30 marzo, 2011

Nessuno è perfetto: Clara Sereni a Napoli

(SegnalAzioni educative)

Le censure verso la diversità e la malattia mentale limitano la ricerca di risposte vitali, contribuiscono a lasciare nell’isolamento le famiglie colpite, impediscono una dimensione più libera e umana. Anche in questa edizione del 2011 dell’Arte della Felicità, l’associazione Nessuno è perfetto ha trovato un suo spazio specifico di riconoscimento, per provare ad articolare, proprio sullo sfondo del tema della solitudine, un colloquio intimo e pubblico. Un colloquio che si carica di attesa fiduciosa: provare a parlare di tematiche dolorose, generalmente rimosse, per cercare di andare oltre pudori e difese.
La presenza a Napoli di Clara Sereni, nell’incontro organizzato dall’associazione, consente di intrecciare dimensioni diverse. Il senso dell’invito sta nella possibilità di incontrare il rigore della sua scrittura, che assume in sé il vissuto, trasfigurandolo. Il contatto personale con il tema della diversità diventa, nella solitudine della narrazione, occasione per raccontare un mondo che suscita emozioni e riflessioni. Rifuggendo da tentazioni banalmente consolatorie, Clara Sereni propone spesso la quotidianità di un’esperienza, diversa e uguale a tante, che nell’intensità della parola trova la sua singolarità. Attraversa tematiche scomode che toccano sfere esistenziali di ogni autentica letteratura, e la scomodità è il risultato di uno scavo lucido e profondo che non offre facili ripari, pur aprendo varchi di lievità. La parola e il racconto restano nudi, per restituire la nudità dell’isolamento, da cui trarre tutta la forza e la dignità possibili.

28 marzo, 2011

Se la scuola avesse le ruote - (SegnalAzioni educative)

Con questa recensione vorrei iniziare a recensire libri, articoli, esperienze, incontri e variabilia in campo educativo e affini

Undici anni fa mi sono occupato di Colin Ward, curando, insieme a mia moglie, la traduzione e introducendo i suoi scritti su bambini e città. Lì dove l’anarchico inglese mostrava come il girare, l’esplorare, anche con la scuola – quando questa apre le sue mura verso il mondo – permette e sollecita un’idea di apprendimento ampia, complessa, ariosa… capace di piegare la città alla crescita e non viceversa.

Ancora oggi il nome di Colin si lega a una prospettiva di apprendimento come scoperta, migliore senso di sé; e di competenza, intesa in maniera ricca, variegata – che travalica gli steccati tra quel che è formale e quel che non lo è. E aiuta anche a mettere in forse l’idea di sviluppo qual è ora.

Il medesimo senso liberatorio che avevo sentito quando ho lavorato ai pensieri di Colin Ward l’ho provato qualche sabato fa. Quando ho presentato a Milano  il bellissimo libro di Emilio Rigatti: Se la scuola avesse le ruote. Si tratta della scrittura, con molte ispirazioni alte e forti esperienze ben coese con il pensiero, di un prof. friulano, ben noto nel mondo della bici, che da molti anni porta le classi di scuola media a ri-scoprire la sua e ogni altra disciplina, pedalando – da cui la pedalogia…
Libro da leggere davvero.
Perché:

1. parla in dettaglio dei “giri in giro” (categoria che mi è venuta in mente a me, leggendolo, presa da Bruce Chatwin) di ragazzini e insegnanti, d’accordo con genitori, fatti insieme con i ragazzini delle medie in bici – roba vera, dunque; e di come si prepara e di come evitare guai e di cosa arreca alla crescita del gruppo e di ognuno;
2. perché mostra che una scuola che va verso il mondo è possibile e anche quali sono i modi per renderla tale;
3. perché fa capire che il governo educativo dei tanti ragazzini così bistrattati dall’Italia adulta di oggi intanto è possibile se si fanno cose che abbiano valenza sia operativa che simbolica, forti, concrete, aperte alla scoperta insieme… Il contrario della stantìa scuola trasmissiva… E con ottimi risultati anche nelle competenze più tradizionali. Come sempre è stato per la buona scuola attiva.

