22 settembre, 2011

Il Principe di Danimarca e un po' di un lobbying per i nostri ragazzi


È uscito per Sellerio il bel libro di Carla Melazzini, Insegnare al Principe di Danimarca. Lo si sta presentando in moltissimi posti, tra i quali la Feltrinelli di Napoli, oggi alle 18. Intanto Cesare Moreno, che il libro ha curato, esprime assai bene le medesime preoccupazioni sui nostri ragazzi che ho espresso ieri su l'Unità e lancia il progetto E-VAI. Di questo avevamo parlato alla festa pd di Milano insieme e lo rifaremo a Verona, lunedì 26.

21 settembre, 2011

Una patrimoniale dedicata ai ragazzi poveri

Sulla prima pagina de l’Unità del 21 settembre è uscito questo mio articolo, titolato “La scuola non può escludere” ma che prosegue all’interno con il titolo “L’esclusione si può battere con cinque mosse”. È la proposta di una patrimoniale utilizzata per sostenere i giovani poveri. E mette in campo proposte concrete. Eccolo: 

Mentre la metà dei giovani italiani - anche quando diplomati e laureati - ha un lavoro incerto o non lo ha, vi è il 20% di tutti i ragazzi tra i 15 e i 25 anni che non hanno completato la scuola superiore né hanno ottenuto una qualifica professionale spendibile.
Il loro fallimento a scuola è precoce, si vede presto. Ha bisogno, per essere vinto, di supporto speciale e costante lungo gli anni – dalla prima infanzia fino a tutta l’adolescenza. Un supporto che oggi non c’è. Anche perché l’offerta di istruzione è troppo standardizzata per poter affrontare un’esclusione sociale e culturale multi-dimensionale, che ha bisogno di azioni flessibili, mirate, innovative e concordate tra le scuole e fuori.
Sono tutti ragazzi poveri che vengono da famiglie povere. Sono due milioni. Sono spesso analfabeti funzionali: parlano, scrivono, leggono male, non conoscono i loro diritti; pur esposti ai media non hanno strumenti di lettura del mondo, delle informazioni, delle opportunità. Sono concentrati nelle aree urbane, nelle periferie sempre più abbandonate soprattutto del Mezzogiorno, ma non solo. Spesso hanno alle spalle storie di profonda frustrazione vissuta in modo ripetuto a casa, nel quartiere, a scuola. Una storia senza conferme positive.
Cosa fanno? Cercano vie di uscita, si parlano sul cosa e come fare, nutrono sogni nonostante tutto. Fanno prove eroiche di emancipazione. Provano ad emigrare al Nord. Alla mercé di nuovi caporalati fanno tentativi faticosi di indipendenza e entrano e escono dal lavoro incerto o al nero. Provano a crescere, così, entro un girotondo di esperienze le cui costanti sono l’estrema brevità del rapporto di lavoro, il bassissimo reddito, le condizioni di lavoro non protetto e il grado basso di competenza e apprendimento richiesto per le mansioni svolte. Ovunque sono a un passo dall’alcool e dalle droghe alle quali devono saper dire di no. Ovunque circondati dal piccolo crimine di sussistenza nei quali cadono in una minoranza. In quattro grandi regioni sono anche nella immediata prossimità della criminalità organizzata, alla quale, in maggioranza, sanno resistere. Non hanno rappresentanza politica né sindacale.
Non hanno banche o forme di credito solidale su cui contare per mettere su una qualche storia di auto-promozione e di rinascita personale. Vengono aiutati da un privato sociale che, però, è ormai stremato in un paese privo di welfare.
Senza via di riscatto né supporto che sia tale pesano sulle famiglie più povere d’Italia. Lì dove la crisi pesa trenta, cinquanta volte di più. Di fronte alla scena dei giovani poveri d’Italia, noi - che ci candidiamo alla guida del Paese – dobbiamo a loro e a noi stessi una presa di posizione. Che sia chiara, concreta. Che sia impegno politico, civile e etico insieme.
Che si faccia una patrimoniale subito. Le cui risorse siano utilizzate, in modo diretto, a ridare la speranza innanzitutto a questi ragazzi e ragazze. I soldi vengano dati alle regioni e alla grandi città. Come è stato per la 285 del primo governo Prodi. Sappiamo dove: le grandi aree urbane del Sud e le periferie povere delle città in generale. Si mettano su dispositivi semplici, che già hanno funzionato. Ci si concentri su 5 cose che tutte le esperienze mondiali ci ripetono che sono le cose da fare:

