nel suo annuale rapporto, ha documentato ancora una volta l’aumento costante della povertà in Italia.
Nel 2010, 8 milioni e 272 mila persone erano povere (13,8%), contro i 7,8 milioni del 2009 (13,1%). E’ l’11 % di tutti i nuclei famigliari. Ma le famiglie di 5 o più componenti che sono povere passano dal 24,9% al 29,9% e le famiglie monogenitoriali povere – le mamme sole! – dall’11,8 al 14,1%. Invece l’investimento per le politiche della famiglia si riduce e passerà da 185,3 milioni di euro nel 2010, 51,5 milioni nel 2011, 52,5 milioni nel 2012 e 31,4 milioni nel 2013.
Poiché le famiglie numerose sono concentrate nel Sud, il tasso di aumento della povertà in famiglia nelle nostre regioni è passato dal 36,7 al 47,3%! La povertà è poi aumentata lì dove le donne meno lavorano, sempre nel Sud: tra le famiglie di ritirati dal lavoro in cui almeno un componente non ha mai lavorato e non cerca lavoro sono passate dal 13,7 al 17,1%.
La povertà è sempre in rapporto diretto con il mercato del lavoro. In Italia, i cittadini tra i 15 e i 64 anni con un lavoro regolarmente retribuito sono 22 milioni e 900 mila, il 56,9% dei cittadini. La percentuale è tra le più basse dell’Occidente. E diminuisce.
Ovunque i più colpiti sono le donne e i giovani. Lavora solo il 47 percento delle donne e 1 ragazzo su 3 è senza lavoro. Ma nel Sud si scende sotto il 30 percento delle donne al lavoro e a 2 ragazzi su 3 a spasso (solo il 31,7 % degli under 34 lavora) - secondo il rapporto Svimez. Così, la Svimez profetizza che il Mezzogiorno perderà un giovane su cinque nei prossimi vent’anni. Un trend che è già cominciato, infatti negli ultimi dieci anni il numero di emigrati dal Sud verso il Nord è stato di 600mila persone.
Ma ovunque in Italia le prospettive dei giovani peggiorano. Per i giovani l’occupazione è crollata dell’8% nel 2009 e del 5,3% nel 2010. E i giovani che hanno iniziato a lavorare a metà degli anni Novanta matureranno verso il 2035 una pensione analoga a quella degli attuali pensionati con il minimo Inps, ossia di 500 euro. Sono i poveri relativi di oggi e i poveri assoluti di domani.
Di tutto ciò la politica non parla e non parlerà: non esiste una lobby dei poveri né una vocazione a difendere i deboli da parte delle forze sindacali e politiche.
Eppure se votassero farebbero la differenza, se li si riportasse a votare sarebbe un’altra storia…

24 ottobre, 2011

A Bologna parlando di scuola e di Sud

Sono andato a Bologna. Ho tenuto una delle relazioni al congresso di Legambiente scuola e formazione su: "I nuovi modi di apprendere dei ragazzi, dentro e fuori scuola".

Poi sono stato invitato a parlare di scuola e di Mezzogiorno all’evento “Il Nostro Tempo - Convention organizzata da Giuseppe Civati, Debora Serracchiani e Prossima Italia”, insieme anche ad altri.

E se avete pazienza, potete vedere/sentire il mio intervento nel pomeriggio su Radio Radicale. Vi ho incontrato anche il sindaco Luigi de Magistris e con lui ho brevemente parlato degli stessi temi.

17 ottobre, 2011

Roma di sabato


Sabato sono stato agli indignatos. Nella serata ho visto riunirsi gruppi pacifici e altri no nel centro di Roma. Mi sono chiesto molte cose dopo avere molto parlato in giro nel corteo e ai bordi. Prima e dopo di quel che è accaduto. Tra le quali: è possibile, finalmente, un “gandhismo occidentale” in questo paese? Oggi La Stampa di Torino ha pubblicato questo mio articolo, col titolo "Lo strappo delle minoranze violente".

Il corteo si sta formando. Giovani dottori e infermieri da anni a contratto. Docenti precari e non. Disabili a cui tolgono aiuto. Operai in cassa integrazione da mesi. Donne giovani e non giovani, spesso con i figli, che stanno perdendo il lavoro e la dignità. Immigrati che lavorano al nero nei campi e nell’edilizia. E tanti ragazzi, universitari e lavoratori. Da Nord e da Sud. E non sono venuti con i bus e i treni speciali pagati dalle grandi organizzazioni ma a spese proprie.
Ci sono i suoni e i colori come gli altri 900 cortei del mondo. Bande, bongos, striscioni costruiti in proprio, teatro di strada. Colpisce l’assenza di astio e faziosità. Non è una piazza anti-berlusconiana. E’ un giorno nel quale nessuno s’interessa più a quel anziano signore del tv color, come se finalmente si sapesse che abbiamo altro da fare.
Cos’è questa piazza? C’è la richiesta di poter fare bene il proprio lavoro o di poterne fare uno. Ma il tema è il mondo che vogliamo. Attenzione: non quello che non vogliamo, cosa più facile. Così, quando parli in giro le parole sono sul come tenere in piedi la cooperativa, come garantire la qualità dei servizi, come inventare lavoro, a chi può servire la cosa che hai imparato all’università. E c’è il chiedersi di mercato, competizione, produzione, senza questa finanza però. E con in testa i vincoli del pianeta, i consumi possibili, un altro modo di lavorare, le conoscenze e le tecnologie che lo rendono possibile. E c’è anche il desiderio o la richiesta o l’attesa di un’altra politica.
Poi ci sono anche le bandiere e gli spezzoni organizzati con i simboli del secolo breve. Mentre li guardo, incontro un’educatrice che conosco. Ha venticinque anni. “Non li guardare troppo – mi dice – sono fatti così, anche oggi devono mettere il loro bollino. Li trovi in ogni città. Vengono alle assemblee. Stanno sul web. Non ascoltano e riportano tutto alle loro ricette”. Sì, in Italia è più difficile che altrove ricercare nuove risposte alle domande comuni. Perché ogni nuovo moto che nasce nel mondo deve fare i conti con la presenza di chi riconduce le cose alle categorie, ai segni e al lessico del secolo scorso, come non accade in altre parti del mondo. Presto la tristezza sparisce però. Il corteo è troppo più grande.
Ma ecco che - fuori da ogni rapporto con le diverse anime della piazza - piccoli gruppi si preparano. Vestiti di nero. Senza alcuna manifestazione di rabbia, in modo preordinato. Tutti con tascapane e casco. Alcuni sono più vecchi. Molti giovanissimi. E’ fuorviante chiamarli black block. Ci rassicura ma non spiega. Forse si deve finalmente dire che si ritrovano insieme professionisti della guerriglia urbana legati all’eco dei brutti miti degli anni settanta e piccole fraternità marginali, fondate sull’esaltazione del gesto distruttivo, giovani che cercano l’identità così, nelle curve degli stadi, nella rissa di quartiere, nell’occasione di piazza. A sera, calata l’adrenalina, li trovi ai soliti bar.
Sulla piazza ancora in formazione si capisce il pericolo. Lo capiamo in molti. Ma non c’è un servizio d’ordine che possa intervenire e la polizia non viene a chiedergli conto. Sarebbe anche difficile farlo. In poche decine di minuti la giornata va a finire male. L’energia positiva viene violentemente scippata nonostante gli sforzi di tanti. Solo qualche spezzone di corteo pacifico, indomito, ce la fa. La frustrazione è enorme. Molte persone piangono. In tanti riconoscono che la polizia non ha attaccato in modo indistinto e che i manifestanti hanno creato un solco profondo con chi ha violato la giornata. Queste due cose hanno evitato esiti ancora peggiori e sono una promessa di possibilità.
Restano le domande. Perché dopo decenni tornano sempre le minoranze violente che tolgono potere ai tanti? Quali lunghe rimozioni permettono ancora questa cosa terribile? Il governo nazionale e una politica bloccate – così chiaramente incapaci di dare risposte alle domande del Paese - non contribuiscono a farci ritornare ogni volta indietro?
Delle cose si possono fare. I processi rapidi e rigorosi, che sapppiano inchiodare chi è stato alle sue responsabilità. Il sostegno - da parte di un movimento che voglia continuare a pensare e a manifestare - della necessità, per chi è stato violento, di scontare la pena. E un dibattito politico che per una volta eviti di avvitarsi intorno ai soliti cliché e dia spazio ai temi di questa piazza. Perché sono preziosi.

