07 novembre, 2014

E Marianna scoprì il numero pazzo

"I bambini pensano grande. Cronaca di un'avventura pedagogica." (Sellerio editore, Palermo, 2014). Il maestro elementare Franco Lorenzoni spiega in un libro come insegnare “dando il tempo di perdere tempo”. La mia recensione apparsa il 7 Novembre 2014 sul quotidiano La Stampa.

C’è un frammento di Senofane. Gli dei non svelarono agli uomini tutti i segreti:
sono migliori gli esiti di una ricerca lunga. E’ a questo frammento che ho pensato dopo avere letto e riletto il libro del mio amico Franco Lorenzoni.
Un gruppo di alunni di V elementare vogliono misurare l’altezza del castello del loro antico borgo. Il maestro li aiuta a viaggiare nel tempo, all’origine del nostro comune sapere. Scoprono che Talete, duemilaseicento anni fa, durante un viaggio in Egitto, aveva trovato il modo di misurare l’altezza della piramide di Cheope usando l’ombra. Così - mentre studiano l’Egitto antico e il perché era così importante misurare la terra lungo il Nilo e anche come si calcola il passaggio del tempo da allora ad oggi – misurano a gruppi le loro altezze e quelle delle loro ombre alle diverse ore del giorno. Trovano l’ora esatta nella quale le loro ombre sono la metà dell’altezza di ognuno. Poi misurano l’ombra del castello all’ora giusta stabilendone l’altezza. Imparano la geometria così. Come fu originata, sulle orme di una grande maestra della scuola pubblica italiana, Emma Castelnuovo, “dando il tempo di perdere tempo”.

30 settembre, 2014

Campania: rispondere alle attese di buona politica


Questo articolo è stato pubblicato su La Repubblica di Napoli il giorno 30 Settembre.


Sono giornate di ripresa e di turbolenza politica. E non è facile orientarsi. 
La vicenda giudiziaria che riguarda il Sindaco di Napoli è venuta proprio nel momento in cui iniziavano a scaldarsi i motori in vista delle elezioni del consiglio metropolitano ma soprattutto  della lunga campagna per la guida della regione. 
La reazione del Sindaco alla vicenda che l’ha coinvolto è disarmante. Insomma, si sa: le regole possono non essere le migliori; però, una volta date, lo sono per tutti; e lo sono di più per chi ha maggiori responsabilità. Questa è la loro natura, la loro sintassi. Parlare di regole esattamente in questo modo – come ha sempre fatto, con enfasi, il Sindaco - salvo poi smentire questa linea, con toni smaccatamente anti-istituzionali, quando capita a lui, è smentire la sintassi stessa. Per il posto che ricopre (e anche non volendo considerare la sua storia e le sue posizioni pubbliche su analoghe vicende), Luigi de Magistris era chiamato a rispettare i modi e i toni che sono confacenti alle responsabilità istituzionali che riguardano la guida della terza città d’Italia. Non l’ha fatto. Perciò, sulla vicenda in sé, vi è ormai poco da dire. Perché ha detto lui da solo che il suo orizzonte è fuori dalla responsabilità pubblica. 
La cosa, però, assume una forte valenza negativa per i cittadini, ben oltre quel che avverrà al sindaco: sospensione, dimissioni o lento tira e molla.

10 settembre, 2014

Micromega

E' in edicola Micromega n. 6/2014, un numero monografico dedicato alla scuola. All'interno c'è un mio contributo sul fallimento formativo, di cui riporto un piccolo estratto introduttivo. 

"Poiché è onesto esplicitare da quale punto di vista si guardano i fatti, le posizioni dalle quali guardo la “dispersione scolastica” – che è meglio chiamare “fallimento formativo” -  sono più d’una. Ho insegnato nelle scuole primarie in Italia e all’estero e perciò ho esperienza diretta di più modelli di scuola; ho fatto l’educatore sociale mentre facevo l’insegnante e ho imparato a riconoscere, nel concreto, che apprendere è cosa “ben più larga” di imparare a scuola; mi sono occupato di una scuola di seconda opportunità e ho a lungo lavorato, dunque, con ragazzi già fuori dalla scuola mettendo alla prova un modello di apprendimento più flessibile e a misura di ciascuno, sempre pubblico ma “altro e diverso”  - così come raccomanda la Convenzione dei diritti dei bambini di New York  e come ha indicato già Jacques Delors all’avvio dell’Unione Europea ; ho, nel tempo, riconosciuto che non basta “riportare alla scuola così com’è” per riconquistare chi è già fuori dal diritto all’istruzione e che, d’altra parte, la scuola così com’è contiene un forte eccesso di standardizzazione che è con-causa dei fenomeni di “caduta fuori”/droping-out dalla scuola ; ho avuto la possibilità di guardare al sistema scolastico nel suo insieme e non solo da dentro l’esperienza operante, potendo esaminare la grande complessità dei dati che mostrano i punti di tenuta e di innovazione ma anche i molti limiti del nostro sistema; ho potuto avere  il punto di osservazione di chi, insieme ad altri e entro i processi istituzionali, contribuisce alle politiche pubbliche.
Qui vorrei esplicitare, in particolare, due punti di vista dai quali continuo, testardamente, a guardare al fallimento formativo i quali – credo – abbiano sia una connotazione etica e di diritto pubblico che politica. La prima proviene da don Milani. Che ha avuto, per tanti della mia generazione, un’importanza decisiva per come si guarda al mondo e anche per le scelte personali e che, quaranta anni fa, mi ha, in qualche modo, spinto a fare il maestro e a farlo prevalentemente nei luoghi delle povertà educative, luoghi ai quali sono ora tornato, dopo l’esperienza di Sottosegretario di Stato all’Istruzione, con delega anche per la dispersione scolastica. [...]"