  1. aumentare scuole materne e nidi e soprattutto rafforzare l’istruzione di base negli istituti comprensivi, dando più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato, a partire dalle aree metropolitane del Sud, creando vere e proprie zone di educazione prioritaria nella aree di massima concentrazione della dispersione scolastica; 
  2. puntare sul sistema di formazione professionale - che in alcune aree già argina questa specifica crisi - con al centro un triennio di intenso lavoro intorno al sapere fare, ai mestieri, con l’aggiunta di ore ben dedicate alle competenze di cittadinanza - saper leggere e scrivere, capire discorsi, seguire procedure logiche, usare i nuovi media; 
  3. creare task-force in tutte le aree più depresse, che coinvolgano, in progetti ad personam, scuole, imprese, parrocchie, centri sportivi, sindacati; 
  4. rafforzare le ore di alfabetizzazione nell’apprendistato e offrire un pacchetto di 300 ore annue personalizzate ai giovani adulti tra i 18 e i 28 anni, per acquisire le competenze minime necessarie per stare al mondo; 
  5. avviare un piano di sostegno al micro-credito - d’accordo con banche, fondazioni e responsabilità sociale di impresa - per progetti di vera promozione di impresa, con procedure rigorose, controlli severi ma anche forte sostegno educativo. C’è da buttare giù questo governo. Ma c’è anche da dare subito speranza a chi ne ha più bisogno.

20 settembre, 2011

Proposte dalla scuola

Sta continuando la mia inchiesta su La Stampa. Ecco la seconda puntata uscita il 15 settembre – con voci da Basilicata e Torino. 


Al di là dell’interpretazione delle cifre, i soldi investiti nella scuola scendono da anni. Non c’è dirigente, docente o genitore che non lo avverta. Ma c’è una novità nell’aria: le scuole si domandano se questo non sia comunque il tempo di smettere di lamentarsi e innovare coi mezzi che ci sono. Da dove partire?

Basilicata Lo chiedo a Pancrazio Toscano. Da poco in pensione. Maestro elementare fin da giovane e ricercatore di geografia. E’ di Tricarico, Basilicata, paese del quale è stato anche sindaco. Da maestro aveva inventato, negli anni settanta, la classe itinerante. Portava i bimbi a esplorare e studiare i territori dal punto di vista geografico, storico, scientifico, letterario. Con un accordo con l’Alitalia li ha persino portati gratuitamente a volare “per vedere e disegnare l’Italia dall’alto”. E’ stato dirigente scolastico a Como, in una difficile periferia romana, nei paesini e nelle città lucane. “Si parte da cos’è la scuola dell’obbligo, che è 'il luogo intenzionalmente organizzato per apprendere insieme ad altri, non consanguinei’. Il che significa che anche noi che insegniamo dobbiamo farlo. Il fulcro è il gruppo docente in azione, che riflette sul da farsi. Questo è al contempo formazione. Certo, ci vuole una manutenzione culturale, un accompagnamento. E il dirigente deve tornare ad essere - insieme ad altri facilitatori rispettosi - innanzitutto persona di scuola, attenta alla postura delle risorse umane. Sì, postura: guardare in alto per non cadere. E poi dedicarsi artigianalmente al come e al cosa si fa, ogni giorno. Con tutti i docenti. Perché solo il 5% non lo farà mai. Ed è assurdo che solo la scuola primaria faccia due ore a settimana nelle quali ci si confronta su quel che si fa. Prima proposta: estendere questa esperienza a medie e superiori. Anche la formazione iniziale va fatta sul cosa e il come, stando a scuola, con docenti più esperti. Ci vuole molta cura delle relazioni, tempi lenti e procedure costanti. Quel che vale per i ragazzi vale anche per gli adulti. Bisogna tutti tornare a imparare. C’è un evidente calo di motivazione? Per rimotivare bisogna anche differenziare. Ma – attenzione! - tenendo i gruppi uniti. Lo skipper deve tenere uniti tutti usando bene ogni differenza. Ma poi annusa il vento. Ci siano singoli docenti bravi e cattivi. Ma fermarsi a questo significa non sapere come è una scuola e non dà spazio alle parti promettenti di ognuno e alla forza pacata di un gruppo. E io ho visto che più c’è costruzione di laboratori, di invenzioni comuni, di ricerca di rigore dentro ogni novità più c’è coinvolgimento dei ragazzi e più crescono anche i docenti”.
Torino Giulia Guglielmini è dirigente da 5 anni. Prima aveva insegnato in ogni ordine di scuola, dalle primarie all’università. “Sì, ci sono incerte risorse economiche e nell’organico, mobilità degli alunni, ecc. Ma qui - zona di Porta Palazzo, Torino - sento che si è in un punto strategico, un centro vero, che induce cambiamenti. Perché apre alla multi cultura, al mondo globale. E questo spinge a cambiare i modi della scuola e alla riflessione, alla creatività: apprendimento cooperativo, laboratori, azioni personalizzate, differenziazioni senza escludere, lavoro con i genitori, sinergie continue con il volontariato. Le nostre vive pratiche sono altrettante riforme messe già in campo. Ma il confronto nazionale tra tante esperienze così – ecco il sogno nel cassetto – può avvenire grazie a un forte sviluppo delle reti professionali di chi insegna, del confronto tra gruppi docenti e scuole attraverso il web 2.0, gratuito, comunitario, fondato sul lavoro svolto, sulle idee attuate. Vorrei scuole con più soldi perché siano sicure ed accoglienti. E per fortuna ci sono i genitori che si attivano, ridipingono le aule, tengono su la scuola. Perché la scuola pubblica è sentita come luogo di costruzione di futuro. E oggi regge alla crisi perché ci sono docenti, bidelli, genitori, dirigenti che ci credono”.