25 marzo, 2011

Cose delle ultime settimane


Alcune segnalazioni su cose delle ultime settimane.

Ho parlato in Piazza del popolo a Roma. Non per dire, ma era per la scuola pubblica e la Costituzione. La mia performance è qui. So che devo imparare, anche a modulare la voce.

Ho risposto anche ad alcune domande che mi hanno fatto gli amici del Movimento di cooperazione educativa della Sardegna sul recente libro sulla scuola di Paola Mastrocola, molto dibattuto in giro – ne avevo parlato anche su Il Corriere della Sera qualche settimana fa.

A proposito di libri sulla scuola: dalla settimana prossima conto di fare alcune recensioni.

17 marzo, 2011

L'Italia che esiste

L’altro ieri, nel treno che partiva verso nord da Reggio Emilia – imbandierata di vessilli della Repubblica Cispadana –una bimba dello Sri Lanka portava, contenta, una coccarda tricolore mentre, a due passi, un giovane con un’elettrica cravatta verde leggeva un giornale grossolanamente titolato contro l’Italia.
Nel vagone pienissimo del regionale, due trentenni, uno senegalese e uno italiano, parlavano di lavoro, riferendosi a una ditta che spostava i cantieri su e giù per il nord, strappando piccole e incerte commesse alla concorrenza, sempre più dura in tempi di prolungata crisi. Poi la conversazione si è allargata. Prima al campionato di calcio. E poi alla tragedia giapponese.
Fuori sfilavano i capannoni che ho imparato a riconoscere, quelli attivi e quelli chiusi. E le lunghe strisce di verde, del grano e dell’orzo che iniziano a salire. L’ammirazione per la composta reazione dei cittadini giapponesi, nel parlare vivace dei due che mi sedevano vicini, si mescolava all’interrogativo che abbiamo in tanti: “Ma noi sapremmo fare così? “Noi” – proprio così ha detto il ragazzo del Senegal.

All’arrivo a Trento ho visto in autobus un controllore giovanissimo, con due orecchini d’argento, che chiedeva il biglietto a una ragazza con la testa coperta dal velo e intensi occhi neri, forse maghrebina. La quale gli porgeva la tessera di abbonamento con su indicato la facoltà di giurisprudenza. Lui le rivolgeva con cortesia la parola con una forte inflessione napoletana e lei rispondeva con un accento trentino. Poi è salita una scolaresca. Un quarto erano bambini i cui genitori non erano italiani. E tutti parlottavano fitto nella nostra meravigliosa lingua, oggi veicolo comune di conoscenza del mondo, eccitati come sono i bimbi in gita.
Nel pomeriggio un’operatrice sociale, emigrata al nord perché nessun governo della nostra bella città e della nostra bella regione, né di destra né di sinistra, è mai stato capace di assicurare la “giusta mercede” per il faticoso e prezioso lavoro di strada con i nostri ragazzi, mi parlava dello spaesamento provato tornando per il week-end a Napoli. Con dentro l’acuta nostalgia per i luoghi così cari, la vergogna insostenibile per lo stato nel quale sono e la insopprimibile indignazione per un intero ceto politico, miserevole e baro. Mentre parlava ho ripensato a quel che capita ogni volta che si scambiano parole tra i tanti napoletani che - nelle università, nelle fabbriche e nelle imprese, nella ricerca e nelle scuole, nel lavoro sociale e nei servizi - vivono lontano dai loro luoghi.
Tante volte il conversare dei nuovi emigranti da Napoli racconta come impariamo a riconoscere l’Italia, complicata e varia. E così diversa da come ce la siamo troppo facilmente voluta immaginare. E, chissà perché uno strano volo della mente riporta le parole alla nostra città. Che è ferita ma deve pur rinascere.
L’Italia c’è. Esiste. Nonostante molte miserie e brutture. E’ piena di persone che, ovunque, danno l’anima per farla migliore. E credono, con ingegno e lavoro, a quel che fanno. Ma questa Italia – complicata e difficile - non è rappresentata dai riti ripetuti delle accuse reciproche tra nord e sud.
E in questi giorni dei centocinquanta anni dell’Italia unita davvero non convincono più le stantie accuse al Mezzogiorno di essere la zavorra di un paese che sarebbe, altrimenti, ricco e felice. Che si fanno scudo ogni volta di alcuni dati economici, senza vederne altri e senza scrutare la storia. Né vedere che le strade e le produzioni materiali e immateriali del nord vedono, insieme, le menti e le braccia di tutta Italia, ancora una volta e come sempre è stato; e, ancor più, vedono insieme le braccia e le menti che vengono dal mondo intero. Ma – francamente - neanche persuade più l’indicare ogni volta il dito verso il nord, mostrando le colpe dei nostri disastri solo fuori e lontano da noi.