07 ottobre, 2011

Sette aree di intervento urgente

Sul prossimo numero di Vita (link: http://www.vita.it/) pubblico questo intervento-proposta che ho fatto alle giornate della Fondazione Sud e Save the children a Napoli: 

Le aree metropolitane del Mezzogiorno conoscono da tre decenni una situazione di esclusione sociale e culturale di massa dei bambini e dei ragazzi. Il 23% delle famiglie vivono sotto la linea di povertà nel Sud mentre la media nazionale è dell’11%. Si tratta di 1.200.000 persone tra 0 e 18 anni. Alle quali vanno aggiunte ben 410.000 in situazione di povertà assoluta e altre centinaia di migliaia che sono poco sopra la linea di povertà.

Fino agli anni ottanta, nel Mezzogiorno la scuola - unitamente alle politiche pubbliche a sostegno dello sviluppo - è stata una forte leva di emancipazione dalle condizioni di povertà delle nuove generazioni. Ora non più. I dati – che la Fondazione con il Sud e Save the children hanno riassunto per l’ennesima volta - sono impressionanti. Il fallimento formativo riguarda oltre il 30% nel Mezzogiorno contro il 20% che è la già elevatissima media italiana. Nelle periferie il dato nazionale dei territori meno protetti - che già si eleva oltre il 25% anche al Nord - diventa, nelle città meridionali, il 45%. E i ragazzi senza scuola né lavoro legale né apprendistato sono il 30% nel Sud contro il 19,2% della media nazionale.

Dunque, le azioni di sistema riparative e compensative si sono interrotte. Così gli asili nido accolgono 1 bambino su 10 contro i 6 su 10 nel Centro-Nord. La contrazione dei plessi scolastici riguarda il 9% a Sud contro la media nazionale del 2%. Sono chiuse le esperienze di scuole di seconda occasione. Il tempo pieno, che serve di più dove vi è maggiore analfabetismo funzionale nelle famiglie e nelle comunità, riguarda nel Sud meno dell’8% delle classi della scuola di base contro il 35,3% del Centro, il 42,6% del Nord-Ovest e il 26% del Nord-Est. La formazione professionale – che ovunque dà struttura educante e apprendimenti alla fascia più debole della popolazione minorile – vede i corso triennali chiusi o di cattiva qualità, con rare eccezioni e gli istituti professionali con un bassissimo livello di interazione con aziende e territorio, peraltro devastati dalla disoccupazione di massa, con l’eccezione degli alberghieri. E – secondo la Banca d’Italia - il differenziale nell’investimento in istruzione da parte di enti locali, stato, famiglia è a svantaggio del Mezzogiorno di circa 1000 euro pro capite.

Dunque, il problema che il Paese ha di fronte è che l’analfabetismo funzionale di massa ha ripreso ad accompagnare e rafforzare l’esclusione sociale. Ed è certamente questo il più grave portato del modello di sviluppo duale che ha invertito le scelte politiche dei primi decenni della storia repubblicana, a svantaggio del Sud. Così, mentre la costante de-industrializzazione nel Sud non è stata contrastata da investimenti innovativi pubblici e privati e da piani strategici di riqualificazione urbana, vi è stato anche un progressivo e marcato ridimensionamento delle politiche formative e di welfare che erano fondate sulla discriminazione positiva. Questa inversione di indirizzo sta ora indebolendo la cultura di base che è indispensabile a sviluppo, legalità, intrapresa, merito, solidarietà e anche concorrenza.

Certamente, nel riflettere su tale situazione, si ripropone la storica questione delle classi dirigenti meridionali, in quanto il ceto politico del Sud ancor più che altrove occupa gli apparati pubblici per mantenere interessi corporativi o speculativi perseguendo i propri interessi attraverso le clientele elettorali e, in alcune aree di Calabria, Sicilia e Campania, legando tutto questo anche all’”intermediazione impropia” con il malaffare. Tale carattere del potere meridionale ha condizionato anche le decisioni in materia di istruzione e sostegno all’infanzia, già frammentate tra molti diversi centri di erogazione e gestione. Così, le scuole dell’autonomia e anche le reti del privato sociale – impoverite dal drenaggio di risorse dovute ai tagli nazionali - si sono trovate ad essere unici presidi educativi nel mezzo di lande dominate dalla cattiva o colpevole amministrazione locale e dall’illegalità.

Ma nonostante tutto, molte buone esperienze e riflessioni ci sono state e ci sono. Non si tratta di libri dei sogni ma di cose già attuate, che funzionano, che possono diventare politiche pubbliche che attuino la ripresa della responsabilità nazionale e locale insieme in favore dei bambini e dei ragazzi del Sud:
1. Sviluppare gli asili nido e il sostegno alla genitorialità durante la prima infanzia, soprattutto nei confronti delle mamme sole;
2. Sostenere le scuole dell’infanzia, dando loro più tempo per la progettazione e per l’alleanza con le famiglie e sviluppando azioni particolarmente promettenti quali mense comunitarie e psicomotricità;
3. Creare zone di educazione prioritaria lì dove si concentra la dispersione scolastica: privileggiare la conquista precoce delle competenze di base linguistiche, matematiche e scientifiche dando più tempo dedicato a chi ne ha più bisogno, raggiungere tutti gli adolescenti dispersi con scuole di seconda occasione, affiancare sport, musica, teatro, arte al rigoroso consolidamento degli alfabeti di cittadinanza;
4. Rilanciare la formazione professionale, la ripresa dell’apprendimento dei mestieri, le esperienze di formazione proiettate verso l’auto-impiego;
5. Rafforzare le ore di alfabetizzazione nell’apprendistato e offrire un pacchetto di almeno 300 ore per riprendere le conoscenze irrinunciabili con le persone di 16 – 28 anni;
6. Sostenere la formazione continua dei giovani emigrati al Nord;
7. Creare un patto tra banche, fondazioni, responsabilità sociale di impresa che sostenga il micro credito, la formazione e i luoghi di aggregazione giovanile positiva. Con quali soldi fare queste cose? Sarebbe ora di dire che almeno un terzo di una patrimoniale sia dedicata ai nostri bambini e ragazzi più poveri e che tali fondi, gestiti localmente, abbiano però un sistema di monitoraggio nazionale, ad un tempo rigoroso e partecipativo.