E qui c’è il terza puntata, uscita il 19, con voci da Cagliari, Napoli, Roma:
Chi fa scuola ogni giorno può anche protestare ma poi si rimbocca le maniche.
Cagliari “Anche se senti falsi o lontani i comunicati del Ministero, quello che conta all’avvio di anno è rispondere agli alunni, è la relazione educativa, il legame con chi impara, l’artigianato della didattica riscoperto con i tuoi colleghi. Non è rassegnazione, siamo indignati. Ma sentiamo la responsabilità civile. E anche un’altra cosa: l’attaccamento al lavoro, la non rinuncia”. Insegnante di ruolo da 29 anni, esperta di didattiche attive del movimento di cooperazione educativo, Luisanna Ardu è maestra in una scuola del centro di Cagliari con 900 alunni. “Stiamo riprovando di fare le classi aperte, come negli anni settanta, mettendo insieme 40 bambini per poi fare gruppi, ricomporli, riorganizzarsi per difendere la scuola attiva, quella che non incolla nei banchi ma crea azione, entusiasmo, possibilità, favorendo le compresenze rese difficili dal taglio delle ore. Non possiamo rinunciare al nostro saper fare scuola, alle esperienze, ai risultati di tanti anni. Sarebbe un rinnegare se stessi, una dignità”.
Napoli Il senso di queste parole lo conferma Paola Carretta. Ha insegnato lettere nella difficilissima periferia orientale di Napoli. Poi è stata dirigente nelle scuole difficili del centro storico e poi a Piscinola, Pianura, Soccavo. La scuola Pirandello a ordinamento musicale - che ha appena lasciato per andare in pensione - ha 700 alunni. “E’ da anni che abbiamo imparato a fare le nozze coi fichi secchi, senza che il dibattito pubblico del Paese se ne occupasse. Qui, nella scuola di base, dove si crea cittadinanza, il progetto su cittadinanza e Costituzione, che ha visto una partecipazione entusiasta dei ragazzi deve cercare oggi i soldi nel pacchetto sulla sicurezza. Scoviamo fondi sempre più scarni ovunque, con difficili negoziazioni. Perché è da tempo che i soldi a sostegno dell’autonomia delle scuole – legge 440 del 1997 – sono una chimera. Qui, fino al 2013, c’è ancora qualcosa dal Fondo sociale europeo per l’obiettivo dedicato al Mezzogiorno. Ma poi? Si fa fatica a fare bene la musica, gli strumenti non possiamo comprarli più per i ragazzini meno fortunati; è faticoso tenere in piedi il progetto sportivo fondato sul canottaggio; bisogna letteralmente inventarsi come curare le competenze cruciali in Italiano, matematica, lingue straniere, quelle misurate dall’OCSE. Eppure a continuare a fare queste cose ci si riesce. Ma solo grazie all’abnegazione dei docenti, alla dedizione. Ce ne sono anche di meno bravi. Ma sono un’esigua minoranza. La scuola tiene grazie a questo attaccamento”.
Roma Paolo Mazzoli, fisico, ha insegnato per 15 anni nella scuola primaria dedicandosi alla sperimentazione della didattica in scienze con i più piccoli. Poi è diventato dirigente e oggi guida la scuola Angelo Mauri di Roma. Gli chiedo nel merito della finanziaria, legge 111 del 2011. “La finanziaria ha l’art. 19 dedicato alla scuola. Il comma 4 riunisce in istituti comprensivi, con minimo mille alunni, le scuole primarie e medie. Oggi sono in atto ricorsi da almeno 3 regioni. Ma ok: diciamo che, grazie all’abnegazione di chi fa scuola, può essere anche un’occasione. Per costruire una scuola di base, come in Danimarca, fondata sulla continuità dai 3 ai 14 anni. Ma questo si fa solo se ci sono dirigenti per tutte le scuole, cosa che non è. E poi il comma 6 vieta che ci siamo docenti esonerati sotto le 55 classi. Ma come si fa a governare una sfida didattica e un’organizzazione complessa senza un team di coordinamento? Mi verrebbe di proporre di cassare il comma o di annullare qualche migliaio di esoneri e darli alle scuole autonome, una misura a costo zero. Intanto i docenti tengono, sì. Ma c’è bisogno di formazione. I bambini e il mondo sono cambiati e pure le discipline. Perché non estendiamo alle scuole medie e superiori le 2 ore pagate per progettare e riflettere insieme, che è la base di ogni formazione: da 18 a 18 + 2 ore; e alla scuola d’infanzia 23 ore di lezione + 2 di progettazione comune. Ma a patto che ci siano spazi contrattuali e soldi anche per guidarla. E poi sul sapere e su come si trasmette ci vuole una formazione che alzi l’asticella per tutti”.

