17 ottobre, 2011

Roma di sabato


Sabato sono stato agli indignatos. Nella serata ho visto riunirsi gruppi pacifici e altri no nel centro di Roma. Mi sono chiesto molte cose dopo avere molto parlato in giro nel corteo e ai bordi. Prima e dopo di quel che è accaduto. Tra le quali: è possibile, finalmente, un “gandhismo occidentale” in questo paese? Oggi La Stampa di Torino ha pubblicato questo mio articolo, col titolo "Lo strappo delle minoranze violente".

Il corteo si sta formando. Giovani dottori e infermieri da anni a contratto. Docenti precari e non. Disabili a cui tolgono aiuto. Operai in cassa integrazione da mesi. Donne giovani e non giovani, spesso con i figli, che stanno perdendo il lavoro e la dignità. Immigrati che lavorano al nero nei campi e nell’edilizia. E tanti ragazzi, universitari e lavoratori. Da Nord e da Sud. E non sono venuti con i bus e i treni speciali pagati dalle grandi organizzazioni ma a spese proprie.
Ci sono i suoni e i colori come gli altri 900 cortei del mondo. Bande, bongos, striscioni costruiti in proprio, teatro di strada. Colpisce l’assenza di astio e faziosità. Non è una piazza anti-berlusconiana. E’ un giorno nel quale nessuno s’interessa più a quel anziano signore del tv color, come se finalmente si sapesse che abbiamo altro da fare.
Cos’è questa piazza? C’è la richiesta di poter fare bene il proprio lavoro o di poterne fare uno. Ma il tema è il mondo che vogliamo. Attenzione: non quello che non vogliamo, cosa più facile. Così, quando parli in giro le parole sono sul come tenere in piedi la cooperativa, come garantire la qualità dei servizi, come inventare lavoro, a chi può servire la cosa che hai imparato all’università. E c’è il chiedersi di mercato, competizione, produzione, senza questa finanza però. E con in testa i vincoli del pianeta, i consumi possibili, un altro modo di lavorare, le conoscenze e le tecnologie che lo rendono possibile. E c’è anche il desiderio o la richiesta o l’attesa di un’altra politica.
Poi ci sono anche le bandiere e gli spezzoni organizzati con i simboli del secolo breve. Mentre li guardo, incontro un’educatrice che conosco. Ha venticinque anni. “Non li guardare troppo – mi dice – sono fatti così, anche oggi devono mettere il loro bollino. Li trovi in ogni città. Vengono alle assemblee. Stanno sul web. Non ascoltano e riportano tutto alle loro ricette”. Sì, in Italia è più difficile che altrove ricercare nuove risposte alle domande comuni. Perché ogni nuovo moto che nasce nel mondo deve fare i conti con la presenza di chi riconduce le cose alle categorie, ai segni e al lessico del secolo scorso, come non accade in altre parti del mondo. Presto la tristezza sparisce però. Il corteo è troppo più grande.
Ma ecco che - fuori da ogni rapporto con le diverse anime della piazza - piccoli gruppi si preparano. Vestiti di nero. Senza alcuna manifestazione di rabbia, in modo preordinato. Tutti con tascapane e casco. Alcuni sono più vecchi. Molti giovanissimi. E’ fuorviante chiamarli black block. Ci rassicura ma non spiega. Forse si deve finalmente dire che si ritrovano insieme professionisti della guerriglia urbana legati all’eco dei brutti miti degli anni settanta e piccole fraternità marginali, fondate sull’esaltazione del gesto distruttivo, giovani che cercano l’identità così, nelle curve degli stadi, nella rissa di quartiere, nell’occasione di piazza. A sera, calata l’adrenalina, li trovi ai soliti bar.
Sulla piazza ancora in formazione si capisce il pericolo. Lo capiamo in molti. Ma non c’è un servizio d’ordine che possa intervenire e la polizia non viene a chiedergli conto. Sarebbe anche difficile farlo. In poche decine di minuti la giornata va a finire male. L’energia positiva viene violentemente scippata nonostante gli sforzi di tanti. Solo qualche spezzone di corteo pacifico, indomito, ce la fa. La frustrazione è enorme. Molte persone piangono. In tanti riconoscono che la polizia non ha attaccato in modo indistinto e che i manifestanti hanno creato un solco profondo con chi ha violato la giornata. Queste due cose hanno evitato esiti ancora peggiori e sono una promessa di possibilità.
Restano le domande. Perché dopo decenni tornano sempre le minoranze violente che tolgono potere ai tanti? Quali lunghe rimozioni permettono ancora questa cosa terribile? Il governo nazionale e una politica bloccate – così chiaramente incapaci di dare risposte alle domande del Paese - non contribuiscono a farci ritornare ogni volta indietro?
Delle cose si possono fare. I processi rapidi e rigorosi, che sapppiano inchiodare chi è stato alle sue responsabilità. Il sostegno - da parte di un movimento che voglia continuare a pensare e a manifestare - della necessità, per chi è stato violento, di scontare la pena. E un dibattito politico che per una volta eviti di avvitarsi intorno ai soliti cliché e dia spazio ai temi di questa piazza. Perché sono preziosi.

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