04 ottobre, 2011

Ancora per la scuola e per i ragazzini del Sud

Venerdì, nel Quartiere Sanità a Napoli ho lavorato con Fondazione con il Sud e Save the children su un possibile programma concreto di contrasto della esclusione precoce nel Mezzogiorno.
Nei prossimi giorni intendo tornare proprio sui punti programmatici sul settimanale Vita.
Intanto si è conclusa la mia inchiesta sulla scuola che sa proporre su La Stampa. Ecco qui l’ultima puntata, riassuntiva, apparsa lunedì, 3 ottobre.

Abbiamo raccolto, in questo avvio di anno, le voci dalle scuole. E non abbiamo sentito solo lamentele. Anzi, sta prendendo forma la convinzione che la scuola è una cosa importantissima e che per salvarla va cambiata da subito, come si può. Per questo quando chiedi in giro, a sud come a nord, a docenti, genitori, ragazzi, dirigenti, esperti, nessuno nega i limiti della scuola. E anche i suoi fallimenti, il primo dei quali è la perdita di un quinto dei ragazzi – quasi un terzo nelle aree più povere del Paese. Insomma sta forse finendo il lungo tempo nel quale i docenti lavoravano con abnegazione ma chi criticava la scuola era percepito come nemico della sua funzione pubblica e l’autocensura impediva di parlare di quel che va cambiato. Beninteso: oggi chiunque faccia scuola - che voti a destra o a sinistra - si indigna per i tagli che mortificano il proprio operare, tagli sconosciuti negli altri paesi – un dato questo che è incontestabile in quanto siamo al ventinovesimo posto su 34 paesi OCSE per il investimenti in istruzione. Ma, al contempo, cresce la persuasione che si possono fare delle concrete cose utili “e che noi – noi che la scuola la facciamo – sappiamo pure quali possono essere, anche con relativamente poco denaro in più e combattendo gli sprechi”. Così, abbiamo potuto raccoglie indicazioni preziose per un suo nuovo governo: un’agenda utile per chiunque vorrà governare questo Paese nella fase di rinascita che prima o poi dovrà esserci.

Mettere in sicurezza e rendere più belle le scuole, con investimenti che tra l’altro incentivano la crescita, come propone il presidente Obama. Dedicare energie “per ragionare e pattuire con i genitori, mettendo ciascuno la sua competenza ma d’accordo” – come ci ha ricordato Piteropolli Charmet. Perché il patto implicito tra adulti che presiede all’educare non c’è più e la scuola è il luogo dove è possibile riformularlo in modo esplicito. Estendere a tutte le scuole le ore di progettazione e riflessione comune tra docenti, come si fa da decenni nella scuola primaria, una cosa che più di ogni altra ha creato formazione continua e rafforzato la cooperazione tra chi insegna e che tutte le ricerche dicono che è condizione decisiva per la tenuta educativa e il miglioramento della didattica. Fermare i tagli al numero dei docenti e dare un organico funzionale alle scuole in modo da favorire le indispensabili flessibilità di uso del tempo e degli spazi dato che la scuola non può più essere rigidamente standardizzata ma deve coniugare il lavoro comune di tutti i ragazzi con l’attenzione alle debolezze e alle forze di ciascuno. Sì, un organico che vada oltre l’ora-cattedra, che permetta di estendere le esperienze che superano la corrispondenza rigida tra classe e aula, sostenendo in modo diverso anche la grande tradizione italiana dell’inclusione dei ragazzi disabili e in difficoltà – che viene ammirata in tutto il mondo ma che ha bisogno di nuova linfa, come ci ha detto Andrea Gavosto. Favorire tutte le azioni, già in atto, che mettono insieme apprendimento formale e informale, on line e in laboratorio. E che coniugano il fuori e il dentro scuola grazie a esperienze significative, che sono un antidoto all’isolamento, alla tv peggiore, ai modelli che tutti – dal mondo laico alla CEI – riconoscono come anti-educativi. E che avvicinano vita e scuola. Al tempo stesso tornare a dare priorità assoluta alla cura precoce delle competenze irrinunciabili a partire daparlare, leggere, e scrivere. Come ripete Clotilde Pontecorvo, citando John Dewey: aumentare scuole materne e nidi e dare solide basi presto. Il che vuol dire dare più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato, a partire da Mezzogiorno e periferie povere, creando vere e proprie zone di educazione prioritaria nella aree di massima concentrazione della dispersione scolastica.

Sono queste le cose che abbiamo ascoltato. E non come idee da “tradurre in pratica”. Al contrario: come pratiche già operanti, come cantiere imperfetto certamente ma già in azione nonostante gli stipendi bassi, le scuole prive di manutenzione, il perdurare dello scandalo del precariato, l’assenza di investimenti per la formazione dei docenti e le classi affollate. Idee nate nel lavoro quotidiano, frutto di una passione civile di tipo operativo e di un’affezione al proprio mestiere, che sono cose diffuse tra i docenti italiani. Idee da tradurre in politiche pubbliche: non libro dei sogni, cose possibili e sostenibili anche in tempo di crisi. E non l’ennesima riforma della riforma della riforma ché, francamente, non se ne può più. È questo semplice ma decisivo cambiamento di prospettiva che sta diventando possibile. Ed è tempo che la politica – che i leader dei partiti – si mettano in posizione di ascolto e di rispetto verso tutto questo.

03 ottobre, 2011

Favorire cambiamenti

Nei giorni scorsi è uscita la penultima puntata dell’inchiesta sulla scuola che ho curato per La Stampa.
Se parli con docenti e dirigenti prima o poi viene avanti la questione che si ripete per ogni generazione: “i ragazzi di oggi sono diversi”. Quando si evitano saggiamente gli stereotipi e si entra nell’argomento, si riesce a definire questa loro diversità: si fa fatica a fare lezione come una volta perché questi ragazzini sono qui per stare insieme e si devono conquistare all’attenzione e al lavoro senza poter contare sulle regole non hanno sedimentato dentro. Atteso che ogni ragazzino è diverso, è evidente che vi è un indebolimento di regolazioni interne, di “quella roba che strutturava il super-io” – come ama dire un amico docente. Sono, poi, quasi assenti, nell’esperienza dei bambini, i luoghi dedicati alla socializzazione: cortili, paese, campagna, quartiere. Posti dove si gioca e si scopre il mondo lontano dagli adulti e si costruiscono comportamenti tra pari basati sul merito e la reciprocità e dove si fa, ben prima che a scuola, l’esperienza del piacere di stare insieme. Ma cosa stanno facendo tante scuole in risposta alla nuova scena educativa? 
Lo chiedo al prof. Gustavo Piteropolli Charmet, che è un’autorità sui modelli educativi e sulle nuove fragilità durante la crescita e lavora da anni con le scuole. 
“Tra gli indirizzi educativi che tante scuole stanno sperimentando ne elenco tre. Accogliere il bisogno di socializzazione e lavorare a una sua evoluzione costruttiva. Presiedere il limite con costanza e pacatezza, ma parlandone con i ragazzi e mettendo la questione delle regole in diretta relazione con avventure di apprendimento anche impegnative, da fare insieme. Dedicare spazi e tempi per ragionare e pattuire con i genitori il cosa e come fare, ognuno per la sua competenza ma d’accordo”. 