14 settembre, 2011

Gelmini arrabbiata

(ma per fortuna continua il buon ragionare sulla scuola dei tagli)

Oggi su La Stampa il ministro Gelmini si arrabbia per la critica ai suoi tagli avviata dal mio articolo del 12 settembre (è stato anche letto alla rassegna stampa di radio 3). Ma sullo stesso giornale viene smentita da un documentato pezzo di Flavia Amabile che mostra il costante disinvestimento nell’istruzione, dati OCSE alla mano. Intanto prosegue l’inchiesta a me affidata - “la scuola possibile” - attraverso una serie di interviste. Ieri è uscita la prima parte, che riporto qui sotto. Domani ne esce un’altra dal titolo: rimotivare i docenti dopo questi anni bui. Parlare di merito e proporre soluzioni possibili. Insieme a persone che sanno le cose perché studiano ma anche perché le fanno.
Ecco il senso della cosa. La scuola non esiste. Esistono le scuole. Chiedere a un dirigente o a un gruppo di insegnanti cosa serve per dare speranza all’istruzione fa subito i conti con la grande diversità. Le scuole però hanno anche molte cose in comune e l’esperienza dello stare a scuola è universale. Ma contiene una quantità infinita di diversissime esperienze. Richieste, bisogni, capacità, fallimenti, dibattiti, idee. E’ il cantiere umano più grande e complesso che ci sia. Anche perché è l’unico che tiene insieme le generazioni; e che fa i conti con una questione che riguarda il mondo intero e cioè che tutti abbiamo uguali diritti ma al contempo non siamo affatto uguali. Nelle scuole questo riguarda ogni gesto, parola, intento, azione. Ogni volta.