E’ davvero venuto il tempo di dire basta ai rappresentanti politici e agli sciatti ideologi di una cosa e dell’altra. Che, entrambi, appartengono a combriccole provinciali e interessate. E perciò incapaci di guardare la storia comune nella sua faticosa complessità e cieche dinanzi alle potenti interazioni che costituiscono il mondo globale nel quale i nostri figli stanno crescendo.
Le cose che contano e che conteranno richiedono un’altra prospettiva. I grandi temi e i grandi compiti – gestione dell’energia e delle risorse, salvaguardia dei nostri luoghi, nuove produzioni sostenibili e saperi che le rendano possibili, effettivo esercizio dei diritti e necessità di nuova etica pubblica – le cose vere del comune domani dicono a tutti, a chiare lettere, che i piccoli orticelli, le demagogie d’occasione, le semplificazioni d’accatto in vista delle ennesime tornate elettorali sono esercizi che non vanno più sopportati. Perché negano ogni idea accettabile di politica e di convivenza.
Se questo vale per l’Italia, vale ancora di più per Napoli. Le risorse, che pure esistono, che la rimetteranno in piedi – come in tanti auspichiamo con disperata speranza, nonostante tutto – possono essere ancora messe in campo. E possono addirittura dare un segnale di cambiamento anche al resto d’Italia. Ma solo se la politica esce dalla difesa di sé e torna ai compiti veri, quelli centrati sull’interesse comune. Per Napoli questo significa riprendere la lezione migliore del meridionalismo. Che rifiutò sempre il piagnisteo anti-nordista. Perché riconosceva in esso “il piangi e fotti” del notabilato meridionale. Per dedicarsi alle cose da fare per la città.

Sì, ancor oggi c’è da riprendere l’agenda del fare possibile. E mettere distanza da quel “blocco di potere sociale e politico meridionale” che, fin dall’unità, fu denunciato dal meridionalismo, sia liberale che socialista che cattolico. Perché, trasversalmente a molte appartenenze, non mirava – così come non mira oggi - alla crescita equilibrata del tessuto economico e sociale. Bensì alla rendita e alla conservazione di sé, oggi anche a costo di ogni compromesso con gli immensi profitti del malaffare. E attraverso le clientele elettorali. Che sono quel reticolato di fedeltà e gerarchie costruito intorno a un sistema di privilegi parassitari che affogano le opportunità di democrazia.
E’ la battaglia contro tutto questo che potrà dare speranza alla nostra città. E, anche da Napoli, contribuire a ridare speranza alla vicenda nazionale.

Uscirà su la Repubblica Napoli di domani.