Continua su Micromega n. 6/2014

08 settembre, 2014

Un sussulto per il rione martoriato

Un mio articolo apparso su La Stampa del 7 Settembre sulla tragica morte di Davide Bifolco e sulle risposte della politica verso chi cresce nei rioni di Napoli.

Davide Bifolco era poco più che un bambino. Morire così a diciassette anni è terribile. Il dolore dei genitori, dei fratelli e degli amici è terribile. Lo smarrimento di tanti insegnanti, educatori, mister dei campetti di periferia, volontari, parroci, assistenti sociali impegnati ogni giorno in città è grande in queste ore. E la città tutta intera tocca ancora una volta le sue ferite.
Non è proprio il caso di fare ipotesi su come è andata. E’ bene tacere e aspettare le indagini. Certo, un ragazzino non può morire così. Non è ammissibile.
Ma sulla scena che sta intorno a questo strazio non si deve tacere. E per chi non è di Napoli va raccontata questa scena.

27 agosto, 2014

Cosa si chiede a una scuola moderna

Sono giorni in cui si parla di nuovo e molto di scuola e di possibili novità in arrivo. Oggi 27 Agosto La Stampa pubblica una mia riflessione su ciò che si chiede a una scuola moderna. A partire dai ragazzi e dal migliore lavoro dei docenti. 

"Il Presidente del Consiglio fa molto bene a ripetere che il futuro dell’Italia è determinato dal futuro delle nostre scuole. Si vedrà quel che sarà fatto, a partire dal prossimo Consiglio dei Ministri. Ma, intanto, una cosa è certa: sono finiti gli anni cupi del disinvestimento in istruzione, nei quali la nostra scuola - a differenza di tutti i paesi OCSE e di tutte le stagioni della nostra stessa storia nazionale - veniva  considerata una zavorra anziché il più importante degli investimenti.
Ma quale scuola serve per il futuro?
Per rispondere è davvero importante partire dai ragazzi. E dal migliore lavoro dei docenti. E da come le due principali risorse della scuola hanno saputo rispondere al lungo stallo italiano e poi alla crisi. [...] "

L'articolo integrale qui. 

26 luglio, 2014

Con l’altro davanti

E' in libreria "Con l'altro davanti" (ed. Libreria Universitaria) 

Da molti anni ho ripreso a interrogarmi sul significato degli incontri umani – di tutti gli incontri umani, ben oltre la scuola - coma base dell’apprendere e dell’educare. Questo lavoro sui fondamenti mi aveva portato, sette anni fa, anche a riprendere gli studi universitari dopo troppe interruzioni. Ero intenzionato a capirne di più, iscrivendomi alla Pontificia Università Salesiana ma soprattutto leggendo intensamente e con metodo sul tema. Avevo anche un grande bisogno di parlarne in modo libero da schemi e facili conclusioni e, dunque, con una persona e una ricercatrice che, proprio su questo tema, ne sapesse davvero tanto. E’ così che ho costruito una serie di lunghe “sedute di conversazione” con Clotilde Pontecorvo, mia cara amica e maestra; sedute di intervista-conversazione che sono state il centro, poi, anche della mia tesi di laurea.
Clotilde è professore emerito di psicologia dell’educazione dell’università la Sapienza di Roma. Docente universitario di vasta cultura filosofica, pedagogica e psicologica, ha sempre lavorato a contatto con le scuole e gli insegnanti. Membro ascoltato di molti organismi istituzionali, è impegnata da decenni per l’innovazione della scuola pubblica, la formazione dei docenti, l’accurata costruzione dei contesti di apprendimento e la centralità dei temi educativi nella società contemporanea. Ricercatrice di profilo internazionale, ha scritto e curato una ventina di volumi e più di 230 articoli e monografie, dedicati, in particolare, alla complessità dei processi socio-cognitivi, ai contenuti e alla didattica soprattutto di area umanistica e alle interazioni discorsive tra le generazioni a scuola e in famiglia.
Nel conversare con Clotilde sono partito dalla nota affermazione di Martin Buber: “Ogni vita vera è incontro”. Da qui è nato un dialogo molto appassionato che interroga il senso e le prospettive del dialogo stesso. E che è andato avanti e indietro tra la vicenda biografica di Clotilde, la storia degli studi e delle ricerche sul tema, le diverse prospettive e i grandi quesiti intorno alla nozione di altro che attraversano più tradizioni, da quella ebraica a quella cristiana a quella del tempo dei lumi a quella che è a fondamento, con Socrate, della filosofia antica.
Per chi si occupa di scuola e di educazione è un libro che prova anche a mostrare come la ricerca in campo psicologico, pedagogico e delle neuroscienze oggi attesti che il riconoscimento dell’altro sia alla base dell’apprendimento umano.
Per me che c’ho lavorato ne è venuto una sorta di nuovo richiamo all'altro come fondamento, ancora oggi, della possibilità di vivere e operare insieme per la polis.

24 luglio, 2014

Da tutto il mondo

L’altro ieri (22 luglio) sono andato all’incontro di 400 maestre e maestri provenienti da tutto il mondo. Maestri spesso di bambini poveri, in piccole scuole lontane dai grandi centri  (come nella foto) o in scuole piene di bambini e bambine nelle metropoli gigantesche del modo. Sono i maestri che si sono formati e che si ispirano alla pedagogia di Celestin Freinet e della cooperazione educativa. Alla quale mi sono formato quando ho iniziato a insegnare.
Dal 21 al 30 luglio si riuniscono a Reggio Emilia. E lavorano. Tanto e bene. Basta guardare un attimo i soli titoli dei molti laboratori. Sì, solo i titoli dei laboratori formativi  - guardate qui, per favore ci dicono di mondi, di tempo dedicato, di vero confronto tra persone che fanno lo stesso mestiere a migliaia di chilometri di distanza, in contesti diversissimi, eppure….
Tanto ma tanto materiale prezioso, costruito da persone dedicate e capaci e sul merito delle cose. Quanto ci vorrebbe più tempo e pensieri dedicati a queste cose, in questo Paese...