Filomena Fotia ha la responsabilità di tutte le scuole di Zagarolo, provincia di Roma: dalla scuola d’infanzia fino alla media e poi liceo e istituto professionale. Fa il bilancio partecipato con ragazzi e famiglie, per mostrare come stanno i conti e trovare insieme soluzioni. Sa che anche il personale amministrativo ha disperato bisogno di formazione se no come si amministra nel bel mezzo dei tagli e delle mille maniere necessarie per uscirne. Da cosa parti tu? “Partiamo dal rimotivare i docenti. Sono stati depressi da questi anni bui. Ma sanno ripartire. Con loro ho lavorato sul fondare una scuola della seconda opportunità per chi non ce la può fare e sulla riduzione dei bocciati ma senza regalare niente. Come si fa? Si lavora sulle competenze, a partire da quelle irrinunciabili e poi dalla relazione. Questo implica un mutamento profondo degli approcci verso il come si impara e mette al centro il laboratorio ovunque, anche al liceo. C’è un lavoro di accompagnamento dalla scuola d’infanzia fino alla terza media e oltre. Perché i ragazzi hanno anche bisogno di una presa in carico. E dalle famiglie c’è una richiesta di supporto sul come si educa per la vita. Certo, noi dobbiamo restare scuola. Ma c’è un forte bisogno comunitario.” “E i soldi?” Filomena è di sinistra da sempre. Sa che sta rompendo un tabù: “Senti, io chiedo ai genitori del liceo, come fanno tanti. Cento euro l’anno. E così posso fare una scuola che sia tale. Tutte cose che vanno direttamente ai ragazzi: laboratori, uscite, progetti costruiti insieme a loro. E sto scoprendo che c’è una delega alla scuola da parte della comunità. Perché quei soldi non vanno a tuo figlio ma a tutti, una ridistribuzione. Ed è un atto di fiducia nuovo, un gesto solidale dal singolo verso l’istituzione che si fa garante. Poi faccio alleanze con gli enti locali, ogni volta che è possibile. Non basta chiedere. C’è da condividere quello che si vuole fare. E’ politica in senso proprio.”

Ernesto Passante dirige a Verona tre scuole dell’infanzia, tre primarie, due medie e il centro per adulti. Mille adulti e 750 bambini. Il 40% non sono italiani, eppure quasi tutti nati in Italia. Ha diretto un istituto di ricerca pedagogica. Ha un’esperienza di valutazione dei sistemi educativi: “Sono contro lo straripante pessimismo. Oltre ai tagli che ci segano le gambe c’è anche questo diffuso richiamo nostalgico alla scuola che fu. Che affossa ogni spinta in avanti. Ma quando mai torneremo indietro? E’ cambiato tutto. Bisogna inventare nuove vie.” Quali sono le proposte possibili? “Intanto sempre dare dignità al lavoro dei docenti. Ma ci vuole anche un nuovo contratto. Alcuni stanno qui 32 ore e fanno mille cose, altri fanno quel lavoro specifico. Sono entrambi validi. Ma non è la stessa cosa. Poi, formare i gruppi di insegnanti e non i singoli. Ma farlo accompagnando l’azione con la riflessione comune, guidata. Ci sono docenti senior, preparati, che saprebbero farlo, monitorati. E poi tre cicli di studio: 4 + 4 + 4 anni. Con un anno in meno di scuola per tutti. Grande attenzione al sapere di cittadinanza, quello irrinunciabile, da piccoli. E alle superiori un anno per riprendere tutti i fondamentali e curare il metodo. Ma poi semplifichiamo le discipline intorno ai grandi temi della vita nella biosfera e dell’umanità. Che sono le questioni di cerniera del dibattito odierno. Non si possono più fare decine di materie male. E va rivista la corrispondenza classe-aula. Ci vuole una differenziazione. Non si tratta di dividere in serie A e B ma per livelli, interessi, inclinazioni o debolezze. Di ciascuno. Non è facile questo lavoro, i ragazzi ci sfidano. Le famiglie pure. Una volta allentati i conflitti ci chiedono un tempo infinito in cui essere scuola, assistenza, comunità, terapia. Dobbiamo decidere cosa siamo. E siamo scuola. Poi dobbiamo creare tutte le alleanze e darci il giusto tempo per farlo”.

12 settembre, 2011

Apriamo il cantiere della speranza

Riaprono le scuole. E questo che segue è un mio articolo che "la Stampa" ha pubblicato oggi in prima. Dovrebbe essere il primo di una rubrica appunto dedicata alla scuola e che cercherò di raccogliere qui. 