Trentino Andrea Schelfi è dirigente dell’Istituto professionale provinciale Pertini di Trento, 600 alunni che perseguono la qualifica di falegname o quella di parrucchiere o estetista. Insieme a altri 7 istituti professionali del Trentino ha dato vita al progetto Campus: molte attività socializzanti dallo sport alla musica al teatro, patti con le famiglie, tutor per ogni ragazzo il primo anno, nuove misure contenitive, capaci di ricostruire dialogo e consapevolezza. “Questi ragazzi spesso sono troppo soli e troppo protetti. Altre volte conoscono realtà difficili. La prima regola è differenziare gli interventi, guardare alla persona. I consigli di classe sono la cellula che fa funzionare la relazione educativa e l’apprendimento. Di fronte alle nuove fragilità c’è da lavorare sul gruppo docente, scommettendo sulla sua capacità di coniugare attenzione all’apprendimento e attenzione alla crescita. Non è facile. Ma un gruppo adulto coeso e che riflette aiuta a costruire un gruppo di ragazzi, una classe che sa ugualmente lavorare insieme. Intorno a obiettivi, a sfide formative chiaramente definite. Poi c’è il limite da mantenere. Non esiste accoglienza senza limite. E noi stiamo imparando che, di fronte alle distruttività ma anche ai silenzi ci vuole uno spazio-tempo dedicati. Dove fermarsi, riparare, ricevere attenzione per poi ripartire. La sospensione e la nota da soli non consentono questo. Dobbiamo favorire cambiamenti, puntare sulle trasformazioni dei gruppi e dei singoli adolescenti.” 

Calabria Dall’altro capo dell’Italia e in tutt’altro tipo di scuola Saverio Pazzano non dice cose dissimili. Docente di Italiano, Greco e Latino nel liceo classico paritario San Vincenzo di Reggio Calabria, è educatore e formatore nazionale scout. “Il patto con le famiglie esiste da noi come in tante scuole pubbliche. Noi lo sottolineiamo come un prendere un impegno. Come nelle amicizie tra persone diverse, di età diverse. Nello scoutismo come nella vita si impara che l’amicizia è esigente”. Gli dico che molte scuole hanno ricominciato a chiedere. E funziona. “Noi chiediamo ai ragazzi di fare volontariato e uscire dal loro mondo protetto. Andiamo insieme nelle mense per poveri. Si creano impegni e soprattutto relazioni, ci si interroga. Andiamo poi a Napoli, quartiere Sanità. E lì tengono un doposcuola per periodi estivi. E questo apprendere si riversa anche sull’apprendimento disciplinare, non è un’altra cosa. Anzi, gli ridà senso.”

22 settembre, 2011

Il Principe di Danimarca e un po' di un lobbying per i nostri ragazzi


È uscito per Sellerio il bel libro di Carla Melazzini, Insegnare al Principe di Danimarca. Lo si sta presentando in moltissimi posti, tra i quali la Feltrinelli di Napoli, oggi alle 18. Intanto Cesare Moreno, che il libro ha curato, esprime assai bene le medesime preoccupazioni sui nostri ragazzi che ho espresso ieri su l'Unità e lancia il progetto E-VAI. Di questo avevamo parlato alla festa pd di Milano insieme e lo rifaremo a Verona, lunedì 26.

21 settembre, 2011

Una patrimoniale dedicata ai ragazzi poveri

Sulla prima pagina de l’Unità del 21 settembre è uscito questo mio articolo, titolato “La scuola non può escludere” ma che prosegue all’interno con il titolo “L’esclusione si può battere con cinque mosse”. È la proposta di una patrimoniale utilizzata per sostenere i giovani poveri. E mette in campo proposte concrete. Eccolo: 

Mentre la metà dei giovani italiani - anche quando diplomati e laureati - ha un lavoro incerto o non lo ha, vi è il 20% di tutti i ragazzi tra i 15 e i 25 anni che non hanno completato la scuola superiore né hanno ottenuto una qualifica professionale spendibile.
Il loro fallimento a scuola è precoce, si vede presto. Ha bisogno, per essere vinto, di supporto speciale e costante lungo gli anni – dalla prima infanzia fino a tutta l’adolescenza. Un supporto che oggi non c’è. Anche perché l’offerta di istruzione è troppo standardizzata per poter affrontare un’esclusione sociale e culturale multi-dimensionale, che ha bisogno di azioni flessibili, mirate, innovative e concordate tra le scuole e fuori.
Sono tutti ragazzi poveri che vengono da famiglie povere. Sono due milioni. Sono spesso analfabeti funzionali: parlano, scrivono, leggono male, non conoscono i loro diritti; pur esposti ai media non hanno strumenti di lettura del mondo, delle informazioni, delle opportunità. Sono concentrati nelle aree urbane, nelle periferie sempre più abbandonate soprattutto del Mezzogiorno, ma non solo. Spesso hanno alle spalle storie di profonda frustrazione vissuta in modo ripetuto a casa, nel quartiere, a scuola. Una storia senza conferme positive.
Cosa fanno? Cercano vie di uscita, si parlano sul cosa e come fare, nutrono sogni nonostante tutto. Fanno prove eroiche di emancipazione. Provano ad emigrare al Nord. Alla mercé di nuovi caporalati fanno tentativi faticosi di indipendenza e entrano e escono dal lavoro incerto o al nero. Provano a crescere, così, entro un girotondo di esperienze le cui costanti sono l’estrema brevità del rapporto di lavoro, il bassissimo reddito, le condizioni di lavoro non protetto e il grado basso di competenza e apprendimento richiesto per le mansioni svolte. Ovunque sono a un passo dall’alcool e dalle droghe alle quali devono saper dire di no. Ovunque circondati dal piccolo crimine di sussistenza nei quali cadono in una minoranza. In quattro grandi regioni sono anche nella immediata prossimità della criminalità organizzata, alla quale, in maggioranza, sanno resistere. Non hanno rappresentanza politica né sindacale.
Non hanno banche o forme di credito solidale su cui contare per mettere su una qualche storia di auto-promozione e di rinascita personale. Vengono aiutati da un privato sociale che, però, è ormai stremato in un paese privo di welfare.
Senza via di riscatto né supporto che sia tale pesano sulle famiglie più povere d’Italia. Lì dove la crisi pesa trenta, cinquanta volte di più. Di fronte alla scena dei giovani poveri d’Italia, noi - che ci candidiamo alla guida del Paese – dobbiamo a loro e a noi stessi una presa di posizione. Che sia chiara, concreta. Che sia impegno politico, civile e etico insieme.
Che si faccia una patrimoniale subito. Le cui risorse siano utilizzate, in modo diretto, a ridare la speranza innanzitutto a questi ragazzi e ragazze. I soldi vengano dati alle regioni e alla grandi città. Come è stato per la 285 del primo governo Prodi. Sappiamo dove: le grandi aree urbane del Sud e le periferie povere delle città in generale. Si mettano su dispositivi semplici, che già hanno funzionato. Ci si concentri su 5 cose che tutte le esperienze mondiali ci ripetono che sono le cose da fare:

  1. aumentare scuole materne e nidi e soprattutto rafforzare l’istruzione di base negli istituti comprensivi, dando più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato, a partire dalle aree metropolitane del Sud, creando vere e proprie zone di educazione prioritaria nella aree di massima concentrazione della dispersione scolastica; 
  2. puntare sul sistema di formazione professionale - che in alcune aree già argina questa specifica crisi - con al centro un triennio di intenso lavoro intorno al sapere fare, ai mestieri, con l’aggiunta di ore ben dedicate alle competenze di cittadinanza - saper leggere e scrivere, capire discorsi, seguire procedure logiche, usare i nuovi media; 
  3. creare task-force in tutte le aree più depresse, che coinvolgano, in progetti ad personam, scuole, imprese, parrocchie, centri sportivi, sindacati; 
  4. rafforzare le ore di alfabetizzazione nell’apprendistato e offrire un pacchetto di 300 ore annue personalizzate ai giovani adulti tra i 18 e i 28 anni, per acquisire le competenze minime necessarie per stare al mondo; 
  5. avviare un piano di sostegno al micro-credito - d’accordo con banche, fondazioni e responsabilità sociale di impresa - per progetti di vera promozione di impresa, con procedure rigorose, controlli severi ma anche forte sostegno educativo. C’è da buttare giù questo governo. Ma c’è anche da dare subito speranza a chi ne ha più bisogno.

20 settembre, 2011

Proposte dalla scuola

Sta continuando la mia inchiesta su La Stampa. Ecco la seconda puntata uscita il 15 settembre – con voci da Basilicata e Torino. 


Al di là dell’interpretazione delle cifre, i soldi investiti nella scuola scendono da anni. Non c’è dirigente, docente o genitore che non lo avverta. Ma c’è una novità nell’aria: le scuole si domandano se questo non sia comunque il tempo di smettere di lamentarsi e innovare coi mezzi che ci sono. Da dove partire?

Basilicata Lo chiedo a Pancrazio Toscano. Da poco in pensione. Maestro elementare fin da giovane e ricercatore di geografia. E’ di Tricarico, Basilicata, paese del quale è stato anche sindaco. Da maestro aveva inventato, negli anni settanta, la classe itinerante. Portava i bimbi a esplorare e studiare i territori dal punto di vista geografico, storico, scientifico, letterario. Con un accordo con l’Alitalia li ha persino portati gratuitamente a volare “per vedere e disegnare l’Italia dall’alto”. E’ stato dirigente scolastico a Como, in una difficile periferia romana, nei paesini e nelle città lucane. “Si parte da cos’è la scuola dell’obbligo, che è 'il luogo intenzionalmente organizzato per apprendere insieme ad altri, non consanguinei’. Il che significa che anche noi che insegniamo dobbiamo farlo. Il fulcro è il gruppo docente in azione, che riflette sul da farsi. Questo è al contempo formazione. Certo, ci vuole una manutenzione culturale, un accompagnamento. E il dirigente deve tornare ad essere - insieme ad altri facilitatori rispettosi - innanzitutto persona di scuola, attenta alla postura delle risorse umane. Sì, postura: guardare in alto per non cadere. E poi dedicarsi artigianalmente al come e al cosa si fa, ogni giorno. Con tutti i docenti. Perché solo il 5% non lo farà mai. Ed è assurdo che solo la scuola primaria faccia due ore a settimana nelle quali ci si confronta su quel che si fa. Prima proposta: estendere questa esperienza a medie e superiori. Anche la formazione iniziale va fatta sul cosa e il come, stando a scuola, con docenti più esperti. Ci vuole molta cura delle relazioni, tempi lenti e procedure costanti. Quel che vale per i ragazzi vale anche per gli adulti. Bisogna tutti tornare a imparare. C’è un evidente calo di motivazione? Per rimotivare bisogna anche differenziare. Ma – attenzione! - tenendo i gruppi uniti. Lo skipper deve tenere uniti tutti usando bene ogni differenza. Ma poi annusa il vento. Ci siano singoli docenti bravi e cattivi. Ma fermarsi a questo significa non sapere come è una scuola e non dà spazio alle parti promettenti di ognuno e alla forza pacata di un gruppo. E io ho visto che più c’è costruzione di laboratori, di invenzioni comuni, di ricerca di rigore dentro ogni novità più c’è coinvolgimento dei ragazzi e più crescono anche i docenti”.
Torino Giulia Guglielmini è dirigente da 5 anni. Prima aveva insegnato in ogni ordine di scuola, dalle primarie all’università. “Sì, ci sono incerte risorse economiche e nell’organico, mobilità degli alunni, ecc. Ma qui - zona di Porta Palazzo, Torino - sento che si è in un punto strategico, un centro vero, che induce cambiamenti. Perché apre alla multi cultura, al mondo globale. E questo spinge a cambiare i modi della scuola e alla riflessione, alla creatività: apprendimento cooperativo, laboratori, azioni personalizzate, differenziazioni senza escludere, lavoro con i genitori, sinergie continue con il volontariato. Le nostre vive pratiche sono altrettante riforme messe già in campo. Ma il confronto nazionale tra tante esperienze così – ecco il sogno nel cassetto – può avvenire grazie a un forte sviluppo delle reti professionali di chi insegna, del confronto tra gruppi docenti e scuole attraverso il web 2.0, gratuito, comunitario, fondato sul lavoro svolto, sulle idee attuate. Vorrei scuole con più soldi perché siano sicure ed accoglienti. E per fortuna ci sono i genitori che si attivano, ridipingono le aule, tengono su la scuola. Perché la scuola pubblica è sentita come luogo di costruzione di futuro. E oggi regge alla crisi perché ci sono docenti, bidelli, genitori, dirigenti che ci credono”.