12 luglio, 2014

Quelle barriere che separano le persone dalla bellezza

Questo che segue è il mio articolo uscito su Repubblica Napoli di oggi a commento dell’intollerabile morte di Salvatore Giordano, ragazzo di 14 anni colpito da una pietra caduta da un cornicione storico nel centro monumentale della sua città, vittima innocente della perenne incuria della città di Napoli, ora tutta transennata. E segno di irresponsabilità degli adulti, incapaci di lasciare alle future generazioni i luoghi curati e manutenuti come dovrebbe avvenire in ogni comunità umana.


Sciama il vento di maestrale. La pioggia che è passata ha ridato nitidezza a S. Martino, a Capodimonte, alle centinaia di palazzi messi uno accanto all'altro con maestria, nei secoli; e ridà luce al golfo, che viene incontro com'è ritratto nei quadri ammirati nei grandi musei di Vienna, di Londra, di Parigi, di San Pietroburgo. I dipinti dei migliori pittori d’Europa che volevano mostrare ovunque una delle città più belle al mondo. Da sempre vista così.
Ma in questi giorni così luminosi i turisti che continuano a venire per ammirarci e i cittadini di Napoli sono messi a distanza dai luoghi. Crescono le barriere tra le persone e le bellezze. Ovunque. E ora nel centro monumentale. Il palazzo reale è transennato e vi si accede da un lato che il gruppo dei turisti, uscito estasiato dalla metropolitana, non può trovare. In via Toledo altre transenne impediscono l’ingresso in Galleria. E altre ancora stanno davanti al S. Carlo. Le persone passano, commentano, sentono la città come in una specie di assidua quarantena. Si dispiacciono. Per Salvatore. Per i luoghi deperiti e resi un pericolo. La ragazza napoletana che parla un buon inglese cerca di spiegare alla coppia salita dal porto con la guida in mano che è un’emergenza, che c’è pericolo. La giovane coppia dice che non capisce. La ragazza risponde loro - con un sorriso di vergogna dignitosa - che neanche lei capisce. E ha ragione.

01 luglio, 2014

Dare forza ai potenziali di cambiamento positivi

Un mio articolo apparso sulla Newsletter Nuovi Lavori n. 135 del 24 Giugno 2014 dedicata al tema: "Perchè il Mezzogiorno non si ribella?".

Più che domandarsi perché il Sud non si ribella all’evidenza del declino economico e della marginalità prolungata (pre-esistenti a questa crisi ma da essa aggravati) - che continua a escluderne i cittadini, più che altrove, dalle opportunità e dai diritti civili e sociali - conviene, forse, ritornare a indagare i fattori di cambiamento e quelli di conservazione che convivono sulla scena del Mezzogiorno.
Con uno sguardo a ritroso e uno sull’oggi.
C’è un passaggio della storia del Mezzogiorno al quale, nella riflessione comune, è importante tornare. L’Italia è una Repubblica grazie alla vittoria del referendum costituzionale. Ebbene, quella vittoria ci fu anche grazie al compatto e non scontato voto repubblicano dei contadini e dei braccianti meridionali. La parte più povera, dunque, della società meridionale si rivelò essere fortemente dinamica in un passaggio decisivo. E fu dinamica nonostante due decenni terribili, vissuti proprio da questa parte della popolazione più esclusa dai diritti e dalle opportunità.
Ricordiamolo. Tra il 1926 e il 1941 - mentre vi fu un nuovo aumento demografico più rapido di quello del Nord - la recessione mondiale e la sua gestione da parte del regime fascista imposero la riduzione dei salari agricoli a sostegno dei latifondisti e fecero crollare i prezzi in agricoltura che allora contribuiva per il 70% alla formazione del reddito meridionale. E, intanto, si arrestarono l’emigrazione verso l’America e il flusso delle rimesse degli emigranti, colpiti dalla chiusura all’emigrazione italiana del 1921 e, poi, dalla grande crisi del 1929. Così, la disoccupazione di massa e la miseria investirono soprattutto contadini e braccianti. E non bastarono ad arginarle né l’arruolamento nelle guerre di Spagna e d’Etiopia né le lente politiche delle opere pubbliche (limitata bonifica, estensione delle reti stradali, lavori nelle città), né le fragili protezioni sociali (prima previdenza, piccolo imponibile di mano d’opera). Quel Mezzogiorno legato alla terra e stremato dalla miseria fu portato a conoscenza del grande pubblico italiano e mondiale dal Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi.


30 giugno, 2014

Un evento civile per unire il Paese

L'articolo a mia firma pubblicato su Repubblica Napoli il 28 giugno. Una riflessione sulla violenza negli stadi nel giorno dei funerali di Ciro Esposito.

La folla di Scampia che ha accompagnato Ciro Esposito, riunendo tutta Napoli e anche tanti pezzi d’Italia, è un evento civile di rilevanza nazionale. 