Riaprono le scuole. Bisogna dire quel che non va. Ma c’è anche da immaginare possibilità, sogni da costruire, speranze. Parlare di scuola oggi vuol dire immaginare una sua rinascita, un cambiamento. Del resto si apprende solo grazie ai cambiamenti. E se lo fanno i nostri ragazzi lo deve fare il Paese. Bisogna partire da una constatazione: non si può guardare alle generazioni future senza permetterne i sogni. Ed è la scuola ben fatta la prima sorgente di quei sogni. Ovunque nel mondo. Eppure, in questa brutta stagione italiana, due tsunami si stanno abbattendo sulle scuole. Il primo tsunami è partito dai tagli lineari del governo. Otto miliardi in tre anni. Che riducono classi, numero dei dirigenti e docenti, ore di scuola e per l’integrazione dei bambini in difficoltà. Il secondo ci arriverà addosso come diretta conseguenza dei tagli agli enti locali, che li costringerà a ridurre i soldi per asili nido, mense, progetti per i giovani, scuole d’infanzia, assistenza ai disabili, edilizia scolastica e sicurezza. Nessun paese occidentale o emergente lo ha fatto, nonostante la crisi.
Oggi siamo a 4,2 % del PIL investito in istruzione, penultimi in Europa. E il "Documento di economia e finanza" (DEF)  approvato a maggio  prevede di far scendere gli investimenti alla scuola fino al 3,4 % di PIL. La media OCSE è 5,7%. E tutti conservano o aumentano i soldi per la scuola. Obama ha appena annunciato investimenti per rispondere alla crisi e tra questi vi sono aumenti agli insegnanti ed edilizia scolastica. Il governo ha operato una scelta folle. Che l’Italia non aveva mai fatto. Né quando, poverissima, iniziò la sua vita di nazione cento cinquanta anni fa, né durante le crisi e le guerre dello scorso secolo. Mai. Perché l’investimento in istruzione contribuisce grandemente allo sviluppo. Infatti ha favorito il nostro boom economico e ora quello di India, Cina, Corea, Brasile. Ci sono sprechi da tagliare? Certamente sì. Ma altro è fare una seria disamina degli sprechi e metterci mano e altro sono tagli che rivelano un massiccio disinvestimento e che, inoltre, si sono operati in modo lineare, senza alcun criterio pedagogico, nella mera ottica del risparmio. Quando tiri via cifre così grandi in questo modo, succedono molte cose diverse e gli effetti sono maggiori della loro somma.
Se aumentano gli alunni per classe diminuisce la possibilità di attenzione rivolta a ciascuno, cala la probabilità di differenziare gli approcci didattici e mettere su laboratori, c’è meno tempo per mettere in contatto le competenze da costruire in classe e le tante cose che i ragazzi imparano anche fuori da scuola. Diventa più difficile creare buone situazioni di verifica e correggere i compiti di ognuno ecc.
Se diminuiscono le ore questi effetti negativi si moltiplicano e, inoltre, c’è meno tempo per parlarsi tra scuole e famiglie.
Se, poi, le nuove immissioni in ruolo dei docenti coprono appena i posti di chi è andato in pensione, allora a gestire le nuove difficoltà sono un numero immutato di precari. I quali cambiano scuola quasi ogni anno. Così diminuisce ancor più la possibilità di costruire una relazione e una costanza di lavoro tra docenti e ragazzi.
Se chi ha difficoltà ha meno sostegno, ciò punisce i più deboli ma anche tutti gli altri.
Se, in aggiunta, questa situazione è governata da un dirigente che non si occupa più di una sola scuola ma di tre – un terzo delle scuole è oggi in questa situazione - allora aumenta il caos e il senso di solitudine di scuole, docenti, genitori.
Fino a quando se ne parla così è un conto. Quando si pensa al proprio figlio ne è un altro. “Perché il prof. non ti ha ancora restituito il compito corretto?” “Perché si sono chiusi i laboratori?” “Perché a Angelina hanno tolto le ore nonostante stesse faticosamente affrontando la dislessia?” “Perché si va meno in palestra?” “Perché non fate più i gruppi di livello di inglese?” Sì, è una follia. Ma anche una miseria umana. Perché qualsiasi comunità che non sa puntare sui suoi figli ha poco cervello ma anche poco cuore. E questo è ancor più vero perché le sfide educative sono aumentate e non diminuite. I modelli educativi sono diventati più fragili e cresce il bisogno di accordarsi tra genitori e docenti. I bambini poveri e la dispersione scolastica non diminuiscono. L’uso diffuso dei media, l’aumento delle complessità del sapere, e delle interconnessioni tra discipline una volta ben distinte o tra teorie e costruzioni pratiche sono tutte cose che comportano un più ricco uso di spazi, tempi e modi di apprendimento.
Le rivoluzioni culturali, politiche, tecnologiche in atto richiedono una scuola più ricca e non certo ridotta a meno ore svolte come ai tempi dei nostri padri. Si impone una radicale riflessione su come cambiare a fondo l’idea stessa di scuola. Un esame di sprechi e conservatorismi inaccettabili è urgente. Molti propongono finalmente stimoli all’innovazione. Ma una stagione di tagli lineari non favorisce affatto queste cose. Si deve subito invertire una rotta basata sul disinvestimento e mettersi nel solco delle politiche internazionalmente accreditate: investimenti efficaci e innovazione. Molte idee già ci sono. Molte scuole creano cose promettenti.
E’ tempo di aprire un cantiere che ridia speranza e opportunità ai docenti, ai genitori e soprattutto ai ragazzi. L’agenda-scuola deve ritornare in cima alla lista.