11 marzo, 2011

Napoli e oltre Napoli

C’è Napoli. Temevo che il gioco per la corsa a sindaco fosse finito. Ed ecco che oltre a De Magistris c’è Morcone. Anche se condite da prese di posizione dal sapore vetusto (link:
o strambo, o da mettere a fuoco, in ogni caso le cose a Napoli si stanno muovendo. C’è evidente vera divisione.
E non solo nel centro-sinistra. Ma forse la situazione fa sì che il sistema elettorale a doppio turno faccia superare lo scandalo delle primarie, rimescoli le carte; e spinga a votare al primo turno: sono talmente tanti i candidati che vale la pena riuscire a spingerne uno decente al ballottaggio. Proverò a scriverne la settimana prossima.

Intanto, oltre Napoli, questo sabato sarò a Roma per la difesa della scuola pubblica.
Parlerò dal palco di piazza del Popolo. Dirò che la scuola è per tutti. Ma è innanzitutto per chi non ha altri modi di allargare il proprio orizzonte di speranza e di opportunità nella vita. La giornata di sabato è anche in difesa della Costituzione. Qui sotto c’è quanto ho scritto su l’Unità di oggi:

In piazza per scuola e Costituzione
Andiamo nelle piazze per difendere la Costituzione e la scuola pubblica. Perché pensiamo che l’Italia, che noi tutti non ne possiamo fare proprio a meno. E non ne possiamo fare a meno perché sono due cose che hanno la rara qualità di essere, ad un tempo, vitali e sacre. Vitali perché consentano a un organismo complessissimo – quale è la società – di regolarsi e di continuare a vivere nel tempo, generazione dopo generazione. Sacre perché contengono le qualità simboliche che permettono di tenere insieme una comunità fatta di milioni di persone diverse secondo un diritto che è uguale.
La nostra Carta sa mettere insieme, in modo chiaro, non solo i diritti e i doveri ma “quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi” – come scriveva Piero Calamandrei. In questi anni abbiamo vissuto e stiamo vivendo un tempo grave non perché si è pensato o si pensi di cambiare questa o quella parte della Costituzione, cosa del tutto prevista dalla Carta stessa. E normale col passare del tempo. Se fatta per concorde adesione. Il tempo grave che viviamo è dato dal fatto che si stanno continuamente attaccando proprio “quegli organi” – e il delicato equilibrio tra di essi – “attraverso i quali la politica si trasforma in diritto”. Questo non deve accadere. E siamo qui per impedirlo. Perciò: non si tratta di una battaglia di parte né di conservazione. E’ una battaglia per tutti, anche per quelli che oggi non lo vogliono capire. Ed è una battaglia che permette di continuare a cambiare. Perché c’è la certezza del come farlo, delle condizioni entro le quali le trasformazioni non diventano distruzioni, non minacciano la casa comune.
La nostra scuola ogni mattina mette insieme i mondi interiori di ogni bambino e ragazzo che sta crescendo con quello di ciascun altro e, al contempo, con l’universo mondo, le sue leggi, la sua storia, i suoi problemi e i molti alfabeti che servono a leggerlo. E’ in questa doppia funzione – mettere insieme persone diverse e apprendere – che vi è vitalità e sacralità. La scuola è chiamata ad assolvere a questo suo compito in modi nuovi. E deve trasformarsi proprio perché sono mutate e stanno mutando sia le condizioni dello stare insieme tra diversi sia il mondo sia gli strumenti attraverso i quali lo si guarda e lo si può capire, salvaguardare e cambiare. Il tempo grave che stiamo vivendo è dato dal fatto che si metta in discussione la scuola nel suo carattere pubblico e protetto – e, dunque, altro da casa - nel quale ci si confronta tra diversi ed uguali mentre si sta crescendo e si sta imparando a stare al mondo e a conoscerlo. Anche per la scuola questa non è una battaglia di parte né di conservazione. E’ per tutti e per ciascuno. Ed è per consentire che la scuola, salvaguardata, possa cambiare.