E qui c’è il terza puntata, uscita il 19, con voci da Cagliari, Napoli, Roma:
Chi fa scuola ogni giorno può anche protestare ma poi si rimbocca le maniche.
Cagliari “Anche se senti falsi o lontani i comunicati del Ministero, quello che conta all’avvio di anno è rispondere agli alunni, è la relazione educativa, il legame con chi impara, l’artigianato della didattica riscoperto con i tuoi colleghi. Non è rassegnazione, siamo indignati. Ma sentiamo la responsabilità civile. E anche un’altra cosa: l’attaccamento al lavoro, la non rinuncia”. Insegnante di ruolo da 29 anni, esperta di didattiche attive del movimento di cooperazione educativo, Luisanna Ardu è maestra in una scuola del centro di Cagliari con 900 alunni. “Stiamo riprovando di fare le classi aperte, come negli anni settanta, mettendo insieme 40 bambini per poi fare gruppi, ricomporli, riorganizzarsi per difendere la scuola attiva, quella che non incolla nei banchi ma crea azione, entusiasmo, possibilità, favorendo le compresenze rese difficili dal taglio delle ore. Non possiamo rinunciare al nostro saper fare scuola, alle esperienze, ai risultati di tanti anni. Sarebbe un rinnegare se stessi, una dignità”.
Napoli Il senso di queste parole lo conferma Paola Carretta. Ha insegnato lettere nella difficilissima periferia orientale di Napoli. Poi è stata dirigente nelle scuole difficili del centro storico e poi a Piscinola, Pianura, Soccavo. La scuola Pirandello a ordinamento musicale - che ha appena lasciato per andare in pensione - ha 700 alunni. “E’ da anni che abbiamo imparato a fare le nozze coi fichi secchi, senza che il dibattito pubblico del Paese se ne occupasse. Qui, nella scuola di base, dove si crea cittadinanza, il progetto su cittadinanza e Costituzione, che ha visto una partecipazione entusiasta dei ragazzi deve cercare oggi i soldi nel pacchetto sulla sicurezza. Scoviamo fondi sempre più scarni ovunque, con difficili negoziazioni. Perché è da tempo che i soldi a sostegno dell’autonomia delle scuole – legge 440 del 1997 – sono una chimera. Qui, fino al 2013, c’è ancora qualcosa dal Fondo sociale europeo per l’obiettivo dedicato al Mezzogiorno. Ma poi? Si fa fatica a fare bene la musica, gli strumenti non possiamo comprarli più per i ragazzini meno fortunati; è faticoso tenere in piedi il progetto sportivo fondato sul canottaggio; bisogna letteralmente inventarsi come curare le competenze cruciali in Italiano, matematica, lingue straniere, quelle misurate dall’OCSE. Eppure a continuare a fare queste cose ci si riesce. Ma solo grazie all’abnegazione dei docenti, alla dedizione. Ce ne sono anche di meno bravi. Ma sono un’esigua minoranza. La scuola tiene grazie a questo attaccamento”.
Roma Paolo Mazzoli, fisico, ha insegnato per 15 anni nella scuola primaria dedicandosi alla sperimentazione della didattica in scienze con i più piccoli. Poi è diventato dirigente e oggi guida la scuola Angelo Mauri di Roma. Gli chiedo nel merito della finanziaria, legge 111 del 2011. “La finanziaria ha l’art. 19 dedicato alla scuola. Il comma 4 riunisce in istituti comprensivi, con minimo mille alunni, le scuole primarie e medie. Oggi sono in atto ricorsi da almeno 3 regioni. Ma ok: diciamo che, grazie all’abnegazione di chi fa scuola, può essere anche un’occasione. Per costruire una scuola di base, come in Danimarca, fondata sulla continuità dai 3 ai 14 anni. Ma questo si fa solo se ci sono dirigenti per tutte le scuole, cosa che non è. E poi il comma 6 vieta che ci siamo docenti esonerati sotto le 55 classi. Ma come si fa a governare una sfida didattica e un’organizzazione complessa senza un team di coordinamento? Mi verrebbe di proporre di cassare il comma o di annullare qualche migliaio di esoneri e darli alle scuole autonome, una misura a costo zero. Intanto i docenti tengono, sì. Ma c’è bisogno di formazione. I bambini e il mondo sono cambiati e pure le discipline. Perché non estendiamo alle scuole medie e superiori le 2 ore pagate per progettare e riflettere insieme, che è la base di ogni formazione: da 18 a 18 + 2 ore; e alla scuola d’infanzia 23 ore di lezione + 2 di progettazione comune. Ma a patto che ci siano spazi contrattuali e soldi anche per guidarla. E poi sul sapere e su come si trasmette ci vuole una formazione che alzi l’asticella per tutti”.

14 settembre, 2011

Gelmini arrabbiata

(ma per fortuna continua il buon ragionare sulla scuola dei tagli)

Oggi su La Stampa il ministro Gelmini si arrabbia per la critica ai suoi tagli avviata dal mio articolo del 12 settembre (è stato anche letto alla rassegna stampa di radio 3). Ma sullo stesso giornale viene smentita da un documentato pezzo di Flavia Amabile che mostra il costante disinvestimento nell’istruzione, dati OCSE alla mano. Intanto prosegue l’inchiesta a me affidata - “la scuola possibile” - attraverso una serie di interviste. Ieri è uscita la prima parte, che riporto qui sotto. Domani ne esce un’altra dal titolo: rimotivare i docenti dopo questi anni bui. Parlare di merito e proporre soluzioni possibili. Insieme a persone che sanno le cose perché studiano ma anche perché le fanno.
Ecco il senso della cosa. La scuola non esiste. Esistono le scuole. Chiedere a un dirigente o a un gruppo di insegnanti cosa serve per dare speranza all’istruzione fa subito i conti con la grande diversità. Le scuole però hanno anche molte cose in comune e l’esperienza dello stare a scuola è universale. Ma contiene una quantità infinita di diversissime esperienze. Richieste, bisogni, capacità, fallimenti, dibattiti, idee. E’ il cantiere umano più grande e complesso che ci sia. Anche perché è l’unico che tiene insieme le generazioni; e che fa i conti con una questione che riguarda il mondo intero e cioè che tutti abbiamo uguali diritti ma al contempo non siamo affatto uguali. Nelle scuole questo riguarda ogni gesto, parola, intento, azione. Ogni volta.

Filomena Fotia ha la responsabilità di tutte le scuole di Zagarolo, provincia di Roma: dalla scuola d’infanzia fino alla media e poi liceo e istituto professionale. Fa il bilancio partecipato con ragazzi e famiglie, per mostrare come stanno i conti e trovare insieme soluzioni. Sa che anche il personale amministrativo ha disperato bisogno di formazione se no come si amministra nel bel mezzo dei tagli e delle mille maniere necessarie per uscirne. Da cosa parti tu? “Partiamo dal rimotivare i docenti. Sono stati depressi da questi anni bui. Ma sanno ripartire. Con loro ho lavorato sul fondare una scuola della seconda opportunità per chi non ce la può fare e sulla riduzione dei bocciati ma senza regalare niente. Come si fa? Si lavora sulle competenze, a partire da quelle irrinunciabili e poi dalla relazione. Questo implica un mutamento profondo degli approcci verso il come si impara e mette al centro il laboratorio ovunque, anche al liceo. C’è un lavoro di accompagnamento dalla scuola d’infanzia fino alla terza media e oltre. Perché i ragazzi hanno anche bisogno di una presa in carico. E dalle famiglie c’è una richiesta di supporto sul come si educa per la vita. Certo, noi dobbiamo restare scuola. Ma c’è un forte bisogno comunitario.” “E i soldi?” Filomena è di sinistra da sempre. Sa che sta rompendo un tabù: “Senti, io chiedo ai genitori del liceo, come fanno tanti. Cento euro l’anno. E così posso fare una scuola che sia tale. Tutte cose che vanno direttamente ai ragazzi: laboratori, uscite, progetti costruiti insieme a loro. E sto scoprendo che c’è una delega alla scuola da parte della comunità. Perché quei soldi non vanno a tuo figlio ma a tutti, una ridistribuzione. Ed è un atto di fiducia nuovo, un gesto solidale dal singolo verso l’istituzione che si fa garante. Poi faccio alleanze con gli enti locali, ogni volta che è possibile. Non basta chiedere. C’è da condividere quello che si vuole fare. E’ politica in senso proprio.”