03 settembre, 2011

Si ricomincia. Dai rifiuti



Già da qualche settimana sono rientrato al lavoro aTrento. Riprendo ora a dire. Domani esce su la Repubblica di Napoli questo mioarticolo, tema i rifiuti… visti da qui e raccontati per come capisco io chestia andando questa battaglia:

I rifiuti sono il grande, perenne tema, anche dei tantinapoletani che vivono lontano. Abbiamo un bisogno folle di toglierci i lunghianni di vergogna dalla faccia. E malediremo sempre chi ce l'ha messa addosso.L’estate è calda qui più che giù. Non c’è brezza dal mare. Per strada mi trovocon alcuni operatori del sociale, emigrati: soldi pagati ogni mese,come non è da noi. Gianni spiega ai colleghi di Trento come è difficile gestirei rifiuti. Ascoltano. Non so se capiscono. Gli dici che ce la faremo e tiguardano in un modo che fa fatica dentro. Franca dice delle telefonate dellesorelle, che raccontano della voglia di pulire della gente del quartiere.
Parto per giù. Incontro Arturo sul solito treno. E’ un ragazzodi Napoli che lavora in un’azienda elettronica in Germania. “Ma il sindaco cela farà con i rifiuti?” Sono i primi di agosto. Arrivo in città. I cumuli delleultime tre volte non ci sono. Nel mio quartiere continua la vigilanza dal bassosull’orario. La gente scende la sera con i sacchetti, disciplinata. Mio figlioe gli altri ragazzi del palazzo differenziano come hanno fatto sempre. Siassumono la fatica di portarli in un altro quartiere. A turno.
A fine mese riparto con le strade sgombre. E appena rientrato alNord, in una solo giornata 4 persone diverse mi chiedono se ci riusciremo, sesi eviteranno nuove crisi.
Ne ragiono dentro di me, guardo i dati. So che la domanda di chiè fuori è la stessa di chi si attiva a Napoli. E’ la sfida per la vita di unacittà. La differenziata è ancora al 17 per cento. E mentre sta per aprirsi lavera battaglia su quel fronte, ci sono da smaltire 1.250 tonnellate al giorno.
Lo racconto a un assessore di qui. Non si rende conto neanchedella cifra, sgrana gli occhi. Gli mostro che, in proporzione alla popolazione,produciamo meno rifiuti… “Sai, siamo piùpoveri, consumiamo di meno”. Annuisce, vuole capire.
La vera battaglia è ladifferenziata. Faccio parte di quelli che lo dicono da sempre. Gli automezzinuovi stanno arrivando. Domani si aprono le buste del bando per i bidoncini:carta, umido, multi materiale, indifferenziata.” “Come da noi!” – dice l’assessore. Mi sembra di stare nel filmBenvenuti al Sud. Gli stereotipi albergano anche nelle persone migliori, cheamano la nostra città. Così lo informo: “Comein tanti comuni virtuosi intorno a Napoli”. “Sai – aggiungo - metteranno ibidoncini sotto i palazzi, ampliando l’utenza da 140 mila a 320 mila persone.Gli indico su un foglio i quartieri. Gireranno strada per strada ad informare.Nei Quartieri Spagnoli - dove non c’è spazio - metteranno i sacchi di coloridiversi in giorni diversi. E’ il mio quartiere. La gente ha voglia di farlo.Nei quartieri dove già è in atto, la percentuale di differenziata è salita congrande rapidità. Chi ha governato prima non aveva voluto credere nella città.”