Sì, nazionale. 
Perché quando una folla di migliaia di persone e di tantissimi ragazzi e ragazze di una città ferita piange, in modo così composto, senza proteste né rivendicazioni, un proprio figlio innocente – un ragazzo noto per avere sempre vissuto lontano dalle violenze, un semplice amante del calcio, vittima di follia criminale - vuol dire che un’intera città sta provando a rimettere nell’ordine giusto le cose, a cominciare dalle più sacre e più vere, dalla vita e dalla morte. E sta mostrando che quest’opera di riparazione è possibile ovunque ed è urgente in tutto il Paese.
Per questa straordinaria pagina di civiltà dobbiamo tutti ringraziare una mamma e una famiglia esemplari che si sono sapute fare guida di una città e esempio per l’Italia.  Lo hanno fatto usando ogni volta le parole giuste con equilibrio miracoloso. Lo hanno fatto facendo appello alla parte migliore di ciascuno di noi, per riunire proprio la comunità nazionale, ben oltre le appartenenze calcistiche e i campanili, ben oltre i palazzi di Scampia e la città di Napoli, ben oltre lo stesso amore per il pallone. E quando le persone più colpite, dopo una terribile agonia e una morte così tragica, nel mezzo di un dolore che si fa fatica anche solo a nominare, sanno ricorrere alla propria più profonda spiritualità e a uno spirito repubblicano in senso vero e, da cittadini della Repubblica con una qualità etica fuori dal comune, fanno appello alla pace e ci riescono, vuol dire che la riparazione civile, in questo nostro caro Paese, è possibile. 
Questa riparazione – alla quale ieri siamo stati chiamati - riguarda molte cose. E – sia chiaro - comporta metterci tutti in discussione, affrontare la fatica positiva di interrogarsi su quel che conta e quel che non conta, su ciò che è bene e ciò che è male. Vuol dire lavoro con se stessi e con gli altri, ascolto reciproco, costanza nel mettere da parte le distruttività che ognuno di noi ha e inventare, raccogliere, costruire speranze. 
Questa riparazione non è fatta di parole ma di atti che vanno, appunto, pazientemente messi insieme, uno dopo l’altro.
Il primo di questi atti riguarda la giustizia per Ciro. Se la famiglia di Ciro e una città intera hanno rifiutato ogni parola di vendetta, a maggior ragione la giustizia deve sapersi esprimere nel modo più credibile possibile. La Procura di Roma deve fare bene e presto il suo lavoro, senza ombre e impunità, di alcun tipo. 
In secondo luogo va ricostruita – perché non accada mai più – la catena evidente di errori nella gestione di una giornata che non doveva proprio finire così. Da tale ricostruzione vanno, poi, tratte delle conclusioni circa le responsabilità. 
Ma è tempo di più profondi mutamenti. Ognuno di noi conosce decine di ragazzi che amano il calcio, che non sono violenti, che si accalorano per la propria squadra ma che non si nutrono di odio contro gli altri per cercare una propria identità. Sono ragazzi dei quartieri protetti e di quelli esclusi, che durante la settimana studiano, lavorano, provano, con vere difficoltà, a trovare le vie per farcela in un momento nel quale non è semplice crescere e costruirsi un futuro; e amano, coltivano amicizie e curiosità infinite per il mondo. Questi ragazzi vanno allo stadio perché vivono la passione ludica per il calcio, che è, in tutto il pianeta, la cosa che unisce più persone, la più grande metafora, comune a tutti, delle meravigliose complessità della vita. E per questi milioni di ragazzi, così come per gli adulti, vi è il sacrosanto diritto di raggiungere lo stadio, sedersi, divertirsi e tornare sani e salvi a casa. 
Va finalmente ripristinato un sistema di limiti e di patti che permetta questo.
Le autorità che non sanno garantire neanche le condizioni elementari perché ciò avvenga vanno sostituite. I sistemi di sanzione per le squadre i cui tifosi vanno oltre ogni presidio del limite civile –con l’istigazione alla violenza e il razzismo o con gli atti violenti – deve prevedere una penalizzazione nella posizione in classifica. Alle frange fanatiche e violente di ogni tifoseria va impedito di controllare biglietti e ingressi, di recarsi allo stadio in modo militare, di condizionare il tifo sano in modo intollerabile. Le società di calcio, dopo questo funerale, devono sapere fare un gesto chiaro, scindendo ogni connivenza con quanto non è più accettabile. E anche il giornalismo sportivo deve sapere presto dismettere toni, lessico, costruzioni mentali che nutrono alibi per le violenze.  
E, poi, i capi o i rappresentanti delle tifoserie devono mettersi finalmente in discussione e ripristinare dei patti di onore, fondati sul reciproco rispetto. In ogni ambito umano si formano delle leadership. Quando, però, questi leader portano verso il disastro devono trasformarsi, cambiando radicalmente rotta o essere costretti a farlo. A Roma il 3 maggio scorso – va pur detto – sono stati valicati, da parte di una minoranza fanatica, due ulteriori limiti rispetto a ogni tradizione del tifo: è stato cercato lo scontro fisico da parte di una tifoseria di una squadra che non era in campo quella sera ed è stata usata un’arma da fuoco in una rissa tra tifoserie. 
Ebbene: quando, nelle dinamiche anche conflittuali tra i gruppi umani, si valicano i limiti simbolici ed insieme, concretamente fattuali che questi stessi gruppi si sono implicitamente dati lungo il tempo, secondo codici reciprocamente riconosciuti, è giunto il momento di ritornare presto a un nuovo patto generale, esplicito, costruito in un luogo simbolico e sulla concorde adesione, un patto di pace capace di avere un’autorevolezza tale da isolare per sempre chi non sa aderire a una nuova più ragionevole maniera di confrontarsi intorno a una comune passione. 
E’ questo che devono fare le tifoserie oggi o essere costrette a fare.
Gli adulti che sanno camminare per i quartieri delle città, che fanno gli educatori nelle scuole, nei centri sportivi, nelle parrocchie e che ascoltano i ragazzi sanno che questo è il tempo per ripristinare un presidio dei limiti e anche un onore perduto. Il calcio affianca ogni giorno tutte le attività di milioni di ragazzi e ne plasma e accompagna le idee e le difficoltà, le speranze e le possibilità. La questione calcistica non è – dal punto di vista educativo – una questione come le altre ma in qualche modo le comprende tutte, proprio per la sua potenza metaforica e la sua universalità. 
Perciò è tempo di girare davvero pagina.
E, dopo lo straordinario funerale di Scampia, la città di Napoli, che ama la sua squadra, è chiamata a riprendere una posizione nazionale della quale si è dimostrata all’altezza ieri e perciò – proprio nel nome di Ciro e della sua famiglia – a proporre a ogni tifoseria d’Italia una stagione di pacificazione e di vera riparazione civile. 