Ernesto Passante dirige a Verona tre scuole dell’infanzia, tre primarie, due medie e il centro per adulti. Mille adulti e 750 bambini. Il 40% non sono italiani, eppure quasi tutti nati in Italia. Ha diretto un istituto di ricerca pedagogica. Ha un’esperienza di valutazione dei sistemi educativi: “Sono contro lo straripante pessimismo. Oltre ai tagli che ci segano le gambe c’è anche questo diffuso richiamo nostalgico alla scuola che fu. Che affossa ogni spinta in avanti. Ma quando mai torneremo indietro? E’ cambiato tutto. Bisogna inventare nuove vie.” Quali sono le proposte possibili? “Intanto sempre dare dignità al lavoro dei docenti. Ma ci vuole anche un nuovo contratto. Alcuni stanno qui 32 ore e fanno mille cose, altri fanno quel lavoro specifico. Sono entrambi validi. Ma non è la stessa cosa. Poi, formare i gruppi di insegnanti e non i singoli. Ma farlo accompagnando l’azione con la riflessione comune, guidata. Ci sono docenti senior, preparati, che saprebbero farlo, monitorati. E poi tre cicli di studio: 4 + 4 + 4 anni. Con un anno in meno di scuola per tutti. Grande attenzione al sapere di cittadinanza, quello irrinunciabile, da piccoli. E alle superiori un anno per riprendere tutti i fondamentali e curare il metodo. Ma poi semplifichiamo le discipline intorno ai grandi temi della vita nella biosfera e dell’umanità. Che sono le questioni di cerniera del dibattito odierno. Non si possono più fare decine di materie male. E va rivista la corrispondenza classe-aula. Ci vuole una differenziazione. Non si tratta di dividere in serie A e B ma per livelli, interessi, inclinazioni o debolezze. Di ciascuno. Non è facile questo lavoro, i ragazzi ci sfidano. Le famiglie pure. Una volta allentati i conflitti ci chiedono un tempo infinito in cui essere scuola, assistenza, comunità, terapia. Dobbiamo decidere cosa siamo. E siamo scuola. Poi dobbiamo creare tutte le alleanze e darci il giusto tempo per farlo”.

12 settembre, 2011

Apriamo il cantiere della speranza

Riaprono le scuole. E questo che segue è un mio articolo che "la Stampa" ha pubblicato oggi in prima. Dovrebbe essere il primo di una rubrica appunto dedicata alla scuola e che cercherò di raccogliere qui. 


Riaprono le scuole. Bisogna dire quel che non va. Ma c’è anche da immaginare possibilità, sogni da costruire, speranze. Parlare di scuola oggi vuol dire immaginare una sua rinascita, un cambiamento. Del resto si apprende solo grazie ai cambiamenti. E se lo fanno i nostri ragazzi lo deve fare il Paese. Bisogna partire da una constatazione: non si può guardare alle generazioni future senza permetterne i sogni. Ed è la scuola ben fatta la prima sorgente di quei sogni. Ovunque nel mondo. Eppure, in questa brutta stagione italiana, due tsunami si stanno abbattendo sulle scuole. Il primo tsunami è partito dai tagli lineari del governo. Otto miliardi in tre anni. Che riducono classi, numero dei dirigenti e docenti, ore di scuola e per l’integrazione dei bambini in difficoltà. Il secondo ci arriverà addosso come diretta conseguenza dei tagli agli enti locali, che li costringerà a ridurre i soldi per asili nido, mense, progetti per i giovani, scuole d’infanzia, assistenza ai disabili, edilizia scolastica e sicurezza. Nessun paese occidentale o emergente lo ha fatto, nonostante la crisi.
Oggi siamo a 4,2 % del PIL investito in istruzione, penultimi in Europa. E il "Documento di economia e finanza" (DEF)  approvato a maggio  prevede di far scendere gli investimenti alla scuola fino al 3,4 % di PIL. La media OCSE è 5,7%. E tutti conservano o aumentano i soldi per la scuola. Obama ha appena annunciato investimenti per rispondere alla crisi e tra questi vi sono aumenti agli insegnanti ed edilizia scolastica. Il governo ha operato una scelta folle. Che l’Italia non aveva mai fatto. Né quando, poverissima, iniziò la sua vita di nazione cento cinquanta anni fa, né durante le crisi e le guerre dello scorso secolo. Mai. Perché l’investimento in istruzione contribuisce grandemente allo sviluppo. Infatti ha favorito il nostro boom economico e ora quello di India, Cina, Corea, Brasile. Ci sono sprechi da tagliare? Certamente sì. Ma altro è fare una seria disamina degli sprechi e metterci mano e altro sono tagli che rivelano un massiccio disinvestimento e che, inoltre, si sono operati in modo lineare, senza alcun criterio pedagogico, nella mera ottica del risparmio. Quando tiri via cifre così grandi in questo modo, succedono molte cose diverse e gli effetti sono maggiori della loro somma.
Se aumentano gli alunni per classe diminuisce la possibilità di attenzione rivolta a ciascuno, cala la probabilità di differenziare gli approcci didattici e mettere su laboratori, c’è meno tempo per mettere in contatto le competenze da costruire in classe e le tante cose che i ragazzi imparano anche fuori da scuola. Diventa più difficile creare buone situazioni di verifica e correggere i compiti di ognuno ecc.
Se diminuiscono le ore questi effetti negativi si moltiplicano e, inoltre, c’è meno tempo per parlarsi tra scuole e famiglie.
Se, poi, le nuove immissioni in ruolo dei docenti coprono appena i posti di chi è andato in pensione, allora a gestire le nuove difficoltà sono un numero immutato di precari. I quali cambiano scuola quasi ogni anno. Così diminuisce ancor più la possibilità di costruire una relazione e una costanza di lavoro tra docenti e ragazzi.
Se chi ha difficoltà ha meno sostegno, ciò punisce i più deboli ma anche tutti gli altri.
Se, in aggiunta, questa situazione è governata da un dirigente che non si occupa più di una sola scuola ma di tre – un terzo delle scuole è oggi in questa situazione - allora aumenta il caos e il senso di solitudine di scuole, docenti, genitori.
Fino a quando se ne parla così è un conto. Quando si pensa al proprio figlio ne è un altro. “Perché il prof. non ti ha ancora restituito il compito corretto?” “Perché si sono chiusi i laboratori?” “Perché a Angelina hanno tolto le ore nonostante stesse faticosamente affrontando la dislessia?” “Perché si va meno in palestra?” “Perché non fate più i gruppi di livello di inglese?” Sì, è una follia. Ma anche una miseria umana. Perché qualsiasi comunità che non sa puntare sui suoi figli ha poco cervello ma anche poco cuore. E questo è ancor più vero perché le sfide educative sono aumentate e non diminuite. I modelli educativi sono diventati più fragili e cresce il bisogno di accordarsi tra genitori e docenti. I bambini poveri e la dispersione scolastica non diminuiscono. L’uso diffuso dei media, l’aumento delle complessità del sapere, e delle interconnessioni tra discipline una volta ben distinte o tra teorie e costruzioni pratiche sono tutte cose che comportano un più ricco uso di spazi, tempi e modi di apprendimento.
Le rivoluzioni culturali, politiche, tecnologiche in atto richiedono una scuola più ricca e non certo ridotta a meno ore svolte come ai tempi dei nostri padri. Si impone una radicale riflessione su come cambiare a fondo l’idea stessa di scuola. Un esame di sprechi e conservatorismi inaccettabili è urgente. Molti propongono finalmente stimoli all’innovazione. Ma una stagione di tagli lineari non favorisce affatto queste cose. Si deve subito invertire una rotta basata sul disinvestimento e mettersi nel solco delle politiche internazionalmente accreditate: investimenti efficaci e innovazione. Molte idee già ci sono. Molte scuole creano cose promettenti.
E’ tempo di aprire un cantiere che ridia speranza e opportunità ai docenti, ai genitori e soprattutto ai ragazzi. L’agenda-scuola deve ritornare in cima alla lista.