.“E i soldi da dove vengono?” “Circa 9 milioni dal ministro dell’ambiente maintanto e soprattutto da un mutuo” – gli rispondo. “Un muto?” – chiede. “Sì, unmutuo di 43 milioni ottenuto dal Comune. Che serve a gestire il temponecessario a far funzionare la differenziata e intanto tirar via dalle strade esmaltire. Un mutuo che ha ri-finanziato l’Asia, ricapitalizzato”. “Ma l’Asia l’ho vista in tv, era una cosa dabrividi….Non è così” gli dico.Racconto del lavoro all’Asia in questi mesi. Del lavoro tra comune provincia,tra Asia e l’ente provinciale Sapna, della possibilità di un consorzio a breve.
E’ sorpreso. “Ma ora doveva la monnezza e dove andrà mentre si svolge la lunga battaglia per la differenziata?”Descrivo la vicenda, racconto dei luoghi promessi e disdetti. Serre. Savignano.Spiego dei terreni e della densità di popolazione, delle proteste, della faticadi rifare tutto. Ascolta. “Sì, ma dove vala monnezza ora?” La risposta è lunga: “Perora va nel Casertano. Questo è un mese critico, un imbuto. Riaprono le scuole.La discarica molto contestata di Chiaiano ha procedure di controllo in atto eha bisogno di lavori per ottimizzare la capienza. I rifiuti indifferenziativanno agli STIR di Chiaiano, Giuliano. Ci sono ancora code per trattarli.Attese dei compattatori, anche di ore. E’ difficile. Lì vengono tritati,vagliati, divisi, imballati. La parte secca va ad Acerra, dove ora funzionanodue linee. L’umido va in discarica. E questa estate liberata dai rifiuti c’èstata perché il decreto del governo è caduto e perché il consiglio di stato haribaltato il giudizio del TAR; così si sono potuti fare gli accordi conoperatori e enti locali in Emilia e Liguria, tutto con delibere di quelleregioni e secondo i crismi”.“E poi?” – mi chiede. “Poi: andranno prima in Olanda edopo altrove all’estero, fino alla fine dell’anno, con le navi. Grazie a unamanifestazione di interesse già bandita, c’è interesse da parte di tanti”. E comearrivano i rifiuti alle navi?” Gli spiego: “Vengono messi in delle balle nei siti di trasferenza e portati al portograzie a un contratto locale in seguito a un bando e messe sulle navi, portatevia e poi trattati e valorizzati grazie a un altro contratto, con l’estero”. “Ma c’è uno spreco di denaro pubblico..quanto costa?” “Lo spreco c’è e lavia maestra è la differenziata. Ma intanto c’è da smaltire e da creare unflusso proporzionato alla produzione. E costa meno che in Italia: la nave costamolto ma il trattamento pochissimo. Con la concorrenza dovuta al nuovo bando sispera di abbassare i costi”. Annuisce l’assessore del Nord: “Perché non le dite queste cose in giro?”.
Mi allontano. Penso che la battaglia sarà lunga. Ma che vi è unacredibilità nuova che la permette. E che ogni passaggio di questa civile faticava raccontata, fuori e dentro Napoli, con dovizia di particolari. Soprattuttoai cittadini di Napoli. Che capiranno le difficoltà e potranno misurarsi con lacomplessità - che è la base di ogni apprendimento. E che potranno attivarsimeglio sapendo la fatica del percorso. E’ questa la vita democratica.