27 giugno, 2014

Diamo giudizi ma senza bocciare

Un mio contributo pubblicato su La Stampa del 26 giugno che prende spunto dal dibattito in corso in Francia sui voti e le bocciature.


Da qualche tempo la Francia s’interroga sui voti e sulle bocciature. Questo dibattito di oltralpe è utile anche a noi. Ci aiuta a guardare ai nostri punti di forza o di debolezza. E forse ci suggerisce qualche trasformazione già da tempo matura.
In Italia, come ovunque, sappiamo che bisogna raggiungere presto e bene le conoscenze irrinunciabili, ben descritte nelle indicazioni nazionali dove è detto cosa si deve sapere nelle diverse discipline in seconda, in quinta, in terza media e poi nelle diverse scuole superiori. Perciò, tutti sappiamo che ci vuole qualcuno – la maestra, il prof. – che ti dica: “guarda che questa cosa la sai ma quest’altra non la sai o la sai in parte e la devi e puoi apprendere”.
Il voto numerico è solo un modo, anche abbastanza grossolano, per fare questo. Il principio secondo il quale un adulto educatore vaglia, insieme al suo alunno o studente, le conoscenze e competenze non viene messo in discussione quando si discute del voto numerico. Né in Francia né qui. Quel che si discute oggi in Francia è un sistema centrato su conoscenze misurate solo con prove rigide, secondo scadenze ripetute in tempi non distesi, fin dalle classi elementari, con i docenti a fare medie aritmetiche estenuanti su ogni item di sapere, fino ai decimali e poi o bocciati o promossi. Il dibattito francese guarda finalmente alla possibilità, soprattutto per i più piccoli, di tempi e modi più distesi per favorire e misurare gli apprendimenti – cosa che noi abbiamo iniziato nel 1955.
La Francia, poi, si chiede se abbia senso spingere verso classi separate tutti i bambini in difficoltà (o perché appena arrivati da altri paesi o perché disabili o perché in una qualsiasi situazione di fragilità), dato che altri modelli - come quello italiano – integrano gli alunni con bisogni educativi speciali nella scuola ordinaria dal 1977, con buoni risultati per tutti - secondo l’OCSE.
I nostri vicini si stanno, infine, chiedendo, se la paura della bocciatura sia davvero la leva più utile per apprendere. E questo dibattito ci riguarda, eccome. Quasi tutte le scuole psico-pedagogiche – anche grazie a estese ricerche, ripetute nel tempo e in ogni cultura – pensano il contrario. Noi bocciamo i più piccoli molto di meno dei francesi: 0,2 % alla primaria, 4,3% alle medie. Ma – attenzione! - ancora l’11,8% alle superiori. E bocciamo soprattutto durante la crisi adolescenziale (15-16 anni) e nelle aree del Paese più povere e povere d’istruzione. E la maggior parte di chi viene bocciato entra a fare parte del 17,8% di ragazzi che ritroviamo a 25 anni senza diploma né qualifica professionale; che hanno rare occasioni di recuperare, che faranno lavori con bassi contenuti di sapere o rimarranno inoccupati, con grave danno per loro, per lo sviluppo economico che è fondato sulle conoscenze e per la coesione sociale.
La scuola deve essere più accogliente ma anche più rigorosa, avere percorsi per tutti ma superare gli eccessi di standardizzazione, favorire l’apprendimento laboratoriale rispetto a quello trasmissivo, fare i conti fino in fondo con il carattere permanente della rivoluzione tecnologica con cui i ragazzi si misurano in ogni momento eppure conservare anche modi di apprendere tradizionali.
Ma, detto ciò, non sarebbe meglio strutturare il sistema di conoscenze e competenze richieste per livelli, raggiungibili a scuola o anche dopo la fine della scuola senza dover per forza bocciare? Insomma, è possibile pensare – in Francia e in Italia - a una scuola che abbia un sistema di bilancio partecipativo e di rigorosa certificazione delle effettive competenze sulla base del quale Francesca o Françoise sanno a quale facoltà o programma di apprendimento successivo andare con quanto già sanno o a quale potere andare solo se recuperano quel che non sanno?
Ne vogliamo parlare anche noi?