03 settembre, 2011

Si ricomincia. Dai rifiuti



Già da qualche settimana sono rientrato al lavoro aTrento. Riprendo ora a dire. Domani esce su la Repubblica di Napoli questo mioarticolo, tema i rifiuti… visti da qui e raccontati per come capisco io chestia andando questa battaglia:

I rifiuti sono il grande, perenne tema, anche dei tantinapoletani che vivono lontano. Abbiamo un bisogno folle di toglierci i lunghianni di vergogna dalla faccia. E malediremo sempre chi ce l'ha messa addosso.L’estate è calda qui più che giù. Non c’è brezza dal mare. Per strada mi trovocon alcuni operatori del sociale, emigrati: soldi pagati ogni mese,come non è da noi. Gianni spiega ai colleghi di Trento come è difficile gestirei rifiuti. Ascoltano. Non so se capiscono. Gli dici che ce la faremo e tiguardano in un modo che fa fatica dentro. Franca dice delle telefonate dellesorelle, che raccontano della voglia di pulire della gente del quartiere.
Parto per giù. Incontro Arturo sul solito treno. E’ un ragazzodi Napoli che lavora in un’azienda elettronica in Germania. “Ma il sindaco cela farà con i rifiuti?” Sono i primi di agosto. Arrivo in città. I cumuli delleultime tre volte non ci sono. Nel mio quartiere continua la vigilanza dal bassosull’orario. La gente scende la sera con i sacchetti, disciplinata. Mio figlioe gli altri ragazzi del palazzo differenziano come hanno fatto sempre. Siassumono la fatica di portarli in un altro quartiere. A turno.
A fine mese riparto con le strade sgombre. E appena rientrato alNord, in una solo giornata 4 persone diverse mi chiedono se ci riusciremo, sesi eviteranno nuove crisi.
Ne ragiono dentro di me, guardo i dati. So che la domanda di chiè fuori è la stessa di chi si attiva a Napoli. E’ la sfida per la vita di unacittà. La differenziata è ancora al 17 per cento. E mentre sta per aprirsi lavera battaglia su quel fronte, ci sono da smaltire 1.250 tonnellate al giorno.
Lo racconto a un assessore di qui. Non si rende conto neanchedella cifra, sgrana gli occhi. Gli mostro che, in proporzione alla popolazione,produciamo meno rifiuti… “Sai, siamo piùpoveri, consumiamo di meno”. Annuisce, vuole capire.
La vera battaglia è ladifferenziata. Faccio parte di quelli che lo dicono da sempre. Gli automezzinuovi stanno arrivando. Domani si aprono le buste del bando per i bidoncini:carta, umido, multi materiale, indifferenziata.” “Come da noi!” – dice l’assessore. Mi sembra di stare nel filmBenvenuti al Sud. Gli stereotipi albergano anche nelle persone migliori, cheamano la nostra città. Così lo informo: “Comein tanti comuni virtuosi intorno a Napoli”. “Sai – aggiungo - metteranno ibidoncini sotto i palazzi, ampliando l’utenza da 140 mila a 320 mila persone.Gli indico su un foglio i quartieri. Gireranno strada per strada ad informare.Nei Quartieri Spagnoli - dove non c’è spazio - metteranno i sacchi di coloridiversi in giorni diversi. E’ il mio quartiere. La gente ha voglia di farlo.Nei quartieri dove già è in atto, la percentuale di differenziata è salita congrande rapidità. Chi ha governato prima non aveva voluto credere nella città.”.“E i soldi da dove vengono?” “Circa 9 milioni dal ministro dell’ambiente maintanto e soprattutto da un mutuo” – gli rispondo. “Un muto?” – chiede. “Sì, unmutuo di 43 milioni ottenuto dal Comune. Che serve a gestire il temponecessario a far funzionare la differenziata e intanto tirar via dalle strade esmaltire. Un mutuo che ha ri-finanziato l’Asia, ricapitalizzato”. “Ma l’Asia l’ho vista in tv, era una cosa dabrividi….Non è così” gli dico.Racconto del lavoro all’Asia in questi mesi. Del lavoro tra comune provincia,tra Asia e l’ente provinciale Sapna, della possibilità di un consorzio a breve.
E’ sorpreso. “Ma ora doveva la monnezza e dove andrà mentre si svolge la lunga battaglia per la differenziata?”Descrivo la vicenda, racconto dei luoghi promessi e disdetti. Serre. Savignano.Spiego dei terreni e della densità di popolazione, delle proteste, della faticadi rifare tutto. Ascolta. “Sì, ma dove vala monnezza ora?” La risposta è lunga: “Perora va nel Casertano. Questo è un mese critico, un imbuto. Riaprono le scuole.La discarica molto contestata di Chiaiano ha procedure di controllo in atto eha bisogno di lavori per ottimizzare la capienza. I rifiuti indifferenziativanno agli STIR di Chiaiano, Giuliano. Ci sono ancora code per trattarli.Attese dei compattatori, anche di ore. E’ difficile. Lì vengono tritati,vagliati, divisi, imballati. La parte secca va ad Acerra, dove ora funzionanodue linee. L’umido va in discarica. E questa estate liberata dai rifiuti c’èstata perché il decreto del governo è caduto e perché il consiglio di stato haribaltato il giudizio del TAR; così si sono potuti fare gli accordi conoperatori e enti locali in Emilia e Liguria, tutto con delibere di quelleregioni e secondo i crismi”.“E poi?” – mi chiede. “Poi: andranno prima in Olanda edopo altrove all’estero, fino alla fine dell’anno, con le navi. Grazie a unamanifestazione di interesse già bandita, c’è interesse da parte di tanti”. E comearrivano i rifiuti alle navi?” Gli spiego: “Vengono messi in delle balle nei siti di trasferenza e portati al portograzie a un contratto locale in seguito a un bando e messe sulle navi, portatevia e poi trattati e valorizzati grazie a un altro contratto, con l’estero”. “Ma c’è uno spreco di denaro pubblico..quanto costa?” “Lo spreco c’è e lavia maestra è la differenziata. Ma intanto c’è da smaltire e da creare unflusso proporzionato alla produzione. E costa meno che in Italia: la nave costamolto ma il trattamento pochissimo. Con la concorrenza dovuta al nuovo bando sispera di abbassare i costi”. Annuisce l’assessore del Nord: “Perché non le dite queste cose in giro?”.
Mi allontano. Penso che la battaglia sarà lunga. Ma che vi è unacredibilità nuova che la permette. E che ogni passaggio di questa civile faticava raccontata, fuori e dentro Napoli, con dovizia di particolari. Soprattuttoai cittadini di Napoli. Che capiranno le difficoltà e potranno misurarsi con lacomplessità - che è la base di ogni apprendimento. E che potranno attivarsimeglio sapendo la fatica del percorso. E’ questa la vita democratica.