11 giugno, 2014

Napoli

Dopo le giornate di Repubblica delle idee a Napoli, che hanno visto 50 mila presenze agli eventi, ho scritto questa riflessione sul rapporto tra eventi e la mia città, su Repubblica Napoli del 10 giugno:


In questi giorni di La Repubblica delle idee a Napoli si sono visti di nuovo i segni di speranze e proponimenti. E di nuovo, quasi per incanto, a Napoli si è potuto parlare in modo serio dell’Italia e in Italia di Napoli.
Per i tanti che sono venuti – moltissimi giovani – questo ha dato un senso di possibilità. In fondo: chi l’avrebbe mai detto che nel caldo del primo week end da mare si riempissero teatri, corti, piazze, in silenzio teso, intorno ai grandi temi?
Ma questa volta il sentimento di speranza, autentico, forse si è finalmente accompagnato a un sano tono guardingo, a una sorveglianza, a sentimenti e pensieri di difesa. La città non vuole più illudersi per disilludersi. Ha riempito davvero questo evento. Ma forse con nuovo spirito, più adulto. 

Quando un evento tocca una città, è difficile sapere quanta sia l’influenza più profonda che provoca, cosa viene stimolato nel tessuto civile, quali promesse possono sedimentarsi e a quali condizioni gli stimoli - intorno a idee, analisi, proposte - possono restare più a lungo, nutrirsi per proprio conto, andare oltre l’evento stesso.
Vedremo se avvengono altre cose, se saranno messe in campo, da più parti, proposte più lunghe, se si saprà dare continuità, in qualche forma, a queste stesse giornate.
Vedremo se sarà…

30 maggio, 2014

Opportunità

La vittoria del PD e di Renzi alle elezioni europee è tante cose. L’analisi del voto non la faccio. Dico solo che apre a opportunità, che è una vittoria che, potenzialmente, apre spazi per cambiare le cose, in Europa e in Italia. Sono spazi indispensabili. E sarebbero stati guai grandi se non si fossero aperti.

Le opportunità, però, sono tali se gli obiettivi sono ben definiti e se ci sono delle priorità su cui fare pesare questo voto.
E penso che la priorità vada data ai ragazzi, ai giovani. E tra questi ai giovani più esclusi, più poveri.
In Europa sono molti milioni. Nell’est europeo, in Spagna, in Grecia, in Portogallo e in Italia sono ancor di più in percentuale (per quanto ci riguarda, ieri è uscito il rapporto Istat; vale la pena dargli uno sguardo perché dice molto sull’esclusione dei giovani italiani e sulle loro crescenti povertà.

Insomma, penso che sia davvero urgente che il dibattito pubblico metta al centro le vere priorità per i giovani. E mi piacerebbe che si aprisse un confronto su come rendere effettive, intanto, due priorità per tutti i ragazzi dell’Europa.

Primo. Dare di più ai milioni di ragazzi e ragazze che, nella vita,  partono con meno. Zone di educazione prioritaria nelle periferie e nelle aree più deboli in termini di formazione, istruzione ma anche di lavoro protetto che contenga apprendimento. Risorse dedicate a dove maggiore è la percentuale di persone giovani che escono dal sistema formativo. Alcune linee europee comuni su questo ci sono. Alcune buone pratiche e buone reti pure. Vanno rafforzate. Va fatto un Piano urgente. Il semestre italiano – proprio perché noi siamo uno dei paesi con più ragazzi esclusi – può essere l’occasione per avviare un vero riscatto. Nel Piano vanno messe risorse su cose che si sa che funzionano: scuole e percorsi di seconda opportunità, asili nido e ottime scuole d’infanzia e scuole di base nelle aree di massima esclusione, lavoro protetto per i giovani adulti emarginati con tempo per continuare ad apprendere, aiuto anche alle famiglie in maggiore difficoltà e sistemi di mentoring per i bambini e ragazzi più vulnerabili come i rom, sinti e camminanti, i figli di famiglie migranti e/o in condizione di povertà estrema, i drop-out dei quartieri più in crisi.
I soldi per queste cose vanno subito messi fuori dal fiscal compact. Il bilancio europeo, infatti, deve creare opportunità, altrimenti la stessa idea di Europa, già incrinata, presto si perderà. E, perciò, non può più pensare che si difende “l’equilibrio di bilancio” mentre vi è l’iniquo bilancio per le vite di milioni di giovani esclusi.

Seconda priorità. A tutti i ragazzi europei vanno date, rapidamente, le stesse opportunità che hanno nei paesi dove c’è più attenzione alle nuove generazioni. E’ ormai intollerabile – per ragazzi che attraversano l’Europa senza più frontiere da molti anni – vedere che ci sono differenze enormi su come vengono trattati in termini di effettive occasioni per studiare, acquisire autonomia dalla famiglia, trovare lavoro dignitoso, continuare ad apprendere mentre si lavora, avviare un’impresa, poter fare ricerca, poter riprendere gli studi dopo un periodo di lavoro, essere mobili, accedere a sport, cultura, leisure, ecc. Il welfare per i ragazzi deve raggiungere alcuni standard minimi, inderogabili in termini di formazione continua, welfare per quanto riguarda casa per i ragazzi con basso reddito, residenze universitarie, effettivo sostegno all’Erasmus che sia per tutti ma davvero per tutti, trasporti, fruizione di ogni opportunità culturale (musei, mostre, corsi), possibilità di accedere a lavori dignitosi dove si continua ad imparare, possibilità di ingresso per merito nei luoghi di studio e ricerca nonché accesso a spazi dedicati e a occasioni di partecipazione e decisione sulle scelte per il futuro dell’ambiente, delle città, ecc. Per i nostri ragazzi europei di Napoli, Salonicco, Valencia, Oporto o Bucarest devono rapidamente esserci le cose che già funzionano per i ragazzi europei di Berlino, Copenaghen e Rotterdam. Noi italiani, proprio perché sappiamo che oggi per i nostri ragazzi non è come dovrebbe essere, dobbiamo proporre un’agenda per le opportunità effettive dei giovani che sia un potente grimaldello per scardinare un sistema di esclusione che da noi ha intensità e dimensioni intollerabili.

Ecco: il dibattito e l’agenda politica fondati sulla proposta anziché sull’urlo, dopo queste europee, può partire da come fare queste cose?




19 marzo, 2014

Lasciare il timone. Riprendere la via.

Eccomi di nuovo al mio blog. Che riprenderò, pian piano, a curare.

Non sono più Sottosegretario. Ho ripreso servizio nella mia scuola di Trento. Mi sono, poi, preso un po’ di permesso. Ho bisogno di una pausa. Per riprendere la via.

Nelle ultime tre settimane ho lavorato al passaggio di consegne. Penso che sia doveroso e importante consegnare informazioni e suggerimenti utili affinché le cose iniziate possano essere conosciute e concluse o anche migliorate da chi viene dopo di te. Si tratta, in particolare, delle norme attuative del decreto scuola, degli indirizzi dati per l’integrazione degli alunni con bisogni educativi speciali (BES) e quelli per l’integrazione degli alunni stranieri, dei prototipi contro la dispersione scolastica avviati in Campania, Puglia, Sicilia e Calabria e dell’avvio della nuova programmazione dei fondi comunitari 2014-2020, del sostegno alle scuole d’infanzia, primarie e medie per far sì che le Indicazioni per il curricolo siano valorizzate nel lavoro di ogni giorno dei docenti, dell’approccio innovativo dato sui temi della violenza, dell’omofobia e anche del cinema e teatro a scuola, ecc.

Di quello che ho potuto e saputo fare ho dato conto nei bilanci di mandato 2011/2013 e 2013/2014. A questi bilanci voglio aggiungere poche parole sul mio lavoro in Parlamento. Il mio papà ha fatto sacrifici perché vi fosse un Parlamento, avesse poteri, compiti, misura e regolamenti. Ho lavorato ogni settimana in commissione e in aula, assumendo la posizione del Governo, che mi spettava. Ho capito che si tratta di un lavoro artigianale, complesso, che richiede apprendimento ed equilibrio. Ho provato a esercitare questo lavoro al meglio delle mie capacità. Credo di averlo fatto con “disciplina e onore”. Per farlo ho seguito una bussola: mantenere un grande senso di rispetto per il Parlamento. E per i suoi membri. Anche quando appariva che persone o situazioni sembrassero smentire il senso del luogo ho voluto sempre rispettare quel senso. E penso che sia bene fare così. Ringrazio i parlamentari e i funzionari che mi hanno molto aiutato a mantenere questo buon intento.

E’ importante dare conto. Perché quando si governa lo si deve fare per il bene comune. Oggi si tende troppo a irridere a questo spirito. Si tratta, invece, di qualcosa che ha valore e che va ritrovato. Dalla società, dalla politica. E presto.

E’ vero che si governa entro un sistema complesso di vincoli: le leggi, il Parlamento, il bilancio, la parte che spetta al decisore membro del governo che è di indirizzo e la parte che spetta all'amministrazione, gli equilibri e i giochi della politica per come è e anche dei media, la posizione gerarchica di un Sottosegretario nei confronti del Ministro e del Capo del governo, ecc. Tutte queste cose entrano ogni giorno in gioco,  contano, determinano. E, insieme, formano il contesto movimentato entro il quale si fa o non si fa. Ma poi ci sei tu che agisci, che scegli, che devi rendere conto. E alla fine, nelle condizioni date, hai fatto o non fatto, hai fatto meglio o peggio. Voglio ora dire che credo, onestamente, di avere lavorato bene. Perché penso che i limiti e gli errori siano stati contenuti e che le proposte e le cose fatte siano state pensate e attuate per l’interesse generale e che possono funzionare e avere efficacia.

Vi è un nesso tra fare un bilancio e chiuderlo con un accorto passaggio di consegne. Chi finisce un qualsiasi mandato deve sapersi allontanare da quel campo e lasciare bene il timone per riprendere la sua via. Alla fine di questi due anni di duplice mandato mi è venuto di riflettere sull'origine della parola ‘governare’. κυβερνάω significa, letteralmente, “reggere il timone”. Se lasci il timone devi raccontare la rotta fatta e i suoi perché. Ma poi devi lasciarlo a chi viene, cedendo davvero la posizione. L’attento governo richiede procedure sorvegliate e buoni passaggi. Queste cose hanno un valore in sé ma, in Italia, assumono un valore ulteriore perché vi è troppa sottovalutazione della cura che il governare e i suoi passaggi, a ogni livello, richiedono.

Ringrazio innanzitutto chi ha lavorato ogni giorno con me. Senza di loro non avrei potuto fare alcunché. Ringrazio ancora tutti quelli che mi hanno aiutato, sostenendo, proponendo, criticando. Insegnanti, dirigenti, studenti, genitori, membri delle amministrazioni e funzionari pubblici, colleghi del governo, parlamentari, amministratori locali, persone delle tante associazioni, studiosi, giornalisti, sindacalisti, imprenditori, cittadini. Tutti.
Ringrazio chi mi ha scritto in questi giorni. Li ringrazio anche per i loro grazie.

Sono stato veramente onorato di avere avuto l’opportunità di occuparmi di scuola da una posizione di governo nazionale dopo essermene occupato da quando ho ventuno anni, come docente e proponente di politiche educative. Mi sento anche sollevato perché sono contento di poter pensare ora ad altro. E sento dentro un’aria di libertà, che proverò a esprimere anche in questo luogo. Libertà di riflettere sulle cose delle quali mi sono occupato e di raccontarle da una posizione di ritrovata indipendenza. Libertà di immaginare la scuola e l’educare guardando al lavoro di chi la fa e al come la si può fare meglio. Libertà di pensare, cercare, provare nuovi modi per impegnarsi.



21 febbraio, 2014

Lavori in Corso - Bilancio di Mandato


Cari studenti, insegnanti, dirigenti, cari amici e care amiche,

anche al termine di questo breve mandato da Sottosegretario desidero fare un resoconto del lavoro svolto insieme al Ministro Carrozza e alla squadra che ha guidato il MIUR e in particolare sulle mie deleghe, come contributo alla riflessione e alla discussione sui temi educativi e sulle politiche pubbliche, che credo non debba mai venire meno.

Ho avuto, in questi nove mesi, l’opportunità di proseguire il lavoro iniziato e svolto nel corso del mio primo mandato per una scuola contemporanea, personalizzata, inclusiva ed educante. (...)



14 febbraio, 2014

L'agenda che serve al Sud è l'agenda che serve all'Italia

In risposta alle critiche, ma soprattutto per spiegare le ragioni di una scelta politica: investire 15 milioni di euro contro la dispersione scolastica come politica nazionale, preventiva, per la riduzione dei divari. Un mio articolo oggi su Il Mattino.

Il dibattito sui fondi per la lotta alla dispersione scolastica aiuta tutti noi a riflettere. L’Italia attraversa una fase di grande sofferenza. Alle forme persistenti e ormai ben conosciute di esclusione economica e sociale si aggiungono le conseguenze della crisi economica: aumento della disoccupazione, dei giovani inoccupati e precari, delle famiglie impoverite, degli immigrati senza più impiego. I dati Istat non lasciano dubbi: l’emergenza maggiore è al Sud, dove si concentra il doppio delle famiglie povere rispetto al resto d’Italia. Ma anche al Centro-Nord la situazione è in grave peggioramento, complice il disgregarsi dei servizi di welfare locale, che avevano garantito negli anni una tenuta. Secondo la Comunità di Sant’Egidio nella sola città di Roma ci sono 30.000 bambini in povertà assoluta. 
Conosco bene le forme dell’esclusione sociale precoce del Meridione. Ho trascorso vent’anni della mia vita a lavorare con i bambini e i ragazzi esclusi a Napoli e gli ultimi due anni e mezzo – nel mio ruolo di Sottosegretario all’Istruzione, insieme all’allora Ministro Barca e alle Regioni stesse  – a progettare e monitorare l’uso dei fondi europei non spesi dalle Regioni meridionali per reinvestirli nel contrasto alla dispersione scolastica. E’ per questo che oggi sono attive 206 reti di scuole contro gli abbandoni in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, finanziate con 50 milioni di euro. La lotta alla dispersione al Sud è diventata una priorità delle politiche per la riduzione dei divari sociali. Si tratta di un’occasione importante, dopo i numerosi fallimenti del passato nell’uso delle risorse per il Mezzogiorno. Fallimenti - dovuti sia a scelte nazionali, sia a manifeste mancanze della classe dirigente meridionale - che hanno contribuito negli anni a determinare una riduzione progressiva delle risorse per il Sud e ad alimentare la delegittimazione di ogni politica nazionale incentrata sulla riduzione dei divari ovunque e per tutto il Paese.
A questo strumento dedicato al Sud si è aggiunto pochi mesi fa, con il Decreto “L’Istruzione Riparte”, un ulteriore programma di carattere nazionale di prevenzione degli abbandoni. Le priorità di azione che Governo e Parlamento hanno stabilito sono il contrasto del disagio giovanile causa di abbandoni, il rafforzamento delle competenze di base e anche l’integrazione degli alunni stranieri, presenti, com’è noto, maggiormente nel Centro-Nord. Quando si fanno delle scelte politiche le polemiche non mancano mai. Credo sia giusto riconoscere che il Ministero dell’Istruzione ha scelto una prospettiva nazionale, preventiva, che guarda alla complessità, costruendo uno strumento utile alle scuole per rispondere - con risorse limitate, 15 milioni di euro - a bisogni educativi diversi con azioni diverse e mirate. Questa scelta può servire a ribadire che l’Italia è una e che nella crisi le difficoltà devono unirci. 
Ogni giorno mi chiedo se siano sufficienti le azioni e le risorse messe in campo per la lotta alla dispersione scolastica: la risposta è no. Ma so anche che le risorse da sole non promettono successo. Così i decisori pubblici dovranno valutare con accuratezza gli esiti delle politiche già attuate, riprogrammare altri fondi per il 2014-20, dedicare attenzione speciale alle problematiche delle aree interne. E si dovrà poi finalmente cambiare la scuola con una profondità sufficiente e con abbastanza risorse da trasformare in ordinario ciò che oggi è ancora affidato ai programmi straordinari: una didattica più incentrata sui bisogni di ciascuno e una promozione del merito come conquista e non come destino. Tutto questo andrà integrato con politiche anti-povertà e pro-occupazione, che non siano a pioggia né di tipo assistenzialista, in tutto il Paese e soprattutto nel Mezzogiorno. Iniziando da una formazione professionale degna di questo nome, che al Sud non abbiamo saputo costruire. 
Se il Mezzogiorno saprà cogliere le occasioni che si presentano e la politica nazionale muoversi in queste direzioni, i divari potranno cominciare a ridursi.
Solo allora, forse, potremo uscire dall’alternativa “rassegnarsi o gridare” per mostrare alle classi dirigenti del Paese che l’agenda che serve al Sud – istruzione, lotta alla povertà e all’esclusione, ambiente, occupazione e imprenditorialità – è la stessa agenda che serve all